Elusione inutilizzabilità da parte del PM: Cassazione

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Il Tribunale del riesame aveva annullato il sequestro probatorio del cellulare dell’indagato e di altri soggetti disponendone la restituzione agli aventi diritto. Ma il Pubblico Ministero, prima di restituire i dispositivi, aveva disposto una “ispezione telematica”, con la quale aveva acquisito nuovamente i dati informatici, utilizzandoli poi nella richiesta cautelare e poi posti dal GIP a fondamento della misura detentiva applicata all’indagato. La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31180 del 30 luglio 2024, ha dichiarato che tale modus procedendi ha integrato una violazione del provvedimento giurisdizionale, “neutralizzandone” gli effetti utilizzando – peraltro in modoimproprio – di un atto di ricerca della prova, che era stato ritenuto nullo dal Tribunale del riesame reale. Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista: Formulario annotato del processo penale

Indice

1. Il fatto: l’elusione dell’inutilizzabilità della prova


Il Tribunale del riesame aveva annullato per carenza di motivazione il sequestro probatorio del cellulare dell’indagato e di altri soggetti disponendone la restituzione agli aventi diritto.
Il Pubblico Ministero, prima di restituire i dispositivi, aveva comunque deciso – quindi in presenza già di un annullamento del sequestro – di disporre una “ispezione telematica”, con la quale aveva non solo “ispezionato” il contenuto dei telefoni cellulari ma lo aveva anche acquisito.
In questo modo ha riacquisito i dati informatici utilizzandoli nella richiesta cautelare, tanto che furono posti dal GIP a fondamento della misura detentiva applicata all’indagato.
Evidente che tale ordinanza cautelare, oggetto di ricorso in cassazione, non poteva reggersi su dati probatori così evidentemente illegittimi per cui risultava contraddittoria perché dapprima sosteneva che tali elementi non erano stati utilizzati, quantomeno in riferimento ad alcuni degli addebiti, ma subito dopo si diffondeva in ampie considerazioni in merito alla piena utilizzabilità degli indizi ricavabili dai medesimi in relazione a tutte le contestazioni.
La Corte di cassazione, investita del ricorso, osserva che tale modus procedendi ha integrato una violazione del provvedimento giurisdizionale, “neutralizzandone” gli effetti attraverso l’utilizzo – peraltro improprio – di un atto di ricerca della prova, che era stato ritenuto nullo dal Tribunale del riesame reale.
Si tratta di una chiara presa di posizione, da parte della Suprema Corte, nel rispetto di un provvedimento giurisdizionale, che non può essere bypassato dal Pubblico Ministero ricorrendo all’escamotage di riacquisire, peraltro con un mezzo di ricerca della prova non previsto dal codice e incidente su una libertà fondamentale, ciò che è stato dichiarato nullo dal Tribunale.
La sentenza ricorda pure come, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 170/2023 e di quanto deciso dalle Sezioni Unite nelle due recenti pronunce che si sono occupate dell’utilizzo della messaggistica (Cass. pen., Sez. Un., nn. 23755 e 23756, entrambe del 29/2/2024), le chat, consistendo in messaggi, costituiscono non mera documentazione acquisibile ex art. 234 c.p.p., ma “corrispondenza informatica” che, tutelata dall’art. 15 Cost., doveva essere acquisita attraverso un provvedimento di sequestro ex art. 254 c.p.p., nella specie non intervenuto. Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista: Formulario annotato del processo penale

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2. Una prova “incostituzionale”


