Trattamento inumano di paziente in reparto psichiatrico: decisione CEDU

La CEDU ha sentenziato, all’unanimità, contro l’Italia in un caso di trattamento inumano durante la detenzione in un reparto di ospedale psichiatrico.

Allegati

Il 7 novembre 2024 la CEDU ha sentenziato, all’unanimità, contro l’Italia in un caso che abbraccia due fattispecie di diritto, ma prima ancora di civiltà.
Il ricorrente lamentava che la contenzione meccanica e il trattamento farmacologico applicati a lui durante la sua detenzione in un reparto di ospedale psichiatrico nel contesto di un ricovero ospedaliero involontario costituivano maltrattamenti in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Il ricorrente lamentava inoltre che le autorità nazionali non avevano adempiuto al loro dovere di svolgere un’indagine efficace sulle sue accuse come richiesto dall’aspetto procedurale dell’articolo 3 della Convenzione secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Lo Stato Italiano è stato carente in più momenti: nel non prendersi cura adeguatamente della persona affidata alle proprie cure (in fase di ricovero), bel non aver predisposto norme adeguate a tutela della persona ex ante, nel non aver prestata adeguata attenzione legale in fase di indagine a seguito della sua denuncia, ed infine di vera e propria denegata giustizia, in sede di archiviazione del procedimento.

CEDU -sez. I- LAVORGNA v. ITALY

CASE-OF-LAVORGNA-v.-ITALY.pdf 321 KB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Indice

1. L’importanza della sentenza


È la prima volta che la Corte condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in un caso di contenzione meccanica e farmacologica all’interno di un reparto psichiatrico.
La Corte ha, infatti, evidenziato come la prolungata contenzione meccanica non fosse giustificabile, in quanto la condizione di pericolo che ne aveva determinato l’applicazione non persisteva più con tale intensità, mancando così di motivazioni oggettive e necessarie. Inoltre, la Corte ha censurato l’inefficacia dell’indagine condotta in Italia, non ritenendola conforme agli standard richiesti per un accertamento trasparente e indipendente.
In assenza di norme chiare sui limiti della contenzione meccanica in ambito psichiatrico, tale pratica debba essere giustificata solo in casi di necessità assoluta e comprovata, come prevede l’articolo 54 del Codice penale. La contenzione non può essere usata a scopo cautelare, ma esclusivamente per rispondere a un pericolo concreto e imminente.
La decisione della CEDU apre un’importante riflessione sulla necessità di stabilire regolamentazioni più precise e rigide in merito all’uso della contenzione in contesti psichiatrici. Il caso solleva interrogativi su un utilizzo della contenzione che appare non solo ingiustificato dal punto di vista della necessità medica, ma anche lesivo della dignità umana, si pone in contrasto con il principio di proporzionalità richiesto per le misure restrittive della libertà individuale. Inoltre, la sentenza sollecita una riforma dei protocolli sanitari italiani, poiché attualmente mancano norme specifiche che disciplinino la contenzione meccanica e farmacologica. La Corte Europea ha ribadito che la contenzione meccanica non deve essere considerata un intervento terapeutico, ma un mezzo di sicurezza, utilizzabile solo come ultima risorsa e per il minor tempo possibile.

Potrebbero interessarti anche:

