Diversamente da quello che era accaduto alla Legge Regionale Lazio, la quale era stata dichiarata incostituzionale, la Legge Regionale Abruzzo non ha subito la stessa sorte.
nota a cura dell’Avv. ****************-Dottore di ricerca Università di Salerno
Nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26 (Intervento della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 25 ottobre 2004, depositato in cancelleria il 2 novembre 2004 ed iscritto al n. 103 del registro ricorsi 2004.
Visto l’atto di costituzione della Regione Abruzzo;
udito nell’udienza pubblica del 13 dicembre 2005 il Giudice relatore ******************;
uditi l’avvocato dello Stato *************** per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato *************** per la Regione Abruzzo.
Ritenuto in fatto
1.― Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere g) e l), e terzo comma, nonché all’art. 118, primo comma, della Costituzione, la legge della Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26, (Intervento della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro).
Osserva il ricorrente che gli artt. 1 e 3 della legge impugnata utilizzano ripetutamente l’espressione «fenomeni afferenti lo stress psico-sociale ed il mobbing nei luoghi di lavoro» o espressioni similari, senza però darne una definizione, ed in tal modo pongono norme «in bianco», che rimettono cioè ad organi amministrativi il compito ed il potere di integrare il disposto legislativo, sostituendosi al legislatore statale, riconosciuto competente in materia dalla sentenza n. 359 del 2003 di questa Corte.
Inoltre, gli artt. 2, 3, 4, e 5 della legge in esame, nel prevedere strutture amministrative (centro di riferimento regionale, centri di ascolto localizzati, organismo regionale tecnico-consultivo) e relative funzioni, operano la scelta unilaterale di attribuire preminenza agli apparati sanitari piuttosto che a quelli cui è affidata la tutela e sicurezza del lavoro od a quelli competenti per le attività produttive.
L’art. 3, comma 3, e l’art. 4, comma 3, della legge in esame consentono poi ai predetti centri di riferimento e di ascolto di «assumere» personale precario di non specificata qualificazione, con il solo limite della «dotazione finanziaria assegnata».
Infine, la legge in esame non individua né l’ambito dell’«intervento della Regione Abruzzo», né la tipologia dei «luoghi di lavoro», rendendo in tal modo possibili ingerenze (non soltanto della Regione ma anche di organizzazioni datoriali private o sindacali) nei rapporti di lavoro pubblico statale, con invasione della competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione.
Nel complesso la legge, oltre a disattendere il citato insegnamento di questa Corte, omette di considerare la pluralità degli interessi generali e la necessità di trovare un equilibrio tra essi, crea uno strumento pervasivo e di non garantita neutralità per «interventi» nei rapporti contrattuali di lavoro e nelle attività imprenditoriali e delle pubbliche amministrazioni, ed inoltre introduce una disciplina «territorialmente differenziata» in assenza di principi fondamentali unificanti.
La legge censurata sarebbe perciò lesiva anche dell’art. 117, secondo comma, lettera l), e dell’art. 118, primo comma, della Costituzione.
Il denunciato contrasto con la riserva allo Stato della produzione legislativa in materia di ordinamento civile si realizza attraverso un’incidenza sui rapporti civilistici interpersonali del tutto imprevedibile, in assenza di una definizione delle tipologie dei «fenomeni» considerati; «fenomeni» che, in pratica, inevitabilmente si tramutano in fattispecie di illecito contrattuale.
La legge, infine, viola l’art. 117, terzo comma, Cost. (tutela della salute, tutela e sicurezza del lavoro), non essendo ricollegata a «principi fondamentali» posti dal Parlamento nazionale, al quale è riservato il compito di definire il mobbing e lo stress psico-sociale, di reperire un appropriato equilibrio tra i molteplici interessi compresenti, ed anche di disegnare il quadro degli strumenti organizzatori e delle relative funzioni.
2.― Nell’imminenza dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria in cui osserva che, sulla base della citata sentenza n. 359 del 2003 , è possibile ascrivere all’ambito dell’ordinamento civile quanto attiene alla disciplina dei rapporti di lavoro ed alla salvaguardia della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore, mentre ciò che riguarda i riflessi degli atti vessatori sulla salute fisica e psichica della persona riguarderebbe la tutela della salute e la tutela e sicurezza del lavoro. La legge impugnata ha prodotto inoltre norme organizzatorie che prevedono sportelli i quali si aggiungono ai comitati paritetici previsti dalla contrattazione collettiva, senza farsi carico dell’eventuale duplicazione di procedure e dei possibili contrasti.
Si ribadisce, infine, che la mancata definizione del mobbing da parte della legge impugnata non vale ad escluderne l’illegittimità.
3.― Per la Regione Abruzzo è stato depositato un atto di costituzione a margine del quale è conferita procura relativa ad un ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso altra legge della stessa Regione.
Considerato in diritto
1.― Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), e terzo comma, nonché all’art. 118, primo comma, della Costituzione, la legge della Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26 (Intervento della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro), perché lederebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile nonché di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali.
Il ricorrente sostiene, altresì, che la legge impugnata attiene anche alla tutela della salute ed alla tutela e sicurezza del lavoro, materie entrambe di competenza legislativa concorrente,irragionevolmente privilegiando le strutture sanitarie e non limitandosi a dettare la disciplina di dettaglio, pur in assenza di una legislazione statale specifica sul fenomeno del mobbing.
A conforto delle proprie tesi il ricorrente richiama la sentenza di questa Corte n. 359 del 2003 , con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro).
2.― In via preliminare si rileva l’ammissibilità del ricorso, ancorché esso concerna un’intera legge, in quanto l’omogeneità di questa riguardo all’oggetto non genera incertezze sul contenuto delle censure e quindi sui limiti e le ragioni dello scrutinio di costituzionalità (v. sentenza n. 359 del 2003 e sentenze ivi citate sul punto).
3.― Va invece dichiarata inammissibile – ai sensi degli artt. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 23, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – la costituzione in giudizio della Regione Abruzzo, per la quale è stato depositato un atto privo della procura ad litem: la stessa risulta infatti conferita in relazione ad un ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge 5 agosto 2004, n. 22 recante «Nuove disposizioni in materia di politiche di sostegno all’economia ittica» della medesima Regione.
4.― Nel merito il ricorso non è fondato.
Il richiamo alla sentenza n. 359 del 2003 non giova al ricorrente, per la sostanziale diversità di contenuti tra la legge della Regione Lazio n. 16 del 2002, dichiarata costituzionalmente illegittima, e la legge della Regione Abruzzo, oggetto del presente scrutinio.
Con la sentenza citata questa Corte rilevò in primo luogo che il fenomeno del mobbing, emerso nella vita sociale e unitariamente considerato nell’ambito delle scienze sociali, era ancora privo di una specifica disciplina legislativa statale, ma era venuto in evidenza in controversie decidendo le quali i giudici comuni lo avevano ricondotto, per alcuni suoi aspetti, sotto le previsioni dell’art. 2087 cod.civ. In tale decisione la Corte affermò inoltre che la normativa in materia di mobbing può avere una pluralità di oggetti. Essa può riguardare la prevenzione e repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico e, se del caso, l’individuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico di cui la vittima può avere bisogno nonché il regime degli atti o comportamenti posti in essere da quest’ultima come reazione a quanto patito. La Corte osservò quindi che, avuto riguardo alla condotta degli agenti – di coloro cioè che pongono in essere gli atti e comportamenti vessatori nei confronti del lavoratore, nei quali si concretizza il fenomeno del mobbing – la relativa disciplina rientra essenzialmente nell’ordinamento civile. Allo Stato spetta, pertanto, la competenza a dettare la definizione del mobbing ove e quando lo ritenga opportuno.
In riferimento alle conseguenze prodotte dagli atti e comportamenti vessatori, la Corte diede atto che nella giurisprudenza erano emersi i profili attinenti alla salute del lavoratore che assumeva di esserne stato destinatario e alla qualificazione degli atti da lui compiuti, ricollegabili a detti comportamenti e riconducibili sotto le previsioni dell’art. 2087 cod. civ.; profili in relazione ai quali la disciplina del mobbing era riconducibile alla tutela della salute e alla tutela e sicurezza del lavoro o ancora all’ordinamento civile.
Alla stregua di siffatte premesse la Corte valutò la legge della Regione Lazio allora impugnata e ne ritenne l’illegittimità costituzionale precipuamente perché essa era tutta imperniata su un’autonoma definizione di mobbing e su una esemplificazione dei comportamenti in cui il fenomeno poteva concretizzarsi, elementi questi che non le spettava di formulare con riguardo ai parametri evocati e che non erano in armonia con atti comunitari.
Ulteriori ragioni di illegittimità furono rinvenute nella disciplina di aspetti del fenomeno attinenti ai rapporti intersoggettivi tra lavoratore e datore e a comportamenti di questo integranti inadempimento degli obblighi inerenti al rapporto di lavoro.
