La pregevole pronunzia in allegato concerne la dibattuta tematica del rimborso delle spese sostenute dai funzionari degli enti locali per procedimenti penali o contabili in cui essi siano stati coinvolti, allorquando detto rimborso venga effettuato in violazione del limiti prescritti ed, in particolare, ricorrendo conflitto di interessi con l’ amministrazione in ragione dei fatti addebitati in sede penale o contabile. Il Relatore evidenzia l’ ambito di applicabilità del rimborso e la disciplina di riferimento.
SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONE LOMBARDIA
Presidente: G. ********* – Relatore: *********
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione depositato in data 24.12.2004, la Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Lombardia conveniva in giudizio i *************, R.A.e M.F., perché fossero condannati in parti eguali al pagamento, in favore del Comune di Solarolo Rainerio (CR), della complessiva somma di euro 11.101,10, oltre rivalutazione monetaria e spese di giudizio, unitamente alla somma, all’epoca del deposito non ancora quantificabile nella sua interezza rispetto all’iniziale impegno di spesa pari a 2.000.000 delle vecchie lire, da corrispondere all’avv. ****** per le ragioni di seguito esposte.
Questi, in sintesi, i fatti:
– l’indagine prende le mosse da un esposto indirizzato alla Procura regionale dal signor ****, consigliere del Comune sopra indicato, il quale, unitamente ad altri tre cittadini del medesimo Comune, in data 15.9.1995 presentava all’Autorità giudiziaria ordinaria due esposti tesi a denunziare fatti a loro avviso configuranti possibili ipotesi di reato, concernenti in particolare un’operazione di lottizzazione tesa a favorire i proprietari del terreno interessato,
– una di tali ipotesi di reato risultava a carico del convenuto DM., nella sua qualità di ex sindaco del Comune e, allo stesso tempo, amministratore unico della “******à omissis”, relativamente ad una convenzione di lottizzazione stipulata fra quest’ultima e l’ente locale, nonché al rilascio della concessione edilizia per le opere di urbanizzazione e ai relativi oneri di urbanizzazione,
– detta “******à omissis”, secondo quanto risultante in atti aveva forma di società semplice e risultava costituita da privati proprietari di lotti di terreno, in attuazione della l.r. n. 33 del 1981, all’unico scopo di realizzare il progetto esecutivo relativo alle opere di urbanizzazione – da finanziarsi con l’impiego di fondi regionali – per insediamenti industriali e artigianali in aree comprese nel predetto Comune,
– a seguito degli esposti inviati all’Autorità giudiziaria, questa faceva luogo al rinvio a giudizio del DM., ma il procedimento penale si concludeva con sentenza di piena assoluzione, per insussistenza del fatto (sent. Tribunale di Cremona n. 95 del 1998), non avendo il potenziale conflitto di interessi fra i due ruoli rivestiti dal DM. prodotto danno alcuno, e non essendo stata ritenuta sussistente alcuna relazione fra la concessione rilasciata alla ******à, ritenuta atto dovuto, e quelle rilasciate a singole privati,
– dopo aver rifuso al DM. le spese legali da questi sostenute nel processo penale, con nota n. 874 del 10.4.1999 il Comune chiedeva ai quattro denuncianti il rimborso di tali somme, quale ristoro del danno subito dal Comune nella medesima vicenda penale, e, di fronte al loro rifiuto, con delibera di Giunta n. 25 del 28.4.1999 – approvata dagli odierni convenuti DM., R.A.e M.F. – dava mandato ad un legale esterno, l’avv. ******, affinché agisse dinanzi al giudice civile per ottenere giudizialmente il recupero delle somme in questione,
– con la medesima delibera, veniva impegnata la somma di 2.000.000 delle vecchie lire, a titolo di compenso da corrispondere all’avv. ******,