2. Il fatto: trattamento inumano in ospedale psichiatrico


Il caso riguarda le denunce del ricorrente, ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione, in merito ai suoi presunti maltrattamenti durante la sua detenzione in un reparto di ospedale psichiatrico (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura – “SPDC”) e l’indagine penale che ne è seguita.
Il ricorrente è nato nel 1995 e vive a Segrate. Il ricorrente soffriva di un disturbo psicotico non altrimenti specificato (“PNAS”).
Il 30 settembre 2014 il ricorrente è stato ricoverato presso l’SPDC dell’Ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo in forma di ricovero volontario su consiglio del suo psichiatra, il quale ha ritenuto che il ricorrente si trovasse in una situazione di crisi acuta non gestibile in regime ambulatoriale. Ne ha quindi raccomandato il ricovero per effettuare una rivalutazione terapeutica in ambiente protetto. Il 7 ottobre 2014 il ricorrente ha ricevuto la visita dei genitori e ha chiesto di essere dimesso dall’ospedale. Gli psichiatri dell’ospedale hanno risposto che avrebbe dovuto rimanere ricoverato per un ulteriore periodo di quattro giorni poiché il complesso dei sintomi manifestati al momento del ricovero non si era risolto e la rivalutazione della sua terapia psicofarmacologica non era ancora stata completata. Il ricorrente ha reagito con aggressione fisica nei confronti del padre, e successivamente della madre e del primario. In tale contesto, il personale medico ha deciso di applicare misure di contenzione meccanica. Lo stesso giorno è stato richiesto un ordine di trattamento sanitario obbligatorio al fine di prolungare il ricovero ospedaliero del ricorrente, che non ha più accettato volontariamente. Il 13 ottobre 2014 l’ordine di trattamento obbligatorio è stato rinnovato. Il 14 ottobre 2014 due psichiatri hanno presentato una segnalazione urgente di pericolosità sociale alla direzione sanitaria di Melzo, alla procura di Milano e ai carabinieri. Hanno affermato che il 7 ottobre 2014 il ricorrente aveva aggredito i genitori e uno dei medici dell’ospedale, e che lo aveva fatto in modo incontrollato e impulsivo. Hanno evidenziato, tra le altre cose, che il quadro clinico del ricorrente rivelava una sua incapacità di analizzare criticamente le proprie azioni, nonché una scarsa consapevolezza della gravità dell’incidente violento. Hanno concluso la relazione di notifica come segue: “L’esigenza primaria di garantire la sicurezza fisica degli altri pazienti e del personale richiede [che il ricorrente sia] fisicamente trattenuto, il che è problematico da gestire a lungo termine nonché eticamente discutibile. Attualmente c’è una questione di custodia e di contenimento di un pericolo sociale che va oltre l’intervento clinico in senso stretto e per il quale non siamo né competenti né strutturalmente attrezzati. Chiediamo quindi misure urgenti, nell’ambito delle vostre competenze, per consentire che l’osservazione clinica adeguata continui in un contesto più appropriato”.
Il 15 ottobre 2014 è stato interrotto l’uso di contenzioni meccaniche.
Il 19 ottobre 2014 è stato revocato l’ordine di trattamento obbligatorio.
Il 20 ottobre 2014 uno degli psichiatri ha redatto un verbale in cui si afferma che il ricorrente era tenuto sotto sedazione farmacologica.
Il 23 ottobre 2014 i medici hanno iniziato a ridurre gradualmente la sedazione.
Il 27 ottobre 2014 il ricorrente è stato dimesso dall’ospedale e ricoverato in un altro ospedale; il rapporto di ammissione lo descriveva come sedato.

3. La denuncia penale


Il 25 novembre 2015 il ricorrente ha presentato una denuncia penale contro due medici dell’SPDC dell’ospedale di Melzo per maltrattamenti (articolo 572 del codice penale italiano), sequestro di persona (articolo 605) e coercizione penale (articolo 610) a causa, tra l’altro, della presunta mancanza di giustificazione della sua contenzione meccanica.
Il ricorrente ha evidenziato il periodo eccessivamente lungo durante il quale era stato immobilizzato forzatamente e ha sostenuto che il personale medico lo aveva intenzionalmente e arbitrariamente sottoposto a una misura altamente coercitiva che era stata attuata in modo inumano e degradante, causandogli un’intensa sofferenza fisica e psicologica. Si lamentava inoltre della mancata garanzia di un’adeguata mobilità dei suoi arti durante il periodo in cui era trattenuto e dell’ulteriore onere costituito dal divieto di ricevere visite dai genitori tra il 7 e il 14 ottobre nonostante la sua giovane età (diciannove anni all’epoca dei fatti). Inoltre, la misura era stata, a suo avviso, priva di qualsiasi proporzionalità a causa della sua eccessiva durata, ovvero otto giorni consecutivi di trattenimento di tutti e quattro gli arti, con alcuni brevi e sporadici momenti di libertà. Quanto all’assenza di giustificazione della misura, sottolineava che, sia dal punto di vista giuridico che da quello etico, si può ricorrere alla contenzione meccanica solo in situazioni di urgenza in cui tale misura sia strettamente necessaria al fine di scongiurare un imminente e grave pericolo di autolesionismo o di danno ad altri. Inoltre, la contenzione meccanica potrebbe essere applicata solo per il tempo necessario a gestire la situazione che ha portato alla sua applicazione e quindi, una volta che il pericolo si è attenuato, la misura non è più giustificata e deve di conseguenza essere disapplicata. La contenzione meccanica del ricorrente non aveva rispettato le condizioni di cui sopra per una serie di motivi. Il ricorrente sosteneva inoltre che il personale medico aveva subordinato la sua liberazione dalla contenzione meccanica al suo “pentimento” per le sue azioni, poiché la sua liberazione progressiva era iniziata solo dopo che egli aveva dichiarato la sua contrizione. Ciò, secondo il ricorrente, equivarrebbe a un uso “pedagogico” della contenzione, un uso della misura condannata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (“il CPT”). Il ricorrente sosteneva che il personale medico contro cui era stata presentata la denuncia penale aveva intenzionalmente e consapevolmente compiuto le azioni che costituivano i reati penali in questione.

