Il travagliato iter parlamentare che ha portato all’approvazione della legge 3 maggio 2004, n. 112, entrata in vigore il 6 maggio 2004, lungi dal costituire il necessario tributo “tecnico” che si imponga ad una moderna democrazia parlamentare che intenda adeguatamente conciliare gli interessi economici e politici propri di una materia estremamente delicata (quale è, a pieno diritto, quella inerente la regolamentazione del sistema radiotelevisivo italiano) è parso ai più, al contrario, l’inevitabile premessa ad una ancor più scontata conclusione: non una disciplina organica, bensì una scelta politica.
All’indomani della sentenza n. 466 del 2002 della Corte costituzionale infatti, dichiarata da questa l’illegittimità della disciplina, anch’essa transitoria
[1], che la legge n. 249 del 1997 introduceva, e che aveva consentito, rispettivamente, a Rai Tre di finanziare la propria struttura con la pubblicità (anziché con i soli proventi del canone), soprattutto: al polo Mediaset di continuare a trasmettere via etere, con tecnica analogica, con tre reti, e, del pari, al gruppo Telepiù di utilizzare la seconda rete (Telepiù nero), si veniva a determinare l’improvvisa necessità per i suddetti soggetti di interrompere le trasmissioni (e, nel caso di Rai Tre, rinunciare alla pubblicità) entro il 31 dicembre del 2003, termine ultimo indicato dalla Consulta per il trasferimento sul satellite o sul cavo delle trasmissioni terrestri in tecnica analogica delle reti eccedenti.
Benchè questo termine fosse stato successivamente prorogato dal Governo con il D.Lg.Vo n. 352 del 2003 (convertito in legge 24 febbraio 2004, n. 43) al 30 aprile 2004, consentendo all’Autorità garante per le comunicazioni di svolgere un accertamento sull’offerta complessiva di programmi televisivi digitali terrestri già in fase di trasmissione da parte di alcuni operatori (in particolare: Mediaset, Rai e Telecom), che detto accertamento si fosse concluso positivamente, come risultante dalla relazione resa pubblica nel maggio 2004, l’esito finale, costituito dalla legge n. 112, è parso agli interpreti
[2] estremamente incoerente, in virtù, soprattutto, della transitorietà che lo contraddistingue, in aperto stridore con le premesse contenute nella legge stessa, propense a definirla – inopportunamente – legge di sistema.
Più specificatamente, sono da individuarsi tre aspetti controversi della legge. L’art. 16 anzitutto, che nel rimandare all’emanazione di un testo unico in materia, favoriva l’instaurazione di un regime (appunto, transitorio) nel quale, al sistema di trasmissione analogico (dichiarato peraltro incostituzionale dalla Consulta, nella già citata sentenza n. 466 del 2002), si affiancava quello digitale, anch’esso transitorio ed allora in fase di avvio.
Il Testo Unico
[3], che è stato adottato con D.Lg.Vo. 31 luglio 2005, n. 117, ha recepito tuttavia buona parte del contenuto della legge, finendo pertanto per riproporre – per quanto di nostro interesse – le medesime problematiche presentatesi in ordine all’effettività delle garanzie della pluralità, al punto da indurre la sesta Sezione del Consiglio di Stato a rimettere la questione, con sentenza n. 3846 del 2005, alla Corte di Giustizia delle Comunità europee.
Il giudice infatti, a fronte del ricorso della società Centro Europa 7 S.r.l. contro il Ministero delle comunicazioni, l’Autorità garante per le comunicazioni e la Direzione generale autorizzazioni e concessioni del Ministero delle comunicazioni, rilevava e riteneva fondate le perplessità avanzate dal ricorrente in ordine alla effettiva garanzia del pluralismo concorrenziale informativo nel settore radiotelevisivo, nonché sulla condivisibilità dell’interpretazione data dalla legislazione nazionale nei confronti delle disposizioni del Trattato CE sulla prestazione di servizi e sulla concorrenza
[4], e, riservando ogni altra pronuncia sul merito alla definizione delle questioni pregiudiziali, rimetteva le stesse all’attenzione della Corte di Giustizia della Comunità europea.