– l’instaurato procedimento civile si concludeva con sentenza del Tribunale di Cremona n. 66 del 4.3.2002, che – affermando oltre tutto la tardività della contestazione giudiziale della colpa grave ai convenuti, in alternativa al dolo – rigettava la domanda attorea, in quanto destituita di ogni fondamento, e condannava il Comune ricorrente a rifondere la complessiva somma di circa 16.690.000 delle vecchie lire, aggiungendo che il Comune non aveva titolo a richiedere la restituzione della somma erogata al Sindaco a titolo di rimborso delle spese legali da questi sostenute nel processo penale, perché persino se vi fosse stata calunnia il Comune non poteva venir considerato parte lesa, né, conseguentemente, titolare del diritto al ristoro del danno inferto all’onore, quale bene giuridico protetto nell’ambito del reato plurioffensivo di calunnia, e non essendovi d’altro canto norma alcuna che, diversamente da altre ipotesi, legittimi il Comune a surrogarsi in un altrui diritto di credito di natura indirettamente risarcitoria,
– in data 9.9.2002, il Comune provvedeva a liquidare, dietro presentazione di regolari fatture da parte dei legali dei convenuti/vincitori della causa civile di cui si è appena detto, la complessiva somma di euro 11.101,10, per il recupero della quale la Procura regionale ha proposto dunque azione nella presente sede, previa notifica dell’invito a dedurre ed esame delle deduzioni scritte inviate con unico atto dai convenuti DM., R.A.e M.F., nella loro pregressa qualità di Sindaco e Assessori del Comune di Solarolo Rainerio autori della delibera di Giunta n. 25 del 28.4.1999 con la quale venne deciso di intentare la causa civile conclusasi con la soccombenza del Comune medesimo.
Secondo la Procura regionale, la decisione assunta con la delibera di Giunta in questione avrebbe cagionato all’ente locale un danno patrimoniale del quale i convenuti DM., R.A.e M.F. debbono rispondere nella presente sede, perché il loro comportamento sarebbe esorbitante rispetto a quel limite esterno della sfera di discrezionalità amministrativa riconosciuta ad ogni organizzazione pubblica che segna il confine fra atti sindacabili e atti insindacabili dinanzi a questo Giudice.
In particolare, l’organo requirente contestava agli odierni convenuti di aver deliberato la proposizione di una vera e propria lite temeraria, adottando così una decisione che, conformemente agli indirizzi giurisprudenziali correnti in ordine alle determinazioni viziate da palesi errori di fatto, aspetti di manifesta irrazionalità, o evidenti contraddizioni logiche, non può venir sottratta al sindacato giurisdizionale.
Concludeva la Procura che, per giurisprudenza consolidata, la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio – quale quello ipotizzato a carico del DM. negli esposti dai quali prese le mosse il giudizio penale conclusosi con l’assoluzione – non è fonte di responsabilità civile per il denunziante, anche in caso di proscioglimento o assoluzione, salvo che la denuncia risulti calunniosa. Sennonché, per la Procura attrice (che si rifà sul punto all’identica conclusione raggiunta dal giudice civile in sede di rigetto della domanda di danni proposta avverso gli autori degli esposti) nella vicenda in esame di calunnia non potrebbe parlarsi, tenuto conto del fatto che all’invio degli esposti seguì il rinvio a giudizio e, fra l’altro, neppure lo stesso DM. propose alcuna denuncia per calunnia nei confronti degli autori degli esposti o sollecitò in questa direzione il p.m. penale.
Le denunzie contenute negli esposti avevano dunque, secondo la Procura, una parvenza di fondatezza, sicché l’esito sfavorevole della lite civile che avrebbe recato danno al Comune era facilmente prevedibile da parte degli odierni convenuti, nel momento in cui adottarono la delibera di Giunta n. 25 del 28.4.1999. Né essi, fa notare ancora l’organo requirente, si premurarono di procacciarsi un parere in proposito o, sull’esempio di quanto invece ebbero a fare nella medesima delibera a proposito del fondamento del diritto al rimborso del Sindaco delle spese legali sostenute nel processo penale, avvertirono il bisogno di un approfondimento in ordine agli orientamenti giurisprudenziali formatisi al riguardo.