4. Le indagini


Il 19 febbraio 2016 è stata aperta un’indagine sulle accuse del ricorrente.
Il 20 giugno 2016 il PM presso il tribunale distrettuale di Milano ha nominato un perito medico.
Il 20 novembre 2016 il perito ha presentato la sua relazione. Riferendosi alle linee guida di contenzione applicabili in vigore presso lo SPDC di Melzo, il perito ha ritenuto che la contenzione meccanica del paziente avesse soddisfatto i requisiti del protocollo. Quanto alla continuazione della misura, il perito ha descritto la durata complessiva del periodo di contenzione meccanica come “insolitamente prolungata” e ha fatto riferimento alle linee guida e ai protocolli pertinenti, che raccomandavano tutti di limitarla il più possibile. Ha anche ammesso che i medici avrebbero potuto provare a ridurne la durata e fare più tentativi di sospendere la misura. Egli ha ritenuto, tuttavia, che non si fossero trovati di fronte a un fatto oggettivo su cui basare la loro decisione mentre il ricorrente era stato trattenuto (poiché non poteva aver adottato un comportamento aggressivo durante quel periodo), ma che avessero dovuto invece affrontare un rischio percepito soggettivamente. Il perito ha concluso che si potevano escludere negligenza e imprudenza da parte dei medici. Ha affermato che, al massimo, poteva individuare un eccesso di interventismo da parte loro, ma certamente non negligenza o negligenza. Ha ritenuto che si potesse anche ipotizzare l’esistenza di un “eccesso di prudenza” giustificato da un “forse eccessivo e infondato timore delle possibili conseguenze negative [di una] sospensione della contenzione”. Concludeva inoltre che si poteva escludere il dolo in quanto gli psichiatri avevano seguito le linee guida e i protocolli approvati dalla Regione Lombardia e utilizzati nel reparto psichiatrico. Un comportamento che potesse essere considerato “colpa lieve” poteva essere ipotizzato, a suo avviso, come derivante dal prolungamento della contenzione meccanica “per un periodo di tempo eccessivo”, con riferimento alle raccomandazioni delle autorità cliniche e scientifiche.
Il 7 febbraio 2019 il PM ha depositato presso il GIP del Tribunale di Milano una richiesta di archiviazione del procedimento.
Il 9 aprile 2019 il ricorrente ha presentato opposizione avverso la richiesta del PM di archiviare il procedimento. Ha lamentato che la motivazione della richiesta era eccessivamente laconica e che consisteva principalmente in una trasposizione delle osservazioni del consulente tecnico d’ufficio, e ha affermato che era stata presentata tre anni e mezzo dopo la prima denuncia penale da parte sua. Ha sostenuto che la sentenza della Corte di Cassazione nel caso “Mastrogiovanni” non era stata presa in considerazione dal PM. Il ricorrente ha sostenuto che nessuno aveva verificato la persistenza del presunto pericolo dopo gli eventi del 7 ottobre 2014. Quanto alla durata del presunto pericolo e al conseguente prolungamento della contenzione meccanica del ricorrente, non era stata svolta alcuna indagine circa l’esistenza di un pericolo che potesse essere qualificato come attuale e quindi legittimante la prosecuzione della contenzione, e il PM a sua volta si era limitato a qualificare come adeguate ai fini del protocollo applicabile le relazioni sull’atteggiamento acritico del ricorrente nei confronti di quanto accaduto. Il ricorrente ha concluso che il prolungamento della contenzione meccanica era privo di adeguata giustificazione. Ritenere legittimo l’uso della contenzione per quasi otto giorni consecutivi solo per fronteggiare un episodio isolato di aggressione avrebbe significato, a suo avviso, legittimare tale pratica come metodo di routine per il trattamento della malattia psichiatrica non solo quando sussisteva effettivamente uno stato di necessità, ma anche quando vi era il timore di possibili agitazioni future. Ha inoltre sostenuto che la misura di contenzione meccanica non era stata applicata dopo che erano state tentate strategie alternative senza successo, ma era stata piuttosto il primo e unico metodo impiegato dal 7 ottobre in poi. Il ricorrente ha chiesto, tra l’altro, che la richiesta del PM fosse respinta al fine di consentire l’esame del suo caso alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione e, in particolare, dei criteri stabiliti nella sentenza Mastrogiovanni. Con ordinanza del 21 luglio 2020, il GIP del Tribunale di Milano ha deciso di archiviare il procedimento.

