Peculato e pene accessorie: chiarimenti della Cassazione

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 31607 del 1 agosto 2024, ha fornito chiarimenti in merito alle pene accessorie applicabili al delitto di peculato.

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Corte di Cassazione – Sez. II Pen. – Sent. n. 31607 del 01/08/2024

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Indice

1. I fatti

La Corte di appello di Potenza ha confermato la condanna di primo grado nei confronti dell’imputato in ordine al reato di concorso, in qualità di estraneo, al peculato continuato.
Avverso tale pronuncia è stato proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi di doglianza: con il primo si denunciava violazione dell’art. 597, comma 1, cod. proc. pen. in quanto il ricorrente, che non ha mai contestato di avere ricevuto consistenti somme di denaro e di averle dilapidate, ha lamentato la mancanza assoluta di motivazione circa l’inquadramento giuridico della condotta in addebito, sostenendo che la sentenza non ha descritto quella di concorso nel peculato né ha risposto alla tesi difensiva di volerla ricondurre all’ipotesi di reato di ricettazione.
Ad avviso del ricorrente, la sentenza non si sarebbe pronunciata neanche sulla invocata applicabilità dell’art. 116 cod. pen.; sulla richiesta di applicazione della pena accessoria di cui all’art. 32 cod. pen. in misura pari alla condanna patita; sulla invocata esclusione della pena accessoria di cui all’art. 32-quater cod. pen., perché il reato commesso non in danno di un’attività imprenditoriale ma di alcune pubbliche amministrazioni; sulla mancata applicazione dell’interdizione temporanea anziché perpetua ai sensi dell’art. 317-bis cod. pen.
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2. Peculato e pene accessorie: l’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione, nel dichiarare parzialmente fondato il ricorso con riferimento ad alcuni aspetti del trattamento sanzionatorio, osserva che tra le doglianze formulate dal ricorrente vi sono quelle secondo cui la pena accessoria di cui all’art. 32 cod. pen. avrebbe dovuto essere irrogata in misura pari alla condanna patita, mentre quella di cui all’art. 32-quater cod. pen. avrebbe dovuto essere revocata in quanto il reato commesso non in danno di un’attività imprenditoriale ma di alcune pubbliche amministrazioni.
Ebbene, ad avviso della Suprema Corte, il problema consiste nel fatto che al di sotto del limite di pena di cinque anni di reclusione detta pena non può trovare applicazione.
Infatti, il testo dell’art. 32, terzo comma, cod. pen. stabilisce che “il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni è, durante la pena, in stato d’interdizione legale“, dove per tempo non inferiore a cinque anni deve intendersi pari o superiore a detto limite.
La Corte ha chiarito che, conseguentemente, “la pena accessoria in questione applicata all’imputato in relazione alla condanna alla pena principale di quattro anni e otto mesi di reclusione, va eliminata, previo annullamento senza rinvio della sentenza sul punto“.
Per ciò che concerne la pena accessoria di cui all’art. 32-quater cod. pen., la Corte osserva che il ricorrente erra nel postulare l’impossibilità di applicarla poiché il reato sarebbe stato commesso in danno di una Pubblica amministrazione ma non di un’attività imprenditoriale.
Viene omesso, infatti, che detta pena trova applicazione anche quando uno dei reati ivi indicati è stato commesso a vantaggio di un’attività imprenditoriale e che la sentenza di primo grado, confermata sul punto da quella impugnata, ha espressamente affermato che il peculato è stato commesso a vantaggio di un’impresa.
Ad avviso della Suprema Corte, l’aspetto non considerato dal ricorso riguarda, piuttosto, il fatto che il giudice di primo grado ha applicato la pena accessoria nella misura di sei anni di reclusione, che deve ritenersi, però, illegale, dal momento che l’art. 37 cod. pen. stabilisce che “in caso di mancata previsione della durata la pena accessoria si applica in misura pari alla durata della pena principale e quindi nel caso in esame di quattro anni e otto mesi di reclusione“.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione, rielaborando le tesi difensive del ricorrente che ha individuato le norme violate, ma non il punto della questione, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie dell’interdizione legale, che elimina e dell’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, che riduce ad anni quattro e mesi otto.
Nel resto, il ricorso viene rigettato con conseguente condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile.

Riccardo Polito

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