Con memoria pervenuta in data 15.6.2005 si costituivano gli odierni convenuti, instando per la loro assoluzione, non ritenendo ravvisabile nel proprio operato né dolo né colpa grave e deducendo che gli esposti dai quali prese le mosse il giudizio penale nei loro confronti sottendevano un intento calunnioso – inferibile, secondo la prospettazione difensiva, alla luce dei titoli culturali e della esperienza amministrativa posseduta dai denunzianti – dettato essenzialmente da ragioni di contrapposizione politica. Contestavano, inoltre, l’affermazione del Tribunale di Cremona secondo la quale il Comune non aveva titolo a richiedere la restituzione della somma erogata al Sindaco a titolo di rimborso delle spese legali da questi sostenute nel processo penale, sostenendo dovesse in un simile caso operare l’istituto della surroga di cui all’art. 1203 c.c. Aggiungevano, infine, in merito ai fatti oggetto di denunzia al giudice penale, che il DM. non amministratore bensì solo rappresentante della “******à omissis”, come tale investito della cura degli atti esecutivi conseguenti alle deliberazioni dei soci e quindi di una funzione sostanzialmente di controllo relativamente all’utilizzo dei fondi stanziati dalla Regione.
All’udienza del 6.7.2005, il rappresentante della Procura attrice e l’avv. ****** insistevano nelle rispettive prospettazioni.
Al termine dell’udienza, la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Non essendovi questioni preliminari da affrontare, nel merito si espone quanto segue.
1. Per quanto attiene alle spese di assistenza processuale sostenute dai dipendenti degli enti locali a causa di procedimenti penali, va premesso che la materia è ora regolata dall’art. 28 del C.C.N.L. del 14.9.2000 (e in precedenza, in termini pressochè analoghi, dagli artt.16 del D.P.R 1.6.1979, n. 191, 22 del D.P.R. 25.6.1983, n. 347 e 67 del D.P.R. 13.5.1987, n. 268) il quale prevede che “ il Comune, a tutela dei propri diritti e interessi , ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento , facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento….In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave, l’ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa….”
La previsione del C.C.N.L. del 14.9.2000, come del resto quella dei decreti precedenti, è stata peraltro ritenuta dalla giurisprudenza applicabile anche agli amministratori, “in considerazione del loro status di pubblici funzionari” (cfr., ex multis, Corte dei conti: ***************, n.501 e Sez.II, 15.7.1985, n.141; T.A,R. Abruzzo- Sez. Pescara, 3.6.2000, n. 438; Cons. Stato, Sez. V, 17. 7. 2001, n. 3946 e, più di recente, Cons. Stato, sez. VI, 2.8.2004 n. 5367).
Nella specie, si fa questione in particolare dell’applicazione dell’art. 67 D.P.R. n. 268 del 1987 (v. anche Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2630 del 24.5.2005, che parla al riguardo di “regola da ritenere generalissima, già desumibile dal divieto di arricchimento senza causa sancito con norma di chiusura dall’art. 2041 cod. civ.”).
Come è stato chiarito anche dalla giurisprudenza della Corte dei conti, in relazione alla normativa innanzi richiamata, le spese di difesa sostenute dai funzionari degli enti locali nel corso di procedimenti penali in cui essi siano stati coinvolti vanno rimborsate dall’ente quando i fatti contestati non integrino una condotta contraria agli interessi del Comune e quando gli stessi siano direttamente connessi alle funzioni o alla carica rivestita.
Tutto ciò premesso, in sede di analisi della fattispecie in esame, si osserva anzitutto che i fatti, per come ricostruiti nell’atto di citazione e nei documenti versati nel fascicolo processuale, sono sufficientemente provati sul piano fenomenico, anche agli effetti della relazione di derivazione causale fra la condotta degli odierni convenuti e il danno erariale come identificato in citazione, e pacifica è l’esistenza del rapporto di servizio tra i convenuti medesimi e l’amministrazione comunale.
