Premessa
Verrà esposta, dapprima, la teoria di Renato Scognamiglio e si confronterà poi, nella terza ed ultima parte, l’opinione di tale studioso con quelle di Salvi, Alpa, Bianca e Gazzoni. Siffatto confronto (sintetico) avrà quale oggetto specifico il rapporto tra il concetto di illecito e la responsabilità civile.
La suddetta teoria è stata elaborata da Scognamiglio negli anni Sessanta: si precisa che le citazioni degli altri contributi dottrinali del tempo, contenute nel presente scritto, sono state tratte, quasi tutte, dal libro di Scognamiglio del 1996 [Scognamiglio R., Scritti giuridici, I, Milano, 1996].
Parte I – La teoria di Renato Scognamiglio
Negli anni Sessanta venne formulata, da Scognamiglio, una teoria volta a mettere in luce le carenze rinvenibili nella concezione di illecito in quel tempo dominante [Cfr. Ferrini, in Nuovo Digesto Italiano, voce illecito (Atto), VI, p. 703 ss.].
La dottrina tradizionale definiva il concetto di illecito mettendo in risalto la difformità o divergenza in generale tra il fatto e il diritto. La stessa concezione veniva espressa, in termini più espliciti, allorché si sosteneva che l’illecito rappresentasse il rovescio o il fallimento del diritto [Così Carnelutti, Teoria generale del diritto, 3° ediz., Foro it., Roma, 1951, p. 227].
Tuttavia, secondo Scognamiglio, il generico connotato della divergenza tra il fatto e il diritto non consente di ottenere risultati appaganti allorquando si voglia profilare il concetto di illecito.
Al fine di descrivere il fenomeno del contrasto tra il fatto e il diritto, veniva proposto, in dottrina, il termine antigiuridicità [cfr. Dell’Andro, in Enciclopedia del Diritto, voce Antigiuridicità, II, p. 542 ss.].
“Il senso di tale concezione è di ravvisare nella contrarietà al diritto un requisito giuridico del fatto, che bene può costituire la ragione e la misura della valutazione negativa che l’ordinamento ne effettua e delle conseguenze sfavorevoli che ad esso vi collega.
E si spiega allora come per una larga parte della dottrina moderna il problema dell’illecito si risolva in quello della antigiuridicità; che si trova a costituire così da tempo l’oggetto e il centro delle più accese discussioni in materia” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, I, Milano, 1996, p. 295].
Lo studioso testé citato ha espresso le sue perplessità in ordine all’utilizzazione del succitato termine: “Se è possibile ravvisare nel fatto una forza contrastante con il diritto quando ci si pone sul piano delle valutazioni metagiuridiche, non si comprende invece come ed in che senso possa reputarsi antigiuridica una fattispecie rilevante per il diritto, e che coerentemente viene presa in considerazione pertanto come il dato causante di effetti giuridici” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., 295].
Egli ha rilevato, inoltre, l’incertezza relativa all’individuazione dell’oggetto della qualifica di antigiuridico: “E così sul punto se tale possa considerarsi soltanto l’atto dell’uomo in quanto trasgredisce al precetto giuridico (antigiuridicità cosiddetta soggettiva) [così soprattutto Petrocelli, L’antigiuridicità, Padova, 1945, p. 35 e ss., 73 e ss.]; oppure qualsiasi fatto che si trovi ad essere contrario al diritto (antigiuridicità cosiddetta oggettiva) […] Un dissidio che riesce difficile, se non impossibile, comporre; perché, se da un lato appare innegabile che soltanto l’uomo, che è il soggetto dotato di coscienza e volontà, possa esserne il destinatario e commetterne la violazione, si deve d’altronde ammettere che di ogni fatto, disciplinato dal diritto, sia possibile formulare un giudizio di conformità o divergenza dal modello legale.
Una perplessità non meno grave e significativa si manifesta del resto quando si passa a considerare l’altro termine della relazione; e si tratta così di stabilire a quale accezione del diritto si deve far capo quando si vuol misurare l’antigiuridicità del fatto.