5. La sentenza Mastrogiovanni (Cassazione 50497/2018).


Con la sentenza della Corte di Cassazione, V sezione penale, n. 50497 del 20 giugno 2018 la Corte ha innanzitutto chiarito che la contenzione meccanica non può essere considerata un atto medico in quanto si tratta di una misura restrittiva della libertà personale che non ha finalità terapeutiche né di miglioramento delle condizioni di salute dei pazienti. La Corte ha rilevato che, secondo la letteratura scientifica, essa può effettivamente causare gravi lesioni corporali se non utilizzata con la dovuta cautela. Le lesioni potrebbero derivare non solo dalla pressione esterna dei dispositivi di contenzione (potenzialmente causa di abrasioni, lacerazioni o strangolamenti), ma anche dalla posizione di immobilità forzata a cui i pazienti sono costretti. Ha concordato sul fatto che l’unica funzione accettabile della contenzione era quella di salvaguardare l’integrità fisica dei pazienti, o di coloro che entravano in contatto con loro quando vi era una situazione di concreto pericolo per la loro sicurezza. La Corte ha ribadito che la “Legge Basaglia”, che regolava il trattamento medico obbligatorio, prevedeva la sua applicazione solo in caso di disturbi psichiatrici che richiedessero interventi terapeutici urgenti e quando fosse l’unico mezzo per fornire l’assistenza medica necessaria per scongiurare un pericolo di grave danno alla salute del paziente. Ha anche fatto riferimento all’articolo 41 della legge sull’amministrazione penitenziaria che prevedeva che l’uso della contenzione nel contesto della detenzione era consentito solo in situazioni eccezionali di pericolo, doveva essere circoscritto al tempo strettamente necessario e doveva essere sottoposto a costante controllo medico. La corte ha chiarito che l’uso della contenzione meccanica non poteva essere considerato lecito tout court semplicemente perché gli operatori della salute mentale erano tenuti a un dovere di diligenza nei confronti dei pazienti psichiatrici, che a sua volta poteva essere considerato come l’innesco dell’obbligo legale di adottare misure per neutralizzare il pericolo di atti di autolesionismo o violenza verso altri da parte del paziente o di grave pregiudizio alla salute del paziente. La contenzione doveva essere considerata una misura di ultima istanza (extrema ratio). Infatti, secondo la corte, l’uso della contenzione meccanica poteva essere ordinato solo dai medici (i quali erano consapevoli – più di altri, in virtù della loro competenza tecnico-scientifica – del grave pregiudizio che l’uso della contenzione poteva causare alla salute del paziente) solo in situazioni straordinarie e per il tempo strettamente necessario e con la più stretta supervisione possibile del paziente. Secondo la Corte doveva essere ritenuto lecito l’uso della contenzione meccanica se ricorrevano le condizioni stabilite dall’articolo 54 del codice penale, e specificamente quando sussisteva una situazione concreta di pericolo di gravi lesioni personali (del paziente o di coloro che interagivano con lui durante il ricovero), altrimenti non evitabili. Doveva trattarsi di un pericolo “non altrimenti evitabile” sulla base di fatti oggettivamente accertati e non solo su base presuntiva. La Corte ha poi chiarito che la situazione di pericolo deve essere attuale; ciò comportava che sarebbe stato “assolutamente inammissibile” applicare le contenzioni in modo “precauzionale” sulla base della possibilità astratta o anche della mera probabilità di un danno grave. La natura chiara e attuale del pericolo doveva emergere in concreto dalla verifica di elementi oggettivi che il medico doveva aver indicato in modo preciso e dettagliato. Infine, secondo la Corte, il requisito di proporzionalità riguardava le modalità di attuazione della contenzione, essendo evidente che, per la sua estrema invasività, essa dovesse essere applicata non solo nei casi di stretta necessità, ma anche avendo valutato, tra l’altro, se fosse sufficiente l’immobilizzazione di alcuni arti o se il pericolo di lesione fosse tale da richiedere l’immobilizzazione di entrambi i polsi e di entrambe le caviglie. Tali valutazioni richiedevano anche un’attenta riflessione da parte del medico curante, che doveva spiegare, seppur sinteticamente, le ragioni della scelta della contenzione e le modalità della sua attuazione, fornendo tutti gli elementi oggettivi che ne rendevano inevitabile l’impiego nella pratica. L’inserimento di tutte queste informazioni nella cartella clinica era necessario al fine di tutelare non solo il paziente, ma anche il medico curante, che poteva descrivere con trasparenza le ragioni che giustificavano, nell’interesse del paziente, l’adozione della misura di contenzione meccanica.