In ordine alla sussistenza della colpa grave richiesta, nel minimo, per l’affermazione di responsabilità dinanzi al giudice contabile, nella specie il Collegio ritiene di doversi esprimere affermativamente.
In effetti, le denunzie contenute negli esposti di cui si è detto avevano una parvenza di fondatezza, sicché l’esito sfavorevole della lite civile che avrebbe recato danno al Comune era agevolmente prevedibile da parte degli odierni convenuti, nel momento in cui adottarono la delibera di Giunta n. 25 del 28.4.1999.
Né essi, d’altra parte, si premurarono di procacciarsi un parere in proposito o, sull’esempio di quanto invece ebbero a fare nella medesima delibera a proposito del fondamento del diritto al rimborso del Sindaco delle spese legali sostenute nel processo penale, avvertirono il bisogno di un approfondimento in ordine agli orientamenti giurisprudenziali formatisi al riguardo. Da questo punto di vista in particolare, ritiene il Collegio che effettivamente la condotta degli odierni convenuti rasenti la proposizione di una lite temeraria, esulando quindi da esso ogni profili riconducibile al diverso piano della discrezionalità tecnica, che nella specie non entra affatto in gioco.
A rendere astrattamente plausibile l’intento di denunzia sotteso agli esposti che offrirono spunto all’indagine penale sta anche il fatto, reso oggetto di apposita deduzione difensiva, che il DM., diversamente da quanto rappresentato negli scritti difensivi, non rivestiva semplicemente la qualità di rappresentante della “******à omissis”, ma dallo Statuto sociale risulta aver acquisito, sin dalla nascita della società, il ruolo di amministratore delegato.
Come ciò si potesse tradurre – secondo la prospettazione difensiva – nell’assunzione di una veste non limitata a quella di esecutore delle deliberazioni dei soci, bensì anche di tutore in ordine al corretto utilizzo dei fondi stanziati dalla Regione, nel presente giudizio è rimasto per la verità indimostrato. E questo è tanto più vero se si considera, in particolare, che per quanto ne fosse prevista la costituzione con legge regionale, sì da farne una tipica società c.d. di scopo, riconducibile come tale alla nota categoria delle c.d. società legali, la “******à omissis”, in concreto, si contraddistingueva sin dall’inizio per una compagine societaria formata esclusivamente da privati proprietari di lotti di terreno rientranti nell’area del territorio comunale sulla quale dovevano realizzarsi le opere di urbanizzazione primaria di cui si è già detto.
Il che, quand’anche non creasse di per sé una situazione di potenziale conflitto di interessi in rapporto al duplice ruolo del DM., certamente – per quanto in questa sede specificamente rileva – sarebbe circostanza idonea a confermare che gli esposti indirizzati alla Procura della Repubblica dovevano reputarsi provvisti quanto meno di una parvenza di fondatezza, sicché deve per conseguenza ritenersi, come già detto, che l’esito sfavorevole della lite civile che avrebbe recato danno al Comune fosse facilmente prevedibile da parte degli odierni convenuti, nel momento in cui adottarono la delibera di Giunta n. 25 del 28.4.1999.
2. Il Collegio ritiene opportuno precisare che condivide la tesi fatta propria dal giudice civile, il quale, nel rigettare la domanda attorea proposta in quella sede, ha condannato il Comune ricorrente a rifondere gli autori degli esposti che offrirono spunto per il rinvio a giudizio la complessiva somma di circa 16.690.000 delle vecchie lire, aggiungendo che il Comune non aveva titolo a richiedere la restituzione della somma erogata al Sindaco a titolo di rimborso delle spese legali da questi sostenute nel processo penale, perché persino se vi fosse stata calunnia il Comune non poteva venir considerato parte lesa, né, conseguentemente, titolare del diritto al ristoro del danno inferto all’onore, quale bene giuridico protetto nell’ambito del reato plurioffensivo di calunnia, e non essendovi d’altro canto norma alcuna che, diversamente da altre ipotesi, legittimi il Comune a surrogarsi in un altrui diritto di credito.