Sotto questo profilo si riproduce innanzi tutto, ed in forma anche più equivoca, il contrasto di fondo tra la concezione oggettiva e la concezione soggettiva dell’antigiuridicità: che nell’un senso viene ricondotta alla mera trasgressione della norma, nell’altro riferita alla aggressione all’altrui diritto soggettivo [Cfr. Pugliatti, in Enciclopedia del diritto, voce alterum non laedere, II, p. 98 ss.]. Qui non è possibile prospettare beninteso – e se ne rende conto la migliore dottrina – una vera e propria alternativa: di fronte alla quale sarebbe fin troppo agevole replicare che la lesione del diritto soggettivo non può non implicare in ogni caso la violazione della norma.
Lo scopo della distinzione sembra piuttosto quello di segnalare come, soltanto alla stregua della nozione soggettiva in quest’altro senso della antigiuridicità, si renda possibile realizzare una definizione penetrante e sufficientemente rigorosa dell’illecito. Ma va rilevato – a prescindere da ogni altro rilievo critico – che, muovendosi in tale direzione, si realizza un progresso solo apparente. Basti osservare che, quando si parla di fatto lesivo del diritto in senso soggettivo, ci si vuol riferire a tutta evidenza – e non potrebbe essere diversamente – ad ogni situazione soggettiva giuridicamente protetta. Cosicché si cade un’altra volta in una nozione troppo vaga ed indeterminata per poter costituire una solida base per la definizione della antigiuridicità. Che collocata nell’ampia prospettiva della lesione del diritto soggettivo tende di nuovo a sfumare in quella della violazione della norma” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 295-296].
Scognamiglio ha osservato altresì, con riferimento alla distinzione (operata da una parte della dottrina) tra antigiuridicità in senso formale (nella quale assume rilevanza il profilo della trasgressione del precetto) e antigiuridicità in senso materiale (connotata dal contrasto tra i fatti della vita e i valori e interessi tutelati dalla norma) [Per tale distinzione Moro, L’antigiuridicità penale, Palermo, 1947, specie p. 135 e ss.], quanto segue: “[…] andando a fondo del problema non ci si riesce a sottrarre al seguente dilemma. Che o si attribuisce un rilievo prevalente alla accezione formale della antigiuridicità, ad allora tutto il senso dell’alternativa si riduce alla constatazione abbastanza ovvia che l’ordinamento, nell’emanare i suoi precetti, si ispira alla considerazione di valori ed interessi della realtà sociale. Oppure si propende per l’altra concezione, che attribuisce a ben vedere alla antigiuridicità il senso ed il contenuto di una vera e propria «antisocialità», ed allora si finisce col far capo ad un parametro che non può essere adottato, se non si vuole cadere in ben più gravi errori, come criterio di rilevazione di fenomeni giuridici” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 296-297].
Lo studioso suddetto ha riservato taluni rilievi critici anche alla dottrina penalistica: “Va segnalato infine per amore di completezza, l’atteggiamento, diffuso specie nella dottrina penalistica, di chi ravvisa la ragione di configurare l’antigiuridicità come requisito a sé stante dell’illecito nella rilevanza delle cosiddette discriminanti (stato di necessità, legittima difesa, ecc.) [Dell’Andro, Antigiuridicità, cit., p. 542]. Si afferma a questo riguardo che – se, ricorrendo le discriminanti, non si realizzano gli effetti sanzionatori – si deve ammettere che in tali ipotesi viene a mancare un elemento della fattispecie; e questo può consistere soltanto nella antigiuridicità, che si trova a rappresentare così un presupposto essenziale per la produzione di tali effetti. Ma riesce agevole obiettare: la ragione che, secondo quanto si è riferito, viene addotta per la configurazione di questo requisito, si risolve in un vero e proprio circolo vizioso. Ed infatti, se la interferenza di circostanze determinate vale a paralizzare la sanzione del fatto antigiuridico, non si comprende perché, al fine di spiegare il fenomeno, si debba – invece che far capo alla particolare efficacia di tali elementi – escogitare un diverso ed opposto requisito, alla cui mancanza ricondurre in definitiva il mancato verificarsi degli effetti dell’illecito. E questo senza dire che, in base al ragionamento criticato, è possibile ravvisare al più nella antigiuridicità un elemento della fattispecie dell’illecito, ma nulla si viene poi a sapere, ed è quello che invece conta, sul suo contenuto e significato” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 297].
