Lucia Nacciarone
Con la sentenza n. 1012 del 17 dicembre 2013 la Cassazione ha accordato agli eredi di un medico che durante la sua vita lavorativa aveva subìto un demansionamento sia il danno biologico, provocato dall’ansia e dalla depressione, che morale.
L’uomo, un oculista, era stato privato della facoltà di operare e visitare i pazienti, ed assegnato a compiti marginali, ossia a certificare le dimissioni dei pazienti; era stato, poi, trasferito per una non meglio precisata incompatibilità ambientale.
Perciò si era rivolto al giudice promuovendo un procedimento d’urgenza, all’esito del quale era stato reintegrato ma assegnato a mansioni mortificanti.
Aveva, quindi, fatto causa all’Asl, chiedendo il risarcimento del danno biologico per essere affetto da sindrome ansioso-depressiva, e morale; l’uomo lamentava in particolare di subire un vero e proprio mobbing.
Sul punto, si riportano le considerazioni del giudice di merito: «il mobbing evoca una condotta del datore di lavoro, o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore, o del superiore gerarchico, e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
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