Anche a parere di questo Collegio, le disposizioni contenute nell’art. 67 D.P.R. n. 268 del 1987 valevano e valgono a fondare – sempreché ricorrano tutte le condizioni da esse previste (v. anche, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2041 del 29.4.2005) – un diritto di credito dell’amministratore o del dipendente nei confronti di una data amministrazione ai fini del rimborso delle spese sostenute nell’esercizio del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., ma non sono idonee a trasformare questo credito in una pretesa a contenuto patrimoniale nel cui esercizio sia consentita la surroga del debitore che abbia pagato (cioè l’amministrazione) al fine di rivalersi sull’autore della condotta di denunzia occasionante l’esborso per spese legali da cui il credito a titolo di rimborso (mediatamente) deriva.
Ciò perché, diversamente da altri casi (si v. l’art. 1916 c.c. richiamato dal giudice civile cremonese), la normativa speciale che consente all’amministratore o al dipendente di ottenere, da una data amministrazione, il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa, non prevede anche che detta amministrazione possa agire in rivalsa verso l’autore della condotta sopra descritta.
Il che tuttavia non significa, secondo il Collegio, che gli oneri del rimborso di cui si discorre debbano ineluttabilmente gravare sull’amministrazione tenuta ex lege a soddisfare il credito vantato dai propri amministratori o dipendenti, e quindi, in ultima istanza, sui contribuenti.
Nei casi, diversi da quello venuto oggi all’esame di questa Sezione, in cui, nella condotta di denunzia occasionante l’esborso per spese legali fonte (mediatamente) del credito a titolo di rimborso, fossero ravvisabili – anche dal punto di vista del possesso delle necessarie qualifiche soggettive (si pensi, ad es., al componente di un organo elettivo) – gli estremi dell’illecito perseguibile dalla Procura presso questa Corte, nulla impedirebbe, infatti, l’esercizio dell’azione pubblica di responsabilità.
Ciò perché, se la condotta di denunzia occasionante l’esborso per spese legali fonte (mediatamente) del credito a titolo di rimborso non si atteggia in concreto ad illecito amministrativo, la vicenda è riconducibile alla fisiologia di un sistema nel quale non vanno disincentivati, con il timore di essere perseguiti dall’organo requirente contabile, il mantenimento una soglia alta di attenzione da parte di tutti i contribuenti e un diffuso senso del dovere civico di denunzia delle situazioni suscettibili di porre a rischio le risorse finanziarie pubbliche, specie nella fase attuale di scarsa disponibilità di queste ultime. ****’altro discorso va ovviamente fatto se, invece, quella condotta, lungi dall’esser riconducibile alla fisiologia di un siffatto sistema, risulti, in concreto, omologabile al paradigma dell’illecito amministrativo, in quanto tenuta con dolo o almeno con colpa grave (il che, ferma restando la necessità di una valutazione caso per caso, è però tendenzialmente da escludere laddove, come nel caso di specie, all’esposto segua il rinvio a giudizio o, in sede contabile, l’emissione dell’atto di citazione: cfr. da ultimo Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Campania, del. n. 2 del 2005).
Se tenuta con dolo o almeno con colpa grave, infatti, tale condotta va doverosamente perseguita dalla Procura contabile perché i contribuenti vanno tenuti indenni dal peso che altrimenti deriverebbe loro dal accollo tout court all’amministrazione dell’onere da rimborso di cui si discorre, originato da un fatto illecito. Il che equivale a dire, per concludere sul punto, che se l’amministrazione pubblica non ha titolo per subentrare nel credito rimborsabile di che trattasi – per l’assenza di una norma che sul piano civilistico autorizzi la surroga – e, quindi, non ha azione dinanzi al giudice civile per ottenere dall’autore di questa condotta il ristoro delle somme rimborsate, l’esperibilità dell’azione pubblica di responsabilità rimane invece ferma.