Pertanto, ha osservato Scognamiglio, “il connotato della difformità del fatto dal diritto o della stessa antigiuridicità appare troppo vago ed equivoco, ed è di mera derivazione concettualistica, per potervi fondare la configurazione in termini unitari dei fatti che assumono per il diritto la rilevanza caratteristica della illiceità. Al fine di rendersi conto del reale significato e della portata dell’illecito in senso giuridico, deve battersi una via diversa: ed è ancora quella che, alla stregua di un corretto metodo appare soltanto proficua, di ricercare nella stessa realtà normativa, ed attenendosi alle valutazioni del diritto, i tratti essenziali del fenomeno che possano ad una siffatta prospettiva ricondursi” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 297].
Secondo lo studioso suindicato, la qualifica di illecito deve essere riservata agli atti dell’uomo espressamente vietati da una norma giuridica, sempreché sia prevista una sanzione adeguata per colui che violi la norma medesima: “[…] I fatti in tali norme contemplati assumono rilievo per il diritto in quanto sono proibiti; e producono coerentemente soltanto effetti di indole sanzionatoria. Orbene sembra innegabile che a tali fatti bene si convenga la qualifica di illeciti, come quella più idonea ad esprimere i termini adeguati la valutazione negativa che il diritto ne effettua e la sua conseguente reazione. Intanto non pare possibile dubitare, anche a volersi riferire per un momento alla prospettiva dominante e già criticata, che in tali casi si verifichi una netta, quanto caratteristica, contraddizione tra il fatto e il diritto, come tale meritevole di una specifica configurazione: quella di illecito in senso proprio. Se poi si procede nelle indagini, secondo il criterio realistico che si è suggerito, riesce abbastanza agevole cogliere, restando in questo ambito, i tratti essenziali di una nozione unitaria e coerente dell’illecito, comprensiva delle fattispecie sommariamente descritte. Così sul piano della realtà formale è possibile contare sui dati sufficientemente significativi, del divieto di agire e dell’obbligo correlativo da un lato e degli effetti sanzionatori dall’altro.
Passando poi a considerare l’elemento materiale della figura, pare innegabile che possano qualificarsi illeciti in tal senso (e così costituire l’oggetto del divieto, ecc.) solo gli atti dell’uomo; che è del resto la soluzione più consona al sentimento giuridico comune” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 298].
Il concetto di illecito delineato da Scognamiglio è pertanto incentrato sulla sussistenza di uno specifico divieto di agire, cioè di tenere una condotta determinata, previsto da un precetto giuridico; e sulla correlata previsione di una adeguata sanzione per l’ipotesi di inosservanza del precetto medesimo. Il fatto umano posto in essere violando tale prescrizione normativa merita, secondo l’opinione dello studioso succitato, la qualifica di illecito.
Nell’ambito del diritto penale è agevolmente ravvisabile la fondatezza dei rilievi di Scognamiglio: “Le norme di diritto penale si volgono in linea di principio a reprimere, e di già a prevenire, gli atti che costituiscono un’offesa, reputata grave ed irreparabile, ai beni e valori fondamentali della convivenza sociale; avverso cui dispongono la sanzione tipica – e che soltanto appare adeguata – della pena o inflizione al responsabile di un male a titolo di retribuzione e prevenzione. In questa materia dunque, in cui campeggia la figura dell’illecito, la nozione che si è delineata incontra una applicazione di tutta evidenza (per la quale si propone il termine apposito di reato). Ed il problema principale diviene quello della esatta individuazione della fattispecie dell’illecito ai fini dell’applicazione della pena; che dà luogo alle più accese discussioni riguardo alla rilevazione degli elementi di carattere generale, come anche di quelli speciali, che all’uopo debbono concorrere” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 299].
