In data 15 febbraio 2024 il Parlamento ha approvato il disegno di legge di ratifica del Protocollo tra Italia e Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, stipulato a Roma il 6 novembre 2023. Tale accordo entrerà in funzione in questi giorni, ma con sentenza del 4 ottobre 2024 la Corte di giustizia europea ha ribadito il controllo della giurisdizione sulle decisioni amministrative precisando che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, aggiungendo, altresì, che il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro. Sulla base di tale interpretazione anche talune procedure di rimpatrio nei confronti di cittadini stranieri che a breve saranno ricoverati nei centri di detenzione in Albania potrebbero essere annullate dall’autorità giudiziaria competente. Per l’approfondimento consigliamo il volume: Immigrazione, asilo e cittadinanza
Indice
1. Il trattato con l’Albania e le decisioni della Corte costituzionale albanese
In data 5 dicembre 2023 il Consiglio dei Ministri, ha approvato un disegno di legge di ratifica del Protocollo tra il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania e il Governo della Repubblica italiana per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, stipulato a Roma il 6 novembre 2023.[1]
Il documento prevede che nei due centri previsti sul territorio albanese potranno essere condotte “esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”. In sostanza, questo accordo sarà applicato solo peri migranti soccorsi in acque extraeuropee, perché, in caso contrario, la deroga alle norme nazionali prevista dal disegno di legge sarebbe stato inevitabilmente in contrasto con quelle del diritto europeo che si applicano in territorio o in mare europeo.[2]
I due centri in questione sorgono nei pressi del porto di Shengjin, (in italiano San Giovanni Medua), una frazione del comune di Alessio, nella costa nord dell’Albania a una sessantina di chilometri da Tirana e a Gjader, villaggio dell’entroterra dove si trova una ex base sotterranea dell’aeronautica militare.
Il testo autorizza alla ratifica del Protocollo, ne ordina l’esecuzione e introduce disposizioni di coordinamento, di organizzazione, in materia di personale e di spese, di giurisdizione e per l’individuazione della legge applicabile, anche penale sostanziale e processuale penale.[3]
Tra le misure principali è disposta la clausola di equiparazione delle due aree previste dal Protocollo alle zone di frontiera o di transito indicate dal decreto legislativo n.25/2008, nelle quali si prevede l’espletamento delle procedure accelerate in frontiera. Tali aree sono assimilate rispettivamente agli hotspot e ai centri di permanenza per il rimpatrio di cui al Testo unico sull’immigrazione. Nei confronti dei migranti è sancita l’applicazione della disciplina italiana e, quindi, europea in materia di immigrazione e di ammissione degli stranieri nel territorio nazionale, con contestuale individuazione esplicita della competenza del Tribunale di Roma che potrebbe aggravare il lavoro di tale organo giudiziario e rendere più difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa.
Viene, anche, stabilito che nei confronti degli stranieri presenti nelle strutture del Protocollo è garantito il rispetto di tutti i diritti previsti dalla normativa generale italiana ed europea in materia.
Anche per la realizzazione e gestione delle strutture site in territorio albanese, il testo prevede a tal fine una generale clausola di deroga, in materia di contratti pubblici, ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale, del codice delle leggi antimafia e dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea che potrebbe rendere più difficile il monitoraggio degli appalti al fine di prevenire eventi corruttivi.
Per quanto concerne la disciplina amministrativa, viene individuata la competenza del Prefetto, del Questore e della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con costituzione ad hoc di apposite sezioni di Roma per i provvedimenti da adottare nei confronti dei migranti.
Con riferimento, invece, alla tutela della sicurezza il disegno di legge stabilisce che lo straniero che commette un delitto all’interno delle strutture del Protocollo sia punito secondo la legge italiana se vi è la richiesta del Ministro della giustizia (ferma la necessità della querela della persona offesa, ove si tratti di reato procedibile a querela). La richiesta del Ministro non è necessaria per i delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni.
Si prevedono anche la competenza dell’autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria italiane nelle aree individuate dal Protocollo quando è esercitata la giurisdizione penale, la trasmissione nei casi di arresto in flagranza o fermo del verbale, entro quarantotto ore, al pubblico ministero di Roma e che, nelle successive quarantotto ore, si svolga l’udienza di convalida presso il Tribunale della stessa città.
Inoltre, nel caso in cui il giudice applichi la misura cautelare della custodia in carcere, l’indagato è trasferito presso una struttura idonea ubicata nelle aree del Protocollo che quindi viene assimilata agli istituti penitenziari determinando una pericolosa commistione tra detenuti e internati.
Si prevede, infine, che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando è acquisita la prova dell’esecuzione del rimpatrio dell’autore, con due eccezioni: 1. delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; 2. imputato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere, finché la misura non è revocata o dichiarata estinta. Si tratta di una semplificazione di natura processuale che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe favorire il rimpatrio degli stranieri nei Paesi di origine.
In merito a tale accordo è intervenuta la Corte costituzionale di Albania la quale, a differenza di quanto avviene in Italia, ha anche la facoltà di effettuare un controllo preventivo dei trattati internazionali.
Proprio tale Corte in data 13 dicembre 2023 ha sospeso le procedure parlamentari per la ratifica dell’accordo sottoscritto dalla premier italiana Giorgia Meloni e il suo omologo di Tirana Edi Rama.[4]
La Corte ha accolto due ricorsi proposti, in sede separata, dal Partito Democratico albanese e altri 28 deputati appartenenti al movimento politico dell’ex premier Sali Berisha. Nei rilievi si sostiene che l’intesa violi la Costituzione e le convenzioni internazionali sottoscritte da Tirana, circostanza che impone la sospensione alla ratifica parlamentare fino alla decisione di merito della Corte.
Secondo il dispositivo della Corte, rinunciare alla sovranità nei due territori previsti per la realizzazione di centri di accoglienza per migranti è un atto che avrebbe dovuto essere preventivamente autorizzato dal presidente della Repubblica.
Infatti, il ricorso presentato dalle opposizioni al governo di Tirana si basava sostanzialmente su questa contestazione. Pertanto, la Corte costituzionale albanese, in extremis, ha sospeso la procedura parlamentare e, quindi, l’applicazione del protocollo.[5]
Successivamente, però, in data 29 gennaio 2024, la stessa Corte ha respinto in toto le questioni sollevate dai deputati dell’opposizione secondo cui l’Albania, accettando l’accordo, “perde territorio lasciando all’Italia la gestione dei campi a Shengjin e Alessio”. L’altra questione che per i giudici albanesi non sussiste è quella secondo cui l’accordo viola i diritti umani internazionali degli immigrati, poiché l’attuazione della Convenzione di Ginevra “è garantita”. In ragione dell’analisi dell’accordo, alla luce di quanto stabilito dalle parti e respinte le obiezioni dell’opposizione, la Corte costituzionale albanese ha considerato la decisione conforme alla Costituzione e ha chiesto all’Assemblea di ratificarla.[6]
Sulla base di tali presupposti, in data 22 febbraio 2024, il parlamento albanese ha approvato l’accordo con l’Italia sul trasferimento di migranti nei due centri in Albania e successivamente la legge è stata promulgata dal presidente Bajram Begaj.
Nelle more, il Parlamento italiano in data 15 febbraio 2024 aveva approvato in via definitiva il citato disegno di legge di ratifica del Protocollo tra Italia e Albania. Per l’approfondimento consigliamo il volume: Immigrazione, asilo e cittadinanza
Immigrazione, asilo e cittadinanza
Obiettivo degli autori è quello di cogliere l’articolato e spesso contraddittorio tessuto normativo del diritto dell’immigrazione.Il volume, nel commento della disciplina, dà conto degli orientamenti giurisprudenziali e delle prassi amministrative, segnalando altresì la dottrina “utile”, perché propositiva di soluzioni interpretative utilizzabili dall’operatore (giudici, avvocati, amministratori, operatori nei diversi servizi).Il quadro normativo di riferimento di questa nuova edizione è aggiornato da ultimo alla Legge n. 176/2023, di conversione del decreto immigrazione (D.L. n. 133/2023) e al D.lgs n. 152/2023, che attua la Direttiva UE/2021/1883, gli ultimi atti legislativi (ad ora) di una stagione breve ma normativamente convulsa del diritto dell’immigrazione.Paolo Morozzo della RoccaDirettore del Dipartimento di Scienze umane e sociali internazionali presso l’Università per stranieri di Perugia.