In altri termini, quello in esame è un caso nel quale vi è un danno erariale ontologicamente intraducibile in un danno in senso civilistico, o, se si vuole, nel quale, a fronte di un danno erariale, non è neppure astrattamente configurabile un corrispondente diritto di azione della P.A.
Occorre infatti tenere ben distinto, rispetto al diritto al rimborso per cui qui è causa, il diritto di credito che sorge – ai fini del risarcimento del relativo danno – in capo alla vittima del reato di calunnia che sia stato eventualmente commesso mediante l’esposto. Quest’ultimo diritto deriva infatti dall’affermazione della responsabilità civile del calunniatore, e tende alla riparazione del pregiudizio inferto ad un attributo della personalità della vittima, mentre il diritto al rimborso delle spese legali mira al diverso risultato di impedire un depauperamento del dipendente o dell’amministratore prosciolto o assolto, ed è quindi previsto a garanzia dell’integrità della sfera patrimoniale di questo soggetto (cfr. anche Cass., SS.UU., sent. n. 10680 del 14.12.1994).
L’uno è dunque un diritto al risarcimento; l’altro, un diritto al rimborso (fondato non già sull’art. 2043 c.c., bensì sul divieto di arricchimento senza causa sancito con norma di chiusura dall’art. 2041 cod. civ.: si v. la già menzionata decisione Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2630 del 24.5.2005). E la diversa natura giuridica si riflette invariabilmente anche sulle tecniche di computo della rispettiva misura, atteggiandosi il primo a debito di valore, come tutte le obbligazioni pecuniarie di origine risarcitoria, e il secondo, invece, a debito di valuta.
Nel caso in esame, va aggiunto, l’intraducibilità in un danno in senso civilistico del danno erariale provocato dal rimborso douto a chi sia stato accusato con dolo o colpa grave suona conferma, una volta di più, ove mai ce ne fosse stato bisogno, dell’assunto secondo il quale tale ultima azione ha carattere di esclusività, e non già di alternatività, rispetto a quella civile (che si ritenesse esperibile dall’amministrazione danneggiata).
Il Collegio ritiene infatti di dover qui ribadire che, come di recente ribadito da Corte dei conti, Sezione III centrale, n. 490/A del 21.7.2005, il nuovo assetto della Corte dei conti, quale emerso dalla legislazione di riforma del 1994 – 1996, ha comportato la configurazione della stessa come giudice naturale della responsabilità amministrativa, sia per gli amministratori che per i dipendenti di tutta la Pubblica Amministrazione: ciò comporta l’esclusività della relativa giurisdizione nel senso che la Corte dei conti è l’unico organo giudiziario che può decidere nelle materie devolute alla sua cognizione, con conseguente esclusione di una concorrente giurisdizione del giudice ordinario, adito secondo le regole normali applicabili in tema di responsabilità e di rivalsa (Cass. civ. SS. UU. 22 dicembre 1999 n. 933). A tale progressivo ampliamento della giurisdizione contabile in materia di responsabilità, l’ambito della quale investe ora anche la responsabilità extracontrattuale nei confronti di amministratori e dipendenti di pubbliche amministrazioni, anche se diverse da quelle di appartenenza (Cass. civ. SS.UU. ord. n. 10973 del 25 maggio 2005), consegue che il discrimen tra la giurisdizione ordinaria e quella contabile risiede unicamente nella qualità del soggetto passivo e, quindi, nella natura delle risorse finanziarie di cui esso si avvale. Il ricordato carattere di generalità che investe la giurisdizione di questa Corte, è, quindi, idoneo a dirimere in radice la possibilità del conflitto con la giurisdizione civile, atteso che l’Amministrazione – considerata, appunto, l’esclusività in materia della giurisdizione della Corte dei conti e, conseguentemente, dell’azione intestata al Procuratore contabile – non ha ormai azione verso i propri dipendenti ed amministratori per i danni ad essa arrecati in violazione dei loro doveri di servizio: il solo giudizio configurabile al riguardo è quello di responsabilità amministrativa, e non c’è possibilità di bis in idem se ci si attiene a questo criterio (v. Sez. II^ centrale d’appello, sent. 1.7.2004, n. 215).