Di massimo rilievo, dunque, saranno le osservazioni che il giudice comunitario vorrà produrre in ordine alla situazione italiana, attendendosi da parte degli interpreti un intervento che possa chiarire in modo definitivo buona parte delle questioni che il Testo Unico, nel riprendere il contenuto della legislazione vigente sul tema, ha omesso di affrontare e risolvere adeguatamente, in particolare per quanto riguarda la questione centrale delle concessioni amministrative necessarie alla trasmissibilità dei dati.
Il secondo profilo di transitorietà che ha avuto modo di interessare l’interprete in sede giurisdizionale ha riguardato la definizione che la legge in esame fa dei principi generali sulla materia. Se cioè nel Capo I si provvede a fornire una elencazione di questi, disponendo che le singole Regioni, alla luce del rinnovato assetto costituzionale sul riparto di competenze Stato-Regioni, potranno e dovranno esercitare la potestà legislativa concorrente loro concessa, al tempo stesso, nuovamente nell’articolo 16, si afferma l’obbligatorietà per queste di attenersi ai principi contenuti nel Testo Unico.
Ebbene, posto che quest’ultimo ha, seppur parzialmente, risolto la questione dei rapporti con le Regioni, grazie anche alla prevista necessarietà dell’intervento della Conferenza Stato-Regioni nella fase di formazione del Testo Unico ed all’intervento del Consiglio di Stato che, in sede consultiva
[5], ha escluso che potesse ravvisarsi una lesione per le competenze regionali (in quanto ogni principio ribadiva, in sostanza, l’obbligo del rispetto della normativa internazionale o comunitaria ovvero individuava i livelli di adeguatezza per la collocazione delle competenze amministrative) è da registrarsi invece la presenza di una nutrita serie di pronunce della Corte Costituzionale e dei T.A.R. in ordine ad alcuni profili tecnici della materia.
Si tratta tuttavia di pronunce, in particolare quelle della Consulta
[6], che hanno “limato”, piuttosto che demolire, il nuovo assetto di competenze disegnato nel 2001, e che, in sostanza, non offrono alla presente indagine spunti particolarmente interessanti.
Sicuramente di maggior spessore è il terzo, ed ultimo, profilo. Quello che cioè attiene la situazione giuridica della RAI, dovendosi registrare anche in questo caso la transitorietà che connota la disciplina introdotta dall’art. 20, al primo comma, della legge 112. In buona sostanza, nell’affidare per dodici anni la concessione del servizio pubblico radiotelevisivo alla RAI S.p.a., a decorrere dal maggio 2004, la disposizione non chiarisce adeguatamente se la stessa debba considerarsi una proroga rispetto al termine precedente (in scadenza nel marzo 2014), o se invece renda necessario il rilascio di una nuova concessione.
La soluzione pare possa ricavarsi dalla lettura del Testo Unico che, pur intervenendo nel disciplinare la materia delle concessioni amministrative al fine di porre ordine nella “giungla” dei titoli abilitativi per le trasmissioni in analogico ed in digitale, non fa alcuna menzione, sotto questo profilo, al servizio radiotelevisivo pubblico. Potendosi allora desumere, a circa tre anni di distanza dall’entrata in vigore della legge, che la ratio seguita dal legislatore del 2004 fosse quella di introdurre una proroga automatica all’originaria scadenza, senza richiedere ulteriori interventi.
L’esame della giurisprudenza, invece, presenta spunti interessanti. In particolare, mentre la giurisprudenza costituzionale si è concentrata, come visto, sulla definizione degli ambiti di applicazione dell’art. 117 della costituzione, nel caso della giurisdizione amministrativa rileva in particolare quella giurisprudenza
[7] che, nell’affermare la doverosa applicazione delle norme sull’evidenza pubblica per le attività strumentali alla gestione del servizio pubblico da parte della RAI S.p.a., ne ha ribadito la natura di organismo di diritto pubblico, conseguendone (ed al tempo stesso derivandone) la titolarità di concessione del servizio pubblico.
Si tratta di una pronuncia tanto più rilevante in quanto dimostra come l’interprete abbia dato segno di recepire quanto affermato, già nel 2002, dalla Consulta
[8], che, constatando l’indefettibile esigenza di garantire il pluralismo nel sistema radiotelevisivo, ne derivava la neccessaria deferibilità alle strutture pubbliche.
Ebbene, appurata l’intenzione del legislatore del 2004, espressa nel sesto comma dell’articolo 25, che avviava (ed anzi, sollecitava) il processo di privatizzazione dell’azienda, scadenzando la dismissione di rami di questa con termine ultimo per la cessione di una delle tre reti analogiche fissato al 31 dicembre 2006, non poche perplessità suscita, in chi scrive, la conciliabilità di quello con l’orientamento della giurisprudenza, volto – così parrebbe – a ribadire la necessarietà di una connotazione pubblicistica al servizio pubblico.
Quel che è certo, in conclusione, è che al momento i profili di incertezza non mancano. In attesa che la Corte di Giustizia si pronunci, e nella (amara) consapevolezza dei tempi tecnici che una ragionata e produttiva riflessione politica richiederebbe, qualora si volesse procedere ad un migliore e più garantista sistema di regolamentazione, resta la sostanza: a due anni dall’emanazione di una legge che si annunciava epocale, il pluralismo e la concorrenzialità sono termini che ancora, contro ogni giustificazione, stridono con la disciplina del sistema radiotelevisivo italiano.
[1] Più esattamente, l’articolo 3, undicesimo comma, della legge 31 luglio 1997, n. 249, stabiliva che nessun soggetto potesse essere destinatario di più di una concessione televisiva su frequenze terrestri in ambito nazionale per la trasmissione di programmi in forma codificata. Entro il 31 dicembre dello stesso anno, quei soggetti che avessero avuto il controllo su più di una rete, avrebbero dovuto trasferire via cavo o via satellite le trasmissioni irradiate da una delle loro reti. Si prorogava però fino al 30 aprile 1998 la possibilità, per ciascun operatore, di mantenere due reti. Scaduto questo, si sarebbe introdotto un regime transitorio con il quale la rete eccedente avrebbe potuto essere esercitata in via transitoria, in attesa che l’istituenda Autorità garante per le comunicazioni non avesse accertato il congruo ed effettivo sviluppo dell’utenza della televisione satellitare cablata.
[2] Si confronti, sul merito, Grandinelli O.,
La riforma Gasparri del sistema radiotelevisivo, in
Giornale di diritto amministrativo, XI, 2004, pag. 1182 ss.
[3] Per un commento approfondito sullo stesso si veda Grandinetti O.,
Il Testo Unico della radiotelevisione, in
Giornale di diritto amministrativo, II, 2006, pagg. 121 ss.
[4] In particolare, si legge nella motivazione, al punto 14.9: “se, ancora, il quadro di regole derivanti dal diritto comunitario dei Trattati e derivato, improntato a garantire una concorrenza effettiva (
workable competition) anche nel settore del mercato radiotelevisivo, non avrebbe dovuto imporre al legislatore nazionale di evitare la sovrapposizione della proroga del vecchio regime transitorio analogo collegata all’avvio del c.d. digitale terrestre, poiché solo nel caso del c.d.
switch off delle trasmissioni analogiche (con il conseguente passaggio generalizzato al digitale) sarebbe possibile riallocare frequenze utilizzate per vari usi, mentre, nel caso del mero avvio del processo di transizione al digitale terrestre, si rischia di ulteriormente aggravare la scarsità delle frequenze disponibili, dovuta alla trasmissione analogica e digitale in parallelo (
simulcast).
[5] Cfr. Consiglio di Stato, 30 giugno 2005, n. 518
[6] Tra le tante, appare significativa Corte Costituzionale, 20/06/2006, n. 249, in merito alla questione (risolta dalla Corte in senso positivo) sollevata dalla Provincia autonoma di Trento circa la garanzia, da parte del servizio pubblico radiotelevisivo, della diffusione di trasmissioni in lingua tedesca e ladina.
[7] In merito si confronti soprattutto Tar Lazio, sez. I, 9 giugno 2004, n. 5640
[8] Si veda Corte Costituzionale, 19/06/2002, n. 282, in cui si venne ad affermare che il concessionario del servizio pubblico radiotelevisivo rientrasse nella sfera pubblica per quanto attiene alla struttura ed al modo di formazione degli organi di indirizzo e di gestione”, e, pertanto, dovesse anche distinguere la programmazione da quella degli operatori privati.
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