La Corte rilevò anche che la legge regionale, nel disciplinare profili del fenomeno mobbing rientranti nella tutela della salute, non si era limitata alla formulazione di disposizioni di dettaglio, ma aveva anche stabilito principi fondamentali.
5.― La legge della Regione Abruzzo oggetto del presente scrutinio non contiene alcuno degli elementi che condussero la Corte, sulla base dei principi sopra ricordati, a dichiarare l’illegittimità della legge n. 16 del 2002 della Regione Lazio.
In primo luogo, la legge dà per presupposta la nozione dei comportamenti costituenti mobbing e non formula di questo fenomeno né una definizione generale, né esemplificazioni.
Di ciò si duole il ricorrente, assumendo trattarsi di norme in bianco il cui riempimento viene rimandato a successivi atti anche di natura amministrativa.
In realtà la legge, rinunciando a formulare una propria definizione del mobbing, si riferisce a quegli elementi, come si è visto, già desumibili non da una specifica disciplina, bensì dalle esistenti normative statali riguardanti materie in cui il complesso fenomeno si manifesta, normative che i giudici comuni hanno avuto presenti nelle controversie il cui oggetto era costituito dal mobbing in uno o più dei suoi molteplici aspetti.
Se poi l’inesistenza di una definizione di questo dovesse condurre la Regione Abruzzo all’emanazione di atti amministrativi esulanti dalle proprie competenze o comunque contrastanti con parametri costituzionali, per la repressione di tali fenomeni l’ordinamento conosce gli opportuni rimedi di giustizia costituzionale e comune.
La principale censura mossa alla legge non coglie, quindi, nel segno.
Neppure fondate sono le censure concernenti le disposizioni della legge impugnata le quali prevedono l’istituzione di un centro di riferimento regionale presso l’ASL di Pescara e di centri di ascolto presso tutte le ASL della Regione e contengono l’indicazione dei compiti di questi (artt. 2, 3 e 4 della legge).
Le doglianze del ricorrente si sostanziano nell’aver la legge privilegiato le strutture sanitarie rispetto agli organi preposti alla tutela e sicurezza del lavoro.
Ora, anche a voler trascurare ogni rilievo sulla genericità delle censure, a dimostrarne l’infondatezza si osserva che i compiti affidati a tali centri attengono principalmente al rilevamento e alla valutazione delle conseguenze degli atti e comportamenti vessatori sulla salute dei lavoratori ed alla predisposizione di misure di sostegno per loro e per le loro famiglie, vale a dire ad uno degli oggetti possibili della normativa in tema di mobbing, come enucleati nella citata sentenza n. 359 del 2003. In coerenza all’espletamento di siffatti compiti, ai suindicati centri è destinato in larga prevalenza personale del comparto sanitario.
Al riguardo il ricorrente si duole della mancata specificazione del livello di qualificazione posseduto da detto personale e dell’eventuale carattere precario del relativo rapporto. Tali censure, oltre a risultare scarsamente comprensibili alla luce dei parametri evocati, non sono fondate: la possibilità di avvalersi, oltre che di dipendenti delle ASL, anche di lavoratori con contratti di collaborazione o in regime di convenzione, è coerente con i compiti previsti sia per il centro di riferimento regionale (art. 3, ultimo comma) sia per i centri di ascolto localizzati (art. 4, ultimo comma), mentre il loro impiego fa capo ai rispettivi poteri di organizzazione.
Non è superfluo inoltre rilevare che la legge istituisce anche un organismo regionale tecnico consultivo presso l’Assessorato del lavoro del quale fanno parte – oltre a rappresentanti dei sindacati, dei lavoratori, dei datori di lavoro ed al responsabile del centro di riferimento e ad un dirigente della direzione sanità – anche dirigenti di altre direzioni, il Presidente della commissione pari opportunità ed un consigliere di parità (art. 5 della legge).
Nessuna irragionevolezza si riscontra pertanto nelle indicate disposizioni, né alcuna invasione nella organizzazione dell’amministrazione statale o di enti pubblici nazionali.
Si osserva, infine, come non assuma alcun rilievo il rischio – paventato dal ricorrente – dell’eventuale duplicazione di procedure che la legge regionale introdurrebbe rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva. Come avverte lo stesso ricorrente, le previsioni della fonte pattizia attengono ai rapporti inter partes e disciplinano ambiti di esclusiva competenza contrattuale.
In conclusione può dirsi che la legge impugnata non ha oltrepassato i limiti della competenza che già questa Corte ha riconosciuto alle Regioni quando ha affermato che esse «possono intervenire con propri atti normativi anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze» (v. sentenza n. 359 del 2003 ).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2006.
Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2006.
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