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Il riferimento alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica era già presente all’interno della legge Balduzzi, che tuttavia non ha mai fornito una nozione approfondita delle stesse.
Il Ddl Gelli interviene anche a dare contenuto a quelle che costituiscono il criterio principale con cui attribuire al medico una responsabilità, indipendentemente dalla sua tipologia.
In particolare, sono state previste al fine di standardizzare l’attività degli operatori sanitari, alla luce dello stratificarsi di regole d’esperienza del settore, all’interno della letteratura e delle opinioni scientifiche, potendo così ridimensionare l’eventuale responsabilità del medico in caso di danno recato al paziente, nonché fornire un repertorio certo di pratiche professionali.
Tuttavia, si continua a disconoscere qualsivoglia valore prescrittivo delle regole di condotta, in quanto si vuole preservare, con tutti i rischi potenzialmente connessi, il margine discrezionale di operatività del medico professionista, che ha un proprio bagaglio tecnico e lavorativo non intercambiabile.
Colpa medica: cosa deve dimostrare il professionista?
Ciò nonostante, anche prima della Legge Balduzzi, all’interno di un processo intentato contro un professionista che avesse recato un danno all’integrità fisica di un paziente, il giudice tendeva a stabilire la responsabilità dello stesso sulla base dell’aderenza o meno del suo comportamento alle regole di condotta. La giurisprudenza, infatti, ha riconosciuto la loro valenza come strumento utile all’accertamento dei fatti, ma senza che siano paragonabili a vere e proprie regole cautelari.
Da un punto di vista processuale, il medico dovrà sempre provare di aver tenuto un certo comportamento, in linea con le regole di condotta, ma è rimessa in ultima battuta al giudice la valutazione dell’opportunità di quel comportamento rispetto alle esigenze del caso concreto. Lo stesso Ddl Gelli, nell’introdurre all’interno del codice penale l’art. 590-ter, ha previsto la clausola di salvaguardia della valutazione d’ultima istanza delle peculiarità del caso concreto.
Ddl Gelli: come cambiano le regole di condotta e le buone pratiche assistenziali?
Il testo del nuovo art. 590-ter c.p. recita: “L’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita risponde dei reati di cui agli articoli 589 e 590 solo in caso di colpa grave.
Agli effetti di quanto disposto dal primo comma, è esclusa la colpa grave quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida così come definite e pubblicate ai sensi di legge”.
A ben vedere, nel nuovo delitto, non appare un richiamo al rispetto delle linee guida o alle buone pratiche, ma solo quello alla nozione di imperizia. Di conseguenza, viene meno l’obbligo del giudice di accertare che il comportamento tenuto dal medico sia stato conforme a quello impartito dalle pratiche clinico-assistenziali.
L’Imperizia nel nuovo Ddl Gelli
L’unico parametro a disposizione per la valutazione dell’idoneità della condotta del professionista è l’imperizia, intesa come complesso di leges artis. Il riferimento alle c.d. buone pratiche compare invece al secondo comma, nell’ambito della depenalizzazione della colpa, qualora il professionista le abbia osservate.
All’articolo 5 del testo del Ddl è specificata la categoria di buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni da prendere a riferimento, più circoscritta rispetto a quella introdotta dalla normativa previgente: in particolare, sono quelle indicate dalle società scientifiche e dagli istituti di ricerca individuati con decreto del Ministro della salute e iscritti in un apposito elenco, anch’esso istituito con il medesimo decreto, da emanare entro un anno; queste devono essere anche periodicamente aggiornate. In attesa di tali pubblicazioni si continua ad applicare l’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi (l. 189 del 2012).
Ad oggi, il problema irrisolto sarebbe quello che deriverebbe dall’eccessiva importanza che viene attribuita alle regole di condotta, addossando quindi alla valutazione della comunità scientifica quella discrezionale della responsabilità del medico, senza che siano, poi, specificati dal Legislatore i criteri che le società scientifiche debbano soddisfare, né quali siano i principi informatori che debbano seguire.
A cura di Sabina Grossi
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