Più insidioso risulta, viceversa, il terreno del diritto civile: “Nella materia civile le norme giuridiche perseguono invece, in linea principale ed immediata, la diversa e generica finalità di disciplinare i conflitti e i rapporti tra i privati, attribuendo una tutela adeguata all’interesse prevalente. Cosicché operano attraverso la attribuzione dei diritti soggettivi, poteri, ecc., a cui fanno riscontro altrettanti obblighi, soggezioni, ecc. Ed in questo campo soprattutto, ma in genere al di fuori del diritto penale, emerge il carattere eccezionale delle disposizioni, che impongono uno specifico divieto di agire, comminando per la trasgressione sanzioni adeguate. Ne consegue che in tale materia la idea dell’illecito, nel senso che si è delineato, perde in parte il suo rilievo e tende di nuovo a sfumare nell’altra e generica della mancata realizzazione del diritto (o difformità di esso dal fatto). Tutto questo spiega a nostro avviso come nel suo ambito, e di riflesso sul piano della teoria generale, si assista tuttora alla lamentata incertezza e confusione di idee intorno alla definizione dell’illecito e alla sua sfera di azione; e si prospetta così l’opportunità di un supplemento di indagine sul punto se, al di fuori del diritto penale, non convenga ripiegare su di una concezione diversa e più lata” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 299].
Prima di procedere alla disamina delle indicazioni desumibili dalla normativa civilistica, Scognamiglio ha segnalato anche l’altra nozione di illecito elaborata dalla dottrina dominante in sede di diritto civile: “[…] dei cosiddetti atti illeciti, con riferimento a tutti quei comportamenti che, all’esito di una valutazione negativa da parte dell’ordinamento realizzano effetti contrastanti con la volontà e lo scopo pratico dell’agente [Cfr. per tutti Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, p.10; Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1959, p. 101 e ss.; De Cupis, Il danno, Milano, 1947, p. 35 e ss.; Id., Fatti illeciti (trattato di diritto civile, diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, Milano, 1961, p. 3 e ss.)].
Questa sembra costituire a prima vista una configurazione, pur nella sua ampiezza, sufficientemente rigorosa dell’illecito; e tale da poter soddisfare in definitiva alle più urgenti esigenze costruttive che nella materia presa in esame si propongono. Un siffatto giudizio deve però mutare ove si proceda ad una più approfondita disamina del senso e della validità della concezione, avendo riguardo alla realtà normativa che pretende di esprimere.
E’ agevole infatti verificare che, facendo capo al criterio descritto di rilevazione, si finisce col ricondurre – in applicazione più o meno immediata di una prospettiva già criticata – l’idea dell’illecito all’altra della contrarietà del fatto al diritto. Che da un lato assume qui una più sicura evidenza in quanto ci si riferisce al contrasto tra l’atto volontario e la legge. Ma dall’altro si imbatte in difficoltà ed obiezioni anche più gravi; in quanto prendendosi alla sua stregua le mosse da una concezione a sua volta aprioristica dell’atto giuridico (quella che raffigura tale categoria sotto il profilo della volontà), si riconduce in definitiva il giudizio, sulla liceità o no, a quello di dubbia validità, se non addirittura inammissibile, del contrasto tra la volontà del privato (l’elemento di fatto) e la volontà della legge (il dato di diritto); quale si ravvisa nel presunto divario tra le conseguenze dell’agente volute e quelle a lui sfavorevoli sancite dal diritto. E da questo consegue che la dottrina – quando passa a stabilire l’ambito di tale nozione di illecito – si limita per lo più a segnalare il fenomeno caratteristico della responsabilità civile, nella quale campeggia l’effetto sfavorevole del risarcimento del danno; cosicché solo a stento riesce a rendersi ragione, quando addirittura non lo disconosce, della ricorrenza di un illecito non dannoso. Mentre, nella stessa materia della responsabilità della responsabilità, si espone a non poche difficoltà, quando si tratta di dare conto sotto questo profilo del fenomeno della reazione al danno ingiusto, che si fonda su criteri diversi e talora contrastanti con quello di illiceità. Ed infine, per far cenno ad un campo ben diverso, non riesce a prospettarsi in termini soddisfacenti la distinzione tra l’illecito in senso proprio e le ipotesi in cui i negozi giuridici si attuano in contrasto con norme imperative.
Se dunque la concezione oggi dominante dell’atto illecito (civile) non regge alla critica, non rimane che propendere, superando ogni superstite perplessità, per la nozione che dell’illecito in senso tecnico si è delineata, alla stregua della quale si dovrà procedere in definitiva alla determinazione delle fattispecie di illecito in diritto civile.
All’uopo si dovrà volgere innanzi tutto l’indagine alla individuazione delle ipotesi di atti vietati specificamente da qualche norma e colpiti da adeguate sanzioni, e che correttamente per questo verso si contrappongono ai contegni in vario senso divergenti dal diritto” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 300].