6. Valutazione della Corte


Per quanto riguarda le persone private della libertà, il ricorso alla forza fisica che non sia stato reso strettamente necessario dalla loro condotta diminuisce la dignità umana e costituisce una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Convenzione. La Corte ha riconosciuto la particolare vulnerabilità delle persone affette da malattie mentali nella sua giurisprudenza, e la valutazione se il trattamento o la punizione in questione siano incompatibili con gli standard dell’articolo 3 deve prendere in considerazione in particolare questa vulnerabilità. La Corte ribadisce che la posizione di inferiorità e impotenza tipica dei pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici richiede una maggiore vigilanza nel verificare se la Convenzione sia stata rispettata. Per quanto riguarda l’uso di misure di contenzione fisica sui pazienti negli ospedali psichiatrici, gli sviluppi negli standard giuridici contemporanei sull’isolamento e altre forme di misure coercitive e non consensuali contro pazienti con disabilità psicologiche o intellettive negli ospedali e in tutti gli altri luoghi di privazione della libertà richiedono che tali misure siano impiegate come ultima istanza, quando la loro applicazione è l’unico mezzo disponibile per prevenire danni immediati o imminenti al paziente o ad altri. Inoltre, l’uso di tali misure deve essere commisurato a garanzie adeguate contro qualsiasi abuso, fornire una protezione procedurale sufficiente ed essere in grado di dimostrare una giustificazione sufficiente che i requisiti di necessità e proporzionalità ultime siano stati rispettati e che tutte le altre opzioni ragionevoli non siano riuscite a contenere in modo soddisfacente il rischio di danno al paziente o ad altri. Deve anche essere dimostrato che la misura coercitiva in questione non è stata prolungata oltre il periodo strettamente necessario a tale scopo. Infine, i pazienti sottoposti a misure di contenzione devono essere tenuti sotto stretta sorveglianza e ogni uso di misure di contenzione deve essere opportunamente registrato.
La Corte ribadisce che spetta allo Stato dimostrare in modo convincente che tale condizione sia stata soddisfatta e che un pericolo “potenziale” non è sufficiente per stabilire che tale pericolo sia immediato o imminente. La Corte rileva che la Cassazione italiana ha escluso l’uso della contenzione meccanica in via “precauzionale”, precisando che l’attualità del pericolo in questione in un dato caso deve essere concretamente provata dalla verifica di elementi oggettivi che il medico deve indicare in modo preciso e dettagliato. La Corte ritiene inoltre che il requisito di una valutazione significativa dell’imminenza o dell’immediatezza del pericolo di danno al fine di decidere sulla proroga della contenzione implichi che il personale medico effettui tali valutazioni con sufficiente frequenza per tutta la durata dell’applicazione della misura. Sottolinea che quando si ricorre alla contenzione meccanica di un paziente per più di un periodo di ore, la misura dovrebbe essere riesaminata da un medico a intervalli brevi.
Passando alle conclusioni dell’indagine penale, la Corte rileva innanzitutto che le autorità nazionali, nella loro valutazione dell’applicazione della misura di restrizione meccanica, hanno fatto riferimento principalmente alla decisione iniziale di applicare le restrizioni il 7 ottobre 2014 e agli atti di aggressione fisica compiuti dal ricorrente in quel giorno. Quanto alla valutazione della prosecuzione dell’applicazione della misura al di là di tali circostanze, la Corte rileva, in primo luogo, che la parte piuttosto succinta della richiesta del PM relativa alla necessità della misura non conteneva una valutazione specifica su come il pericolo rappresentato dal ricorrente avrebbe potuto essere considerato