3. Tutto ciò premesso, una notazione va doverosamente dedicata, peraltro, anche alla circostanza – che, ove fosse stata provata, ben altra considerazione avrebbe potuto in ipotesi meritare in questa sede, attesa anche la diretta rilevanza costituzionale degli interessi in gioco – secondo la quale, come risulta dall’esposto inviato dal sig. B. alla Procura regionale presso questa Sezione, a seguito della proposizione della lite civile decisa con la citata delibera giuntale n. 29 del 28.4.1999, e proprio in forza della sua pendenza, con successiva delibera n. 31 del 1999, egli sarebbe stato estromesso dal consiglio comunale, in presunta applicazione dell’art. 3, comma 4, della l. n. 154 del 1981, venendo in tal modo privato dell’investitura nella carica elettiva democraticamente ottenuta in virtù del consenso popolare.
Tale essendo la delicatezza degli interessi coinvolti dalla tutela della finanza pubblica in ambito locale, come già in altra occasione questa Sezione ha avuto modo di osservare (sent. n. 1166 del 2004) occorre infatti evitare il rischio che le norme caducative del diritto di elettorato passivo in forza dell’esistenza di una lite con l’ente locale (si pensi non soltanto al già citato art. 3 della l. n. 154 del 1981, bensì anche all’art. 63, comma 1, n. 4, del d.lgs. n. 267 del 2000) possano venir usate in modo distorto come strumento improprio di lotta politica finalizzato all’eliminazione dalla scena di taluni potenziali candidati od oppositori, oppure a favorire con comportamenti omissivi candidati in realtà non eleggibili, oppure ancora, infine, per esercitare su questi ultimi indebite pressioni durante l’esercizio del mandato, et similia.
Non soltanto, dunque, non è consentito creare ad arte (ad iniziativa dell’amministrazione, che agisca quindi in veste di attore) una (qualsiasi) lite – priva di fondamento giuridico – fra l’ente locale e uno o più componenti l’organo elettivo, al fine di farne derivare l’applicazione delle norme richiamate e, conseguentemente, la decadenza dal mandato di questi ultimi, ma a fortiori sarebbe inammissibile fare applicazione delle medesime disposizioni, agli identici effetti, ove l’amministratore passibile di decadenza agisca o si difenda in giudizio, nei confronti dell’ente, per fatti compiuti nello svolgimento del mandato ricevuto dagli elettori (in tal senso, da ultimo, Cass., sez. I, 16.8.2005 n. 16956).
In ogni caso, in disparte la considerazione del vulnus arrecabile mediante siffatti comportamenti ad interessi di diretta rilevanza costituzionale, non è affatto inverosimile ipotizzare che essi possano fondare anche pretese di ordine patrimoniale – a titolo individuale – verso l’ente (si pensi, ad esempio, alla rivendicazione del diritto della persona ingiustamente estromessa dall’ufficio elettivo alla percezione, sino alla scadenza naturale del mandato, dell’indennità di carica spettantegli, e, quindi, alla rivendicazione del risarcimento del relativo danno), che, in caso di soccombenza dell’amministrazione dinanzi al giudice civile, certamente non debbono gravare in via ultimativa sui contribuenti.