Richiamando il precedente delle Sez. Unite che avevano adottato il principio del male captum, bene retentum, secondo cui l’eventuale illegittimità dell’atto di perquisizione compiuto ad opera della polizia giudiziaria non comporta effetti invalidanti sul successivo sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che costituisce un atto dovuto a norma dell’art. 253, comma 1, c.p.p. (da ultimo, v. Cass. pen., n. 16065 del 10/1/2020, G., Rv. 278996 01), la sentenza se ne distacca osservando che “nel caso di specie è la stessa acquisizione dei dati a risultare illegittima, in quanto effettuata in violazione del provvedimento del Tribunale del riesame che, avendo annullato il sequestro e disposto la restituzione del telefono all’avente diritto, ha privato il Pubblico ministero del potere di ulteriormente incidere sul bene che non avendo natura intrinsecamente criminosa, ma essendo stato, eventualmente, utilizzato per commettere il reato non è neppure soggetto a confisca obbligatoria” (v. in termini Cass. pen., Sez. VI, n. 34088 del 7/7/2003, L., Rv. 226687 – 01).
La Corte aggiunge che “i dati acquisiti in modo illegittimo non sono utilizzabili neppure nella fase delle indagini e a fini cautelari”. Ritiene infatti che gli elementi indiziari derivanti dalla ispezione informativa siano affetti da “inutilizzabilità patologica”, nel senso che “rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall’inutilizzabilità, non solo le “prove oggettivamente vietate”, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla “legge” e, a maggior ragione quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione”.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 34/1973 ravvisò l’esistenza di “divieti” probatori ricavabili in modo diretto dal dettato costituzionale, enunciando il principio per cui “attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”.
Il suddetto principio ha consentito l’elaborazione della categoria delle prove cosiddette “incostituzionali”, cioè di prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in violazione dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione, da considerarsi perciò inutilizzabili nel processo».
(Si veda la Cass. pen., Sez. VI, n. 15836 del 11/1/2023, B., Rv. 284590 01, che ha affermato il principio secondo cui in tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, non sono utilizzabili nel giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a utenze telefoniche o telematiche, contenuti nei tabulati acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, in violazione dell’art. 132, comma 3, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto prove lesive del diritto alla segretezza delle comunicazioni costituzionalmente tutelato e, pertanto, affette da inutilizzabilità patologica, non sanata dalla richiesta di definizione del giudizio con le forme del rito alternativo).
La sentenza in commento specifica che “nel caso in esame la “patologia” deriva proprio dalla violazione del provvedimento giurisdizionale cui è conseguita una illegittima violazione della sfera di riservatezza al di fuori dei presupposti declinati dall’art. 15 Cost.”.
Tale disposizione stabilisce che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili e che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
Conclude perciò la sentenza che “nel momento in cui la competente autorità giudiziaria ossia il Tribunale del riesame – ha accertato l’assenza di idonea motivazione a fondamento del sequestro probatorio operato dal PM, disponendone l’annullamento e ordinando la restituzione dei beni appresi agli aventi diritto, è evidente che l’ulteriore compressione della sfera costituzionalmente tutelata, attuata tramite l’ispezione informatica, si pone fuori dal rispetto del perimetro delle garanzie derivanti dall’art. 15 cit.”. Con l’ovvia conseguenza della inutilizzabilità delle chat che non possono essere quindi valutate neppure in sede cautelare (Cass. pen., Sez. Un., n. 16 del 21/6/2000, T., Rv. 216246-01; Cass. pen., Sez. IV, n. 31304 del 18/5/2005, B., Rv. 231739 – 01; Cass. pen., Sez. III, n. 44926 del 27/9/2023, B., Rv. 285316-02).

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3. Il superamento del principio male captum bene retentum, verso il riconoscimento del “frutto dell’albero avvelenato”


Il principio di diritto affermato dalla sentenza incide travolgendolo il consolidato brocardo male captum, bene retentum. Infatti, non vi è alcuna sostanziale differenza tra la fattispecie ora esaminata e quella che fu oggetto della pronuncia delle Sezioni unite: in quest’ultima la perquisizione fu dichiarata illegittima perché eseguita in difetto dei presupposti indicati dall’art. 103, comma 3, D.P.R. n. 309/1990, così come nella fattispecie ora esaminata il Tribunale del riesame aveva annullato – per carenza di motivazione – il sequestro probatorio del cellulare dell’indagato.
In entrambe le fattispecie, quindi, vi è un vulnus alla giurisdizione, o, come si esprime la sentenza in commento, una “violazione del provvedimento giurisdizionale cui è conseguita una illegittima violazione della sfera di riservatezza al di fuori dei presupposti declinati dall’
art. 15 Cost.”.
È vero che nel “caso S.” si trattava della detenzione illegittima di 31 grammi di cocaina, che rendeva obbligatorio il sequestro del corpo del reato, mentre nella fattispecie ora all’esame della Corte oggetto del sequestro erano alcuni telefoni cellulari, ma in quest’ultimo caso, a differenza del primo, è in gioco la compressione di un valore costituzionale, il che rende di per sé “incostituzionale” la prova.
Pertanto, è stato affermato un nuovo principio di diritto che si discosta profondamente dalla consolidata giurisprudenza della Corte e impone un nuovo intervento delle Sezioni unite per riconoscere non solo il primato del giudice sul pubblico ministero – che va inquadrato nella sua propria dimensione di vera e propria parte – ma anche l’“inviolabilità” della libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni.

Michele Di Salvo

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