immediato o imminente per tutta la durata dell’applicazione della misura. Lo stesso perito ha ipotizzato che questi ultimi potessero aver manifestato un possibile “eccesso di prudenza” derivante da quello che ha definito un timore “forse eccessivo e infondato” di possibili conseguenze negative in caso di revoca della misura di contenzione meccanica. La Corte ritiene che, nella decisione piuttosto succinta di archiviazione, il GIP non abbia adeguatamente affrontato le argomentazioni sollevate dal ricorrente, nella sua opposizione alla richiesta del PM, circa l’assenza di una valutazione da parte del PM circa la possibilità che la presunta pericolosità per gli altri rappresentata dal ricorrente potesse essere considerata attuale per tutta la durata di applicazione della misura, che si è protratta per quasi otto giorni. La decisione non sembra rispondere alle argomentazioni del ricorrente circa l’assenza di elementi concreti individuati dai professionisti che indicassero la presenza di un pericolo imminente, piuttosto che meramente “potenziale”, in particolare con riferimento ai criteri elaborati dalla sentenza Mastrogiovanni. La Corte ritiene che nell’indagine interna le autorità non abbiano affrontato adeguatamente questioni cruciali per una valutazione se la proroga della misura di contenzione meccanica per un lasso di tempo così lungo, descritto come “insolitamente lungo” dal perito medico incaricato dal PM fosse stata strettamente necessaria per prevenire un danno imminente o immediato al ricorrente o ad altri. La Corte osserva inoltre che il PM e il GIP non hanno affrontato le argomentazioni sollevate dal ricorrente nella sua denuncia penale e nella sua contestazione della richiesta di archiviazione del PM secondo cui la sua continua contenzione meccanica non era stata un’ultima risorsa. Il silenzio su tale aspetto appare ancora più sorprendente se si considera che il protocollo sulla contenzione menzionava che esso doveva essere applicato nei casi in cui altre misure meno restrittive erano già state tentate e si erano dimostrate inefficaci, inappropriate o insufficienti. La Corte è anche consapevole del fatto che non esiste una legislazione specifica che stabilisca i confini legali per l’uso della contenzione meccanica in un contesto psichiatrico, i cui limiti sono invece stabiliti in termini di giustificabilità della condotta degli individui che applicano la misura ai sensi della difesa della necessità di cui all’articolo 54 del codice penale. La Corte non può non notare le conclusioni del CPT secondo cui, nel contesto della contenzione meccanica, la difesa della necessità veniva applicata senza una valutazione rigorosa del criterio del pericolo imminente stabilito nel testo stesso dell’articolo 54.
Infine, la Corte non può non rilevare il fatto che il 14 ottobre 2014 due medici del servizio psichiatrico hanno avanzato una richiesta, tra le altre cose, di continuare le cure del ricorrente “in un contesto più appropriato”, poiché hanno affermato di trovarsi di fronte a un “pericolo sociale” che non erano né competenti né strutturalmente attrezzati per gestire. I medici hanno affermato, nello stesso documento, che la continua contenzione del ricorrente era sia problematica da gestire a lungo termine sia “eticamente discutibile”. Tenendo anche presente che i mezzi di contenzione non dovrebbero mai essere utilizzati in sostituzione di cure o trattamenti adeguati, la Corte ritiene che tali dichiarazioni costituiscano un serio motivo di preoccupazione e non possono non sollevare la questione se il prolungamento della contenzione meccanica del ricorrente oltre le circostanze che inizialmente l’avevano giustificata sia stato impiegato come mezzo per occuparsi di un paziente per il quale l’istituzione in questione non era adeguatamente attrezzata per curare.