Un breve riepilogo sembra utile: Scognamiglio ha messo in luce, tramite la sua analisi, effettuata negli anni Sessanta, la fragilità delle due nozioni di illecito che furono profilate dalla dottrina del tempo. In particolare, egli è giunto alle seguenti conclusioni: la concezione imperniata sulla divergenza o difformità tra il fatto e il diritto (anche quando viene utilizzato il concetto di antigiuridicità) e l’altra concezione elaborata dalla dottrina in sede di diritto civile (ossia quella che ravvisa gli atti illeciti nei comportamenti che, in virtù di una valutazione negativa da parte dell’ordinamento, realizzano effetti contrastanti con la volontà e lo scopo pratico dell’agente) non consentono di configurare in modo sufficientemente rigoroso l’illecito.
La nozione di illecito delineata da Scognamiglio, in alternativa alle due teorie testé menzionate, è incentrata sulla sussistenza di uno specifico divieto di agire, cioè di tenere una condotta determinata, previsto da un precetto giuridico; e sulla correlata previsione di un’adeguata sanzione per l’ipotesi di inosservanza del precetto suddetto. Il fatto umano posto in essere violando tale prescrizione normativa, merita, secondo l’opinione dello studioso summenzionato, la qualifica di illecito.
Egli, inoltre, ritiene che tale nozione di illecito possa essere assunta quale riferimento non soltanto nell’ambito del diritto penale ma anche nell’ambito del diritto civile.
Per dimostrare la giustezza di tale assunto, Scognamiglio ha analizzato dettagliatamente, come si vedrà, la normativa volta a disciplinare la tutela aquiliana.
Scognamiglio, in relazione a detta normativa, ha osservato: “Si profila la figura dell’atto illecito e si discute delle relative sanzioni del diritto, ogniqualvolta si assiste al sacrificio dell’interesse di un soggetto nei confronti di un altro prevalente, che l’ordinamento coerentemente circonda di adeguata tutela. Cosicché, per passare a qualche esempio, a tale qualifica si suole far ricorso per descrivere il contegno di chi detiene la cosa di fronte al proprietario che può rivendicarla (art. 948 cod.civ.); di chi costruisce a distanza inferiore a quella legale di fronte al proprietario che può agire per la restituito in integrum (art. 872 e ss. cod.civ.); di chi viola l’altrui servitù di fronte al proprietario del fondo confinante, che può chiedere la rimessione delle cose in pristino (art. 1079 e ss.) ecc.; ed ancora nel campo delle obbligazioni per designare il contegno del debitore inadempiente di fronte al quale il creditore può agire per la condanna all’adempimento. Mentre alla idea di illecito si riferiscono ancora le fattispecie – che pur stanno su un altro piano – dell’acquisto mancante di un giusto fondamento; avverso il quale è possibile altresì reagire con l’azione restitutoria o di ripetizione (cfr. gli artt. 2033, 2036 e 2037 cod.civ.) o pretendere quanto meno un indennizzo (cfr. il rimedio di specie dell’art. 944 cod.civ. in tema di avulsione e la azione generale di arricchimento senza causa dell’art. 2041 cod.civ.).
Ad un siffatto orientamento si deve a nostro avviso replicare, ribadendo l’opportunità, o addirittura l’esigenza ai fini di una corretta sistematica, di mantenere ferma la linea distintiva tra le ipotesi fin qui mentovate di trasgressione al diritto ed il campo dell’illecito. All’uopo occorre soprattutto considerare che in tutti questi casi l’ordinamento si pone e risolve il problema, di un conflitto di interessi tra privati, attribuendo al titolare di quello riconosciuto prevalente, e di conseguenza protetto dal diritto, i mezzi adeguati per la sua piena realizzazione. Il che significa che i diritti, poteri, ecc., di cui si è fatto cenno, competono al soggetto per la tutela della sua posizione e si estendono fino a questo segno; e negli stessi confini soltanto, e quasi di riflesso, la condizione degli altri interessati viene sacrificata.