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2. La sentenza della Corte di giustizia europea in data 4 ottobre 2024
Con sentenza n. C-406/22 del 4 ottobre 2024 la Corte di Giustizia dell’Unione europea, in un caso riguardante un richiedente asilo moldavo giunto nella Repubblica ceca, ha stabilito che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, aggiungendo che “Il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro“.[7]
Al riguardo si osserva che, in un’ordinanza in data 17 settembre 2024 del Tribunale di Catania si faceva proprio riferimento al caso che adesso è stato deciso dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Il giudice catanese osservava che “solo per completezza di trattazione della fattispecie giuridica, appare opportuno aggiungere che, nel caso in cui il richiedente non avesse allegato ragioni idonee a superare la presunzione di sicurezza dell’Egitto nel suo caso individuale, il Tribunale avrebbe dovuto considerare più in generale la vicenda alla luce della pendenza di rinvii pregiudiziali sollevati davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea dal Tribunale di Brno (Repubblica ceca) con rinvio del 20.06.2022 (procedimento C-406/2022) e dal Tribunale di Firenze con due ordinanze del 15.05.2024 (in procedimenti sub r.g. 2458/2024 e 3303/2024). I Tribunali di Brno e di Firenze hanno, infatti, chiesto alla Corte di giustizia di chiarire se il diritto dell’Unione europea, e in particolare gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32/UE (Direttiva Procedura Recast) debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno stato membro designi uno Stato come Paese di origine sicuro con esclusione di zone territoriali del Paese (quanto a Brno) e con esclusione di categorie di persone a rischio (quanto a Firenze), nei confronti delle quali non si applica la presunzione di sicurezza e se quindi, in tal caso, il Paese nel suo complesso non possa essere considerato sicuro ai sensi della Direttiva.”.
Secondo quanto comunicato dalla Corte di Giustizia UE nel caso in esame “il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. Inoltre, il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di una decisione amministrativa in materia di protezione internazionale deve rilevare d’ufficio, nell’ambito dell’esame completo ad esso incombente, una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di paesi di origine sicuri”.
In particolare, “L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che: quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate da richiedenti provenienti da paesi terzi designati, ai sensi dell’articolo 37 di tale direttiva, come paesi di origine sicuri, tale giudice deve, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dall’articolo 46, comma 3, rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati alla sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso pendente, la mancata conoscenza delle condizioni materiali di tale designazione, enunciate nell’allegato I di detta direttiva, anche se tale mancanza di conoscenza non è espressamente invocata a sostegno del ricorso”.
Il riconoscimento del diritto/dovere del giudice nazionale di applicare direttamente i criteri di valutazione imposti dalla normativa europea, anche in contrasto con provvedimenti o decreti di natura amministrativa adottati a livello nazionale, appare quindi di grande rilevanza.
Con riferimento al caso specifico, riguardante un cittadino moldavo, la Corte ha affermato che “un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere
designato paese di origine sicuro per il solo fatto che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)”. Ma la considerazione che può valere per un paese membro del Consiglio d’Europa, come la Moldavia, e dunque tenuto al rispetto della Convenzione EDU, che ha temporaneamente e parzialmente sospeso, non si può non estendere ai paesi di origine sicuri inseriti nella lista formata in Italia dal ministero dell’interno, che evidentemente non fanno parte del Consiglio d’Europa. Si tratta di Paesi caratterizzati da gravi conflitti interni e da intere aree dei loro territori nelle quali non viene garantita la sicurezza delle persone, e spesso neppure la loro libertà e la stessa vita. Un elenco di Stati che i giudici nazionali stanno rimettendo in discussione, riconoscendo uno status di protezione ai richiedenti asilo provenienti da questi paesi. Chi non proviene da un paese di origine “sicuro” potrebbe aver diritto ad una trattazione della sua richiesta di protezione secondo la procedura ordinaria, senza alcuna limitazione della libertà personale, ma con il tempestivo inserimento nel sistema di accoglienza.