La Corte ribadisce che l’obbligo di svolgere un’indagine efficace sulle accuse di trattamento lesivo dell’articolo 3 subito da agenti dello Stato è ben consolidato nella giurisprudenza della Corte. In particolare, per essere “efficace”, tale indagine deve innanzitutto essere adeguata, il che significa che deve essere in grado di condurre all’accertamento dei fatti e alla determinazione se la forza utilizzata fosse o meno giustificata nelle circostanze, nonché di identificare e – se del caso – punire i responsabili. In tale contesto è implicito un requisito di tempestività e ragionevole celerità. Inoltre, la vittima dovrebbe essere in grado di partecipare efficacemente all’indagine.
Se è vero che egli ha presentato la sua denuncia penale un anno dopo i fatti contestati, la Corte non può non rilevare che sono trascorsi tre anni e quattro mesi dalla presentazione della denuncia alla richiesta di archiviazione del PM del 7 febbraio 2019. Non vi è alcuna indicazione nel materiale presentato alla Corte che il PM abbia ascoltato alcun testimone o abbia intrapreso altre azioni investigative per scoprire prove relative agli eventi contestati oltre alla presentazione della richiesta di documenti presso l’ospedale e alla richiesta di perizia medica. Rileva che sono trascorsi oltre due anni dalla consegna della perizia medica nel novembre 2016 alla richiesta di archiviazione nel febbraio 2019. La Corte non è convinta che tale ritardo possa essere giustificato dalla lunghezza e dalla complessità della relazione del perito medico. Ritiene che tale ritardo sia ancora più evidente se confrontato con la dichiarazione del Governo secondo cui il PM, dopo la presentazione della relazione, aveva già comunicato “informalmente” la sua intenzione di archiviare il procedimento all’avvocato del ricorrente. Sebbene possano esserci ostacoli o difficoltà che impediscono il progresso di un’indagine in una situazione particolare, una pronta risposta da parte delle autorità nell’indagine sulle accuse di maltrattamenti può essere generalmente considerata essenziale per mantenere la fiducia del pubblico nella loro adesione allo stato di diritto e per prevenire qualsiasi apparenza di collusione o tolleranza di atti illeciti. Alla Corte non sono state presentate prove sufficienti dell’esistenza di tali ostacoli o difficoltà. La Corte ritiene che un processo investigativo, indipendentemente da come possa essere organizzato in termini di diritto o prassi nazionale, debba in ogni caso essere svolto con ragionevole celerità. L’indagine nel presente caso non può essere considerata svolta entro un lasso di tempo ragionevole.
La Corte rileva che l’indagine interna non è riuscita a far luce su questioni che erano, a suo avviso, cruciali per stabilire se la proroga della contenzione meccanica del ricorrente per quasi otto giorni potesse essere considerata strettamente necessaria. In tale contesto, ha rilevato l’incapacità delle autorità inquirenti di impegnarsi con le argomentazioni pertinenti avanzate dal ricorrente a tale riguardo. La Corte non può che concludere che l’indagine non è stata approfondita. Tali conclusioni sono sufficienti affinché la Corte concluda che le autorità statali non hanno svolto un’indagine efficace sulle accuse di maltrattamento del ricorrente al fine di stabilire se, nelle circostanze del caso, la proroga della contenzione meccanica fosse giustificata.

Vuoi ricevere aggiornamenti costanti?


Salva questa pagina nella tua Area riservata di Diritto.it e riceverai le notifiche per tutte le pubblicazioni in materia. Inoltre, con le nostre Newsletter riceverai settimanalmente tutte le novità normative e giurisprudenziali!

Iscriviti alla newsletter
Iscrizione completata

Grazie per esserti iscritto alla newsletter.

Seguici sui social


Michele Di Salvo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento