Uno dei dibattiti più accesi che ha visto coinvolti molteplici studi e pronunce dottrinali e giurisprudenziali ha riguardato il frazionamento del credito.
Ci si è chiesti a lungo se potesse considerarsi lecita la richiesta giudiziale di adempiere in modo frazionato ad una obbligazione scaturente da un credito unitario. Tale richiesta è idonea a configurare effetti negativi di non poco momento in capo al debitore, il quale sarebbe costretto a difendersi nell’ambito di tanti giudizi quante sono le frazioni del credito azionate.
In particolare, gli sforzi dottrinali e giurisprudenziali si sono ben presto distinti in due orientamenti, l’uno teso a inquadrare il frazionamento del credito come un’ipotesi di abuso del diritto e l’altro che considerava pienamente lecita la richiesta frazionata nei termini descritti.
Giova premettere alcune precisazioni in ordine alla nozione di abuso del diritto.
Ebbene, si tratta di una situazione in cui il titolare del diritto lo esercita per fini contrastanti rispetto a quelli per cui quel diritto viene riconosciuto a livello ordinamentale. Si configura un abuso altresì laddove il titolare, in presenza di più possibilità di esercizio del diritto e tutte per lui indifferenti, scelga quella meno conveniente per il destinatario del comportamento.
Atteso che nell’ambito dell’ordinamento giuridico non è dato ravvisare alcuna norma atta a prevedere un principio generale di abuso del diritto, ci si è sforzati di rinvenire una base normativa in qualche disposizione specifica.
Inizialmente un appiglio normativo di tal fatta è stato individuato nel disposto di cui all’art. 833 cod. civ., che impone al titolare di un diritto dominicale il divieto di porre in essere atti emulativi, vale a dire comportamenti volti a nuocere o arrecare molestia ad altri, sprovvisti di una qualsiasi forma di utilità per il proprietario.
In realtà un orientamento più attento, e oggi per vero dominante, ha identificato nell’abuso del diritto un principio generale cui è ispirato l’intero ordinamento e che trae origine dal collegamento con la nozione di buona fede in senso oggettivo. In questo modo, si è ritenuto di considerare che la titolarità di un diritto non comporta la possibilità di un esercizio incondizionato dello stesso, al contrario esso è sempre condizionato rispetto allo scopo per cui quel diritto è riconosciuto dall’ordinamento.
Quanto al frazionamento del credito, occorre comprendere i termini del dibattito precedenti alla recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Inizialmente i Giudici di Piazza Cavour avevano ritenuto la perfetta liceità dell’operazione di frazionamento del credito in più giudizi distinti. Le ragioni dell’ammissibilità di più richieste giurisdizionali in tal senso erano facilmente evincibili dal complesso normativo del codice civile.
In primo luogo si riteneva che l’art. 1181 cod. civ. riconoscesse il diritto al creditore di rifiutare un adempimento del debitore parziale e dunque, a contrario, poteva affermarsi che esisteva un potere di accettare parzialmente la prestazione dovuta e, conseguentemente, di richiederla in giudizio.
Inoltre il frazionamento de quo poteva anche rispondere a un interesse del creditore da ravvisarsi nell’esigenza di iniziare ad agire per ottenere parte del proprio credito, perché solo parzialmente esigibile, oppure per un’esigenza di celerità processuale, dal momento che i tempi del processo potevano prolungarsi qualora l’organo giudicante fosse tenuto ad accertare più debenze rispetto ad una.
Ben presto la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (si veda la sentenza n. 23726/2007) mutarono orientamento e considerarono contrario al principio di buona fede il frazionamento dello stesso credito in più giudizi. L’operazione poteva considerarsi in grado di integrare un’ipotesi di abuso dello strumento del processo e si poneva in contrasto con l’esigenza di celerità processuale di fonte costituzionale, oltre che con i principi generali di correttezza e buona fede.
L’operazione avrebbe inoltre comportato un inutile e non giustificato prolungamento del vincolo debitorio ed un aggravio di spese e oneri di non poco rilievo per la parte passiva del rapporto obbligatorio in contestazione. Il debitore non poteva dirsi tutelato dalla possibilità di offrire per intero l’adempimento, atteso che era anche probabile che volesse contestare in radice la propria posizione debitoria.
In sostanza, laddove mancasse un interesse apprezzabile in capo al creditore ad agire in giudizi distinti per far valere il medesimo credito, non poteva dirsi giustificato il correlato aggravamento della posizione debitoria.
Di recente le Sezioni Unite, con la decisione del 16 febbraio 2017 n. 4090, si sono occupate della possibilità di azionare in giudizi separati non il medesimo credito pro quota, ma più crediti distinti derivanti dallo stesso rapporto giuridico.
I Giudici hanno precisato che un dovere di correttezza in capo al creditore, nei termini sopra descritti, non esiste in una fattispecie di tal fatta, atteso che il divieto di abusare dello strumento processuale preclude il frazionamento del medesimo credito, ma non impone di far valere separatamente crediti diversi, sebbene scaturenti dallo stesso rapporto.
Non può dirsi sussistente alcun frazionamento del credito, proprio in quanto i crediti azionati sono differenti.
Vero è che la disciplina codicistica riconosce la facoltà di riunire dinnanzi al medesimo giudice più domande connesse, ma non impone di certo all’attore un onere di farle valere tutte nello stesso giudizio.
Trattandosi di crediti diversi è ben possibile anche che siano soggetti a riti differenti, speciali o caratterizzati da tempi di definizione più rapidi, il che varrebbe a giustificare la scelta di non farli valere contestualmente.
Con tale pronuncia quindi gli Ermellini non hanno dato luogo ad alcun revirement giurisprudenziale, ma si è trattato semplicemente di una sentenza atta a definire una fattispecie diversa dal frazionamento del credito, proprio per via della circostanza che il caso di specie riguardava la spettanza di crediti diversi, sebbene scaturenti da un medesimo rapporto giuridico.
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