Bancarotta fraudolenta: quando ricorre il reato?

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Quando ricorre il reato di bancarotta fraudolenta di cui all’art.223, co. 2, n. 2, legge fallimentare? Per avere un quadro unitario delle diverse riforme che si sono susseguite nel tempo, si consiglia il seguente volume: Le riforme della giustizia penale

Corte di Cassazione -sez. V pen.- sentenza n. 29294 dell’11-06-2024

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Indice

1. La questione: l’insussistenza di operazioni dolose volte a fare fallire la società (bancarotta fraudolenta)


Il Tribunale di Monza dichiarava l’imputato responsabile, in concorso con altri, del reato di bancarotta fraudolenta per aver causato, attraverso operazioni dolose, il fallimento di una s.r.l..
Ciò posto, avverso questa decisione il difensore dell’accusato ricorreva per Cassazione e, tra i motivi ivi addotti, costui deduceva vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di una condotta concorsuale ascrivibile all’imputato quanto, in particolare, alla ritenuta consapevolezza del compimento delle predette operazioni dolose. Per avere un quadro unitario delle diverse riforme che si sono susseguite nel tempo, si consiglia il seguente volume: Le riforme della giustizia penale

FORMATO CARTACEO

Le Riforme della Giustizia penale

In questa stagione breve ma normativamente intensa sono state adottate diverse novità in materia di diritto e procedura penale. Non si è trattato di una riforma organica, come è stata, ad esempio, la riforma Cartabia, ma di un insieme di interventi che hanno interessato vari ambiti della disciplina penalistica, sia sostanziale, che procedurale.Obiettivo del presente volume è pertanto raccogliere e analizzare in un quadro unitario le diverse novità normative, dal decreto c.d. antirave alla legge per il contrasto della violenza sulle donne, passando in rassegna anche le prime valutazioni formulate dalla dottrina al fine di offrire una guida utile ai professionisti che si trovano ad affrontare le diverse problematiche in un quadro profondamente modificato.Completano la trattazione utili tabelle riepilogative per una più rapida consultazione delle novità.Antonio Di Tullio D’ElisiisAvvocato iscritto presso il Foro di Larino (CB), giornalista pubblicista e cultore della materia in procedura penale. Referente di Diritto e procedura penale della rivista telematica Diritto.it. Membro del comitato scientifico della Camera penale di Larino. Collaboratore stabile dell’Osservatorio antimafia del Molise “Antonino Caponnetto”. Membro del Comitato Scientifico di Ratio Legis, Rivista giuridica telematica.

Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2024

2. La soluzione adottata dalla Cassazione


Il Supremo Consesso reputava il motivo suesposto infondato.
In particolare, la Suprema Corte addiveniva a siffatto esito decisorio in quanto, da un lato, il reato di cui al secondo comma, n. 2, dell’art. 223 I. fall. è un reato a forma libera ed è integrato da una condotta attiva o omissiva, costituente inosservanza dei doveri imposti ai soggetti indicati dalla legge e strutturato intorno ad una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non da una singola condotta, ma da un fatto di maggiore complessità, integrato da una pluralità di atti funzionalmente coordinati nella loro complessiva ed unitaria causa concreta ed eziologicamente idonei alla causazione de fallimento (Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020; Sez. 5, n. 44103 del 27/06/2016), non rilevando, non essendo sempre immediatamente percepibile, il compimento di una singola azione dannosa, ma solo, appunto una pluralità di atti (astrattamente legittimi nella loro dimensione individuale), tra loro funzionalmente concatenati, fermo restando che è solo dalla valutazione sistematica di questi atti che è possibile cogliere la causa concreta dell’operazione posta in essere e, con essa, il pregiudizio subito dalla società, dall’altro, sotto il profilo soggettivo, la fattispecie normativa costruisce il reato come un delitto a dolo generico, dove il fallimento è solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, non essendo quindi necessaria una volontà diretta a provocare il dissesto, dato che basta la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o in un’infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini l’astratta prevedibilità della decozione (Sez. 5 n. n. 45672 del 1/10/2015; conf. Sez. 5 n. 38728 del 3/04/2014; Sez. 5, n. 17690/201), trattandosi pertanto di una sorta di bancarotta “preterintenzionale“, dove ciò che rileva è il collegamento puramente causale con l’evento dipendente da una condotta volontaria intrinsecamente idonea alla causazione dell’evento, accettato nella sua dimensione anche solo potenziale (Sez. 5 n. 38728 del 03/04/2014; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010; Sez. 5, n. 2905 del 16/12/1998).
Ciò posto, per gli Ermellini, la Corte territoriale si era attenuta a questi principi, offrendo una motivazione logica e coerente con i dati processuali emersi nel corso del processo.
Da qui se ne faceva scaturire la reiezione della doglianza summenzionata.
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3. Conclusioni


Fermo restando che, come è noto, l’art. 223, co. 2, n. 2, regio decreto, 16 marzo 1942, n. 267 stabilisce che si “applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell’art. 216[1], se: (…) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”, la decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando ricorre tale illecito penale
Si afferma difatti in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso indirizzo ermeneutico, che sotto il profilo oggettivo, tale reato è integrato da una condotta attiva o omissiva, costituente inosservanza dei doveri imposti ai soggetti indicati dalla legge e strutturato intorno ad una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non da una singola condotta, ma da un fatto di maggiore complessità, integrato da una pluralità di atti funzionalmente coordinati nella loro complessiva ed unitaria causa concreta ed eziologicamente idonei alla causazione de fallimento, mentre, sotto il profilo soggettivo, rileva unicamente il  dolo generico, dove il fallimento è solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, non essendo quindi necessaria una volontà diretta a provocare il dissesto, dato che basta la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o in un’infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini l’astratta prevedibilità della decozione.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare la sussistenza di siffatto reato.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, poiché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere positivo.
 
[1]Ai sensi del quale: “È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti; 2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili. È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”.

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