Ciononostante, le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, anche prima dell’effettiva audizione degli interessati, continuano ad applicare alle persone provenienti da questi paesi le procedure accelerate in frontiera, che comportano la detenzione generalizzata e una generale difficoltà a fornire elementi probatori per il riconoscimento di uno status di protezione. In questa materia, dopo la menzionata decisione della Corte di Giustizia UE, la Commissione nazionale per il diritto di asilo dovrebbe fornire indicazioni ai presidenti delle Commissioni territoriali per applicare la categoria di “paese di origine sicuro” in senso conforme alla normativa dell’Unione europea.
E ciò anche per evitare un aumento esponenziale dei ricorsi giurisdizionali, quando, a breve, il governo avvierà “procedure accelerate in frontiera” nei centri di detenzione previsti dal Protocollo Italia-Albania.
Si sottolinea che, in base alla citata legge con cui il Parlamento ha ratificato il menzionato protocollo siglato con l’Albania, nei centri posti sotto giurisdizione italiana saranno condotti solo cittadini provenienti da Paesi d’origine designati come sicuri. Ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, la normativa europea prevede che gli Stati membri possano stilare una lista di tali Paesi, quella che l’Italia ha aggiornato con un decreto interministeriale lo scorso 7 maggio.
Al riguardo si rileva la maggior parte dei Paesi che il governo italiano considera “sicuri” potrebbero escludere determinate aree o categorie di persone per le quali, secondo il ministero degli Affari Esteri e della cooperazione sociale, quei Paesi non sono da considerare del tutto sicuri.[8]
In sostanza con la citata sentenza del 4 ottobre 2024 Corte Ue chiarisce come debba essere interpretato l’articolo 37 della direttiva europea 2013/32 che regola la materia e censura di fatto la possibilità di trattenere, ai fini delle procedure accelerate, chi proviene da Paesi parzialmente sicuri, in Italia come in Albania.
Come detto, alle procedure, che rispetto a quelle ordinarie prevedono tempi ridotti e minori garanzie per il richiedente, potranno accedere solo uomini adulti originari dai Paesi “sicuri”. Oltre ad Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia, e Tunisia, l’attuale governo ha inserito quest’anno anche Bangladesh, Sri Lanka, Camerun ed Egitto, da cui provengono molti migranti che attraversano il Mediterraneo, ma anche Colombia e Perù. Secondo la direttiva europea 32/2013, “un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Tuttavia, come avviene anche in altri Stati Ue, il governo italiano ha designato come sicuri anche Paesi per i quali ha escluso alcune aree o categorie di persone. Le ragioni sono contenute nelle “schede paese” allegate al decreto interministeriale che designa i Paesi sicuri.
Per la Tunisia, ad esempio, i cui cittadini sono al terzo posto per numero di sbarchi nel 2024, alla voce “eventuali eccezioni per parti del territorio o per categorie di persone” si legge: “Comunità LGBTQI+”. Perché, spiega la scheda preparata dalla Farnesina, “l’art. 230 del Codice penale sanziona rapporti omossessuali consensuali con tre anni di reclusione”. Sempre esaminando le schede dei Paesi da cui parte chi prende la rotta del Mediterraneo centrale, e quindi le persone che l’Italia vorrebbe portare nei centri in Albania, in quella dell’Egitto si rileva che il Paese non può considerarsi sicuro per “per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera e) del Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251″.
Per quanto concerne il Bangladesh la scheda prevede: “Comunità LGBTQI+, vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, persone accusate di crimini di natura politica. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”.