Orbene si intende agevolmente che, fin quando si tratta di assolvere a tali esigenze, non si propone affatto – e nemmeno ve ne sarebbe in linea di principio la ragione – la costruzione, che ad un giudizio approfondito appare non pertinente, di un autonomo e specifico divieto di agire a carico di un soggetto, con la conseguente reazione a carico di chi a tale divieto trasgredisce. Nello stesso senso risulta decisiva la considerazione che, nei casi sopra segnalati, l’intervento del diritto si realizza nel senso di rendere possibile la reazione avverso le situazioni contrastanti alle sue statuizioni, a prescindere dalle cause che hanno contribuito a determinarle ed, in particolare, dal contegno tenuto dalla controparte, che risulta a tale effetto indifferente. E ne consegue che l’azione di rivendica spetta, allo stesso modo, nei confronti del possessore in buona come in mala fede; l’azione di condanna all’adempimento, nei confronti di chi ritiene in piena coscienza di nulla dovere, e del soggetto, che si rifiuta di adempiere per partito preso; l’azione di restituzione nei riguardi di chi ha acquistato in base ad un titolo nullo o ha conseguito un incremento della sua proprietà in conseguenza di un fatto naturale, come del soggetto il quale si è impossessato della cosa con un’azione criminosa” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 301-302].
In breve: le fattispecie concrete poc’anzi menzionate, non devono essere ricondotte, secondo Scognamiglio, nell’area dell’illecito, e certamente non corrispondono alla concezione di illecito che egli ha proposto; concezione fondata sulla sussistenza, come si è detto, di uno specifico divieto di tenere una condotta determinata e sulla correlativa sanzione comminata per l’ipotesi di inosservanza di detto divieto. In altri termini, secondo Scognamiglio è errato (perlomeno con riferimento al concetto di illecito che costui ha elaborato) identificare un illecito ogniqualvolta si assiste al sacrificio dell’interesse di un soggetto nei confronti di un altro prevalente, che l’ordinamento coerentemente circonda di adeguata tutela. Si devono distinguere, in buona sostanza, i casi in cui si registra una divergenza tra il fatto e il diritto (e negli esempi poc’anzi effettuati tale divergenza si concretizza senz’altro) dalle fattispecie riconducibili al concetto di illecito in senso proprio (così come elaborato da Scognamiglio)
Tra gli esempi addotti da Scognamiglio, figura anche quello del debitore inadempiente. Difatti lo studioso predetto ha puntualizzato che la qualifica di atto illecito veniva attribuita, dalla dottrina tradizionale, anche al contegno del debitore inadempiente (di fronte al quale il creditore può agire per ottenere la condanna all’adempimento): “Semmai ad un’ulteriore perplessità potrà dar luogo la soluzione prospettata riguardo alla materia delle obbligazioni; in cui il contegno del debitore viene per l’appunto in rilievo in quanto costituisce l’oggetto di uno specifico dovere. Ma ci sembra possibile sostenere, senza la pretesa di esaurire incidentalmente quasi un così arduo problema, che nei rapporti obbligatori la tutela dell’interesse protetto si articola, e pienamente si realizza, nella pretesa del suo titolare (il creditore) all’altrui cooperazione; a cui corrisponde il vincolo dell’altro soggetto (il debitore) ad effettuare la prestazione nel rapporto dedotta. E che tale legame non si risolve – ci sembra questo il punto – in uno specifico divieto di agire diversamente e dunque di non adempiere; tanto è vero che, di fronte alla trasgressione del debitore, l’ordinamento, lungi dal disporre qualche sanzione a suo carico, si limita ad apprestare altri rimedi, affinché il creditore possa in via diretta (esecuzione in forma specifica) o succedanea (prestazione dell’equivalente pecuniario) soddisfare la sua pretesa; mentre decisivo risulta pur sempre, per l’estinzione dell’obbligazione, il conseguimento dello scopo da parte del creditore, anche per una via differente da quella dell’adempimento (intervento del terzo, confusione). Ed è un altro discorso che l’inadempimento rileva a sua volta in quanto fonte di responsabilità per i danni a carico dell’inadempiente; poiché qui si profila il diverso fenomeno – del quale si dovrà trattare in successiva sede – della reazione al danno ingiusto.