In forza della duplicazione degli oneri che in simili ipotesi verrebbe a determinarsi (per un verso, corresponsione dell’indennità di carica, limitatamente alla residua durata del mandato, alla persona subentrata in seno all’organo elettivo al componente estromesso; per altro verso, corresponsione del risarcimento eventualmente accordato a quest’ultimo dal giudice civile), ne consegue il radicamento della giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dei componenti gli organi elettivi che esprimessero voto favorevole all’espromissione di altro componente per le ragioni di cui si discorre.
Nei casi descritti, muovendo dagli eventuali riflessi negativi di ordine patrimoniale delle condotte qui esaminate, il giudice contabile finisce dunque con il farsi tutore – ancorché mediatamente – della stessa corretta dialettica fra opposte forze politiche.
4. Va a quanto sopra esposto aggiunto (v. la già citata sentenza n. 1166 del 2004) che, in attuazione dell’art. 76 del TUEL, il Ministero dell’Interno ha istituito l’anagrafe degli amministratori locali e regionali, che – come può ricavarsi consultando il relativo sito all’indirizzo URL http://cedweb.mininterno.it:8898/public_html/AmmIndex4.htm – consta non soltanto dei dati attuali, riferiti cioè agli amministratori in carica, ma anche dei dati storici, riferiti cioè ad amministratori ormai cessati dall’ufficio. Esiste, in altri termini, un puntuale sistema di pubblicità legale nell’ambito del quale debbono trovare evidenza anche simili decisioni del giudice contabile, il quale è tenuto a inviarle agli uffici responsabili della gestione di siffatta banca di dati, ordinandone la pubblicazione, con gli effetti che ne derivano, a seconda dei casi, sulla possibilità di prosecuzione nello svolgimento del mandato, oppure in termini di preclusione all’assunzione di nuovi mandati, sino all’estinzione del debito de quo.
Da questo punto di vista, l’art. 63, comma 1, n. 5, del d.lgs. n. 267 del 2000 introduce evidentemente un elemento di garanzia nel far dipendere l’incompatibilità/ineleggibilità – nei presupposti – da una sentenza passata in giudicato, assumendo quindi importanza non già il debito erariale comunque determinato, bensì solamente quello definito dal giudice contabile, anche nel quantum, mediante sentenza passata in giudicato, previa dichiarazione di responsabilità verso l’ente. Ed è quindi solamente l’estinzione integrale di un simile debito verso l’erario che può produrre un effetto di ripristino delle libertà politiche e dei diritti di cittadinanza individuali medio tempore compressi nella forma dell’incompatibilità/ineleggibilità.
5. In ordine, infine, alla quantificazione del danno, tenuto conto della non avvenuta erogazione – secondo quanto dichiarato all’udienza dalla Procura attrice – del compenso in vista del pagamento del quale venne inizialmente impegnata la somma di 2.000.000 delle vecchie lire, e anche in ragione del mancato appello della decisione sfavorevole del giudice civile di primo grado, il Collegio, nell’esercizio del potere riduttivo intestato a questa Corte, ritiene equo commisurare a complessivi euro 5.600,00 il danno erariale da porre a carico degli odierni convenuti, da rivalutarsi dalla data di verificazione dell’evento dannoso, e agli interessi legali, dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda o istanza reiette, condanna i convenuti indicati in epigrafe al pagamento, in solido e in parti eguali fra di loro, di euro 5.600,00 a favore del Comune di Solarolo Rainerio, da rivalutarsi dalla data di verificazione dell’evento dannoso, e agli interessi legali, dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in euro
Manda alla Segreteria anche ai fini della trasmissione al Ministero dell’Interno affinché questo provveda, una volta perfezionatosi il passaggio in giudicato, all’inserimento degli estremi della presente decisione, ai sensi e per agli effetti di cui all’art. 63, comma 1, n. 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, nella banca dati istituita a norma dell’art. 76 del decreto legislativo da ultimo citato.
Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del 6.7.2005.
Depositata in Segreteria
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