Insomma, ad esclusione della Siria che già non rientra nella lista del governo, tre dei quattro principali Paesi di origine dei migranti che attraversano il mare sono considerati “sicuri” in modo parziale.
La prassi di escludere aree o categorie era contemplata dalla direttiva europea n.85 del 2005, che però è stata abrogata dalla menzionata direttiva n.32 del 2013, quella che attualmente regola la materia. Pronunciandosi sul citato ricorso di un cittadino moldavo che aveva chiesto protezione internazionale in Repubblica Ceca, la Corte di giustizia Ue ha chiarito come la direttiva in questione debba essere interpretata. Le autorità ceche, infatti, avevano respinto la richiesta del cittadino moldavo tenendo conto, in particolare, del fatto che la Moldavia, ad eccezione della Transnistria, era stata designata paese di origine sicuro.
I giudici di Lussemburgo hanno quindi dichiarato che il diritto dell’Unione impedisce che uno Stato membro designi un Paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. A conferma di questa interpretazione, la Corte cita il legislatore europeo che, abrogando la precedente direttiva, si è pronunciato espressamente contro designazioni parziali e proprio per evitare l’abuso dell’esame accelerato delle domande d’asilo. Secondo i giudici “Interpretare l’articolo 37 della direttiva 2013/32 nel senso che consente ai paesi terzi di essere designati come paesi di origine sicuri, ad eccezione di alcune parti del loro territorio, avrebbe l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione di questo particolare esame. Una siffatta interpretazione, non trovando alcun sostegno nella formulazione di questo articolo 37 né, più in generale, in questa direttiva, misconoscerebbe l’interpretazione restrittiva a cui devono essere sottoposte le disposizioni aventi carattere derogatorio”. Dunque, “è necessario che le condizioni materiali di tale designazione (dei Paesi di origine sicuri, ndr) siano soddisfatte per l’intero territorio del paese terzo interessato”. Lo stesso deve dirsi per l’esclusione di categorie di persone, contemplata nel 2005 e abrogata nel 2013 dallo stesso articolo 37 che, spiega oggi la Corte, non ammette interpretazioni estensive.
Inoltre, la stessa Corte ha stabilito che il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di un atto amministrativo in materia di protezione internazionale, come il trattenimento ai fini delle procedure accelerate in frontiera, ha l’obbligo di rilevare d’ufficio una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di Paesi di origine sicuri.
Quindi, i magistrati competenti, che nel caso dei trattenimenti in Albania saranno quelli del Tribunale di Roma, dovranno applicare la direttiva europea nel modo in cui la Corte ha stabilito.
Pertanto, nell’ipotesi in cui la Questura chiederà la convalida del trattenimento di un cittadino tunisino per l’esame accelerato della sua domanda, secondo i giudici europei, il giudice italiano potrebbe negarla, perché la Tunisia non può essere considerata Paese sicuro visto che non lo è per una parte dei suoi cittadini. Per cui, se l’Italia deciderà di portarli nei centri in Albania, potrebbe essere costretta a riportarli in Italia dove le loro domande verranno esaminate con procedura ordinaria e senza poterli trattenere.
Al riguardo, il governo potrebbe obiettare che la nuova normativa del Patto migrazione e asilo approvata quest’anno dal Parlamento Ue contempla nuovamente la possibilità della designazione parziale, ma la formula è diversa e, secondo la Corte Ue, imporrà agli Stati membri una revisione delle designazioni; in ogni caso bisognerà attendere che la riforma sarà operativa, nel giugno 2026. Fino ad allora, dovrebbe valere quanto stabilito dai giudici europei con la sentenza in argomento.
Una prima applicazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea si è avuta il 10 ottobre scorso quando il gip del Tribunale di Palermo ha annullato il trattenimento per alcuni cittadini tunisini entrati in Italia. Provenendo da un Paese considerato sicuro, il questore di Agrigento aveva emesso un provvedimento di trattenimento per la procedura accelerata da svolgersi in frontiera che prevede la possibilità di trattenere il migrante se proviene da un Paese «sicuro» e se ha presentato la sua domanda solo dopo essere stato fermato per aver eluso i controlli di frontiera. Il provvedimento riporta una motivazione analoga a quella della sentenza del giudice europeo: non è sicuro il posto da cui provengono i migranti e quindi non è legittimo trasferirli nel Paese di origine.
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3. Conclusioni
I timori rappresentati da più parti sulla legittimità dell’approvazione del disegno di legge di ratifica del protocollo con l’Albania hanno trovato un primo riscontro nella citata decisione della Corte di Giustizia Europea.
Infatti, tali disposizioni, non eliminano in taluni casi, anche i dubbi di legittimità costituzionale italiana e di contrasto alla normativa europea, come accertato anche dalle ordinanze del Tribunale di Catania e di altri giudici italiani sotto la vigenza del decreto legge n.133/2023 convertito in legge 1° dicembre 2023, n. 17.
In particolare, l’equiparazione delle aree albanesi agli hotspot e ai centri di permanenza per il rimpatrio di cui al Testo unico sull’immigrazione riproporrà le stesse problematiche previste dalla normativa di cui allo stesso decreto legge n.133/2023 e sconfessate dalle citate ordinanze giurisdizionali. Inoltre, non si può ignorare che un punto fermo sulla questione è stato apposto della citata decisione della Corte di Giustizia europea dello scorso 4 ottobre, anche in ordine alla procedura seguita dai giudici italiani sulla quale il governo ha espresso delle riserve.
Si ritiene, altresì, che solo la completa attuazione dell’accordo raggiunto in data 4 ottobre 2023, ratificato dal Parlamento europeo il 10 aprile 2024, tra i 27 Paesi europei sul testo chiave del regolamento delle crisi dei migranti, improntato alla solidarietà obbligatoria, potrebbe attenuare il rilevante fenomeno migratorio attualmente in atto. E ciò anche se lo stesso accordo non sembra realizzare una strategia organica ed efficace per il contrasto dell’immigrazione clandestina e che le procedure previste subiranno certamente un consistente ritardo a causa della contrarietà di alcuni Stati.
Pertanto, se si continuasse ad utilizzare strumentalmente le procedure accelerate in frontiera per negare nella sostanza il diritto di accesso effettivo al territorio e lo stesso diritto di asilo, si potrebbe aprire una procedura di infrazione a carico dell’Italia, analoga a quelle che sono state aperte nei confronti dell’Ungheria per il mancato rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali previste per i richiedenti asilo dalla normativa dell’Unione europea.[9]
Note
[1] P. Gentilucci, Il trattato Italia-Albania sui centri di detenzione, in Diritto.it del 13 novembre 2023.
[2] Redazione, Accordo Italia-Albania, via libera del Cdm al ddl di ratifica. A Tirana solo migranti soccorsi in acque extraeuropee, in Il quotidiano nazionale del 5 dicembre 2023.
[3] P. Gentilucci, Legge n. 176/2023 sull’immigrazione e ratifica del trattato con l’Albania, in Diritto.it dell’11 dicembre 2023.
[4] A. Magnani, Albania, Alta Corte sospende ratifica accordo con l’Italia sui migranti, in Sole 24ore del 13 dicembre 2023.
[5] P. Gentilucci, La Corte costituzionale albanese sospende il trattato con l’Italia, in Diritto.it del 14 dicembre 2023.
[6] F. Galici, Via libera della Corte Costituzionale all’accordo Albania-Italia sui migranti: ora il voto parlamentare, in Il Giornale del 20 febbraio 2024.
[7] F. Vassallo Paleologo, La Corte di giustizia dell’Unione Europea delimita la categoria dei “paesi di origine sicuri”, in “pressenza” del 4 ottobre 2024.
[8] F. Barragino, Migranti in Albania, la Corte europea censura i piani dell’Italia. Cosa dice la sentenza Ue e perché è un problema per il governo, in Il fatto quotidiano del 5 ottobre 2024.
[9] F. Vassallo Paleologo, La Corte di giustizia dell’Unione Europea delimita la categoria dei “paesi di origine sicuri”, cit.
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