Eliminate così, almeno si confida, le ragioni principali di confusione in materia, ci sembra ormai possibile far cenno delle fattispecie (di diritto civile) in cui si riscontrano specifici divieti, adeguatamente sanzionati, di commettere atti di aggressione contro l’altrui diritto; le quali bene si possono, alla stregua della nozione dinanzi prospettata, qualificare come ipotesi di illecito in senso proprio” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 300].
E’ pertanto necessario, per completare il ragionamento, identificare le fattispecie (di diritto civile) nelle quali sono ravvisabili, secondo l’opinione di Scognamiglio, gli illeciti in senso proprio.
Parte II – Gli illeciti in senso proprio: alcuni esempi
Gli illeciti in senso proprio sono individuabili, in primo luogo, “nei casi in cui l’ordinamento vieta di compiere gli atti che producono come evento la lesione di beni da esso protetti, salvo a disporre poi che, per l’ipotesi di trasgressione, si possa con un provvedimento (cosiddetta inibitoria) ottenere l’ordine di cessazione della condotta illecita. Riesce possibile annoverare in questo campo gli atti di contestazione dell’uso del nome e dello pseudonimo (artt. 7 e 8 cod.civ.); di abuso dell’immagine (art. 10 cod.civ.); di turbativa e molestia del diritto del proprietario (art. 949 cod.civ.); di concorrenza sleale (in quanto se ne può inibire la continuazione ai sensi dell’art. 2559 cod.civ.); di violazione del diritto d’autore (a tale effetto contemplata dall’art. 156 della legge 21 aprile 1941, n. 631). Ed alla stessa prospettiva ci sembra di dover ricondurre quelle fattispecie nelle quali il divieto normativo trova la sua giustificazione – e questo vale a caratterizzarle – nella preoccupazione di evitare un pregiudizio futuro; si possono menzionare gli atti di affermazione di un altrui diritto sulla cosa del proprietario di cui all’art. 949 cod.civ.; gli atti di innovazione da parte del proprietario del fondo dominante in quanto rendono più gravose le condizioni del fondo servente (e può trattarsi anche di conseguenze future: art. 1067 cod.civ.).
La dottrina dominante si trova, di fronte a queste figure, in serie difficoltà, dovendo spiegare, come, in via eccezionale, l’ordinamento reagisca a comportamenti lesivi del diritto, prescindendo dal verificarsi del danno. Gli scrittori più avveduti ritengono di aggirare l’ostacolo, evocando l’immagine dell’illecito di pericolo e l’esigenza, che l’ordinamento giuridico in tali casi persegue, di prevenire l’evento dannoso. Non manca poi chi, muovendosi in tale prospettiva, propende per la ricorrenza nel nostro ordinamento di un’azione generale di accertamento rivolta ad ottenere l’inibizione degli atti che rappresentano una causa di pericolo per i beni e gli interessi giuridicamente rilevanti di altri soggetti. Ed allo stesso criterio di fondo si riconducono, ed offrono una conferma della validità della prospettiva accolta, tutte quelle disposizioni che si ispirano ad una generica finalità di cautela e prevenzione: cfr. gli artt. 25, 174, 202 cod.civ. relativi alla decadenza o sostituzione degli organi di amministrazione, titolari di ufficio, ecc; gli artt. 339, 361, 641 cod.civ. in tema di tutela delle aspettative di diritto che fanno capo a soggetti eventuali e futuri, ecc.)” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 302-302].
Può osservarsi, benché non sia essenziale in questa sede, che talune delle norme poc’anzi citate non sono vigenti attualmente, vale a dire gli artt. 174, 202, 339 cod.civ.
Scognamiglio, riferendosi all’opinione della dottrina dominante, ha soggiunto: “Così ragionando, si cade in un errore di prospettiva, frutto a sua volta della aprioristica adesione all’equazione: illecito civile-danno; quello di ritenere che le disposizioni considerate (gli art. 949, comma 1°, 1067 cod.civ. e le altre di analogo tenore) mirino a prevenire il danno futuro (che sarebbe il vero illecito) e non piuttosto a colpire l’illecito, già verificatosi attraverso gli atti di aggressione al diritto.
Mentre, una volta dissolto tale equivoco, tanto più sembra da respingere la teoria riferita: secondo cui ricorrerebbe nel nostro ordinamento un generale divieto di porre in pericolo l’altrui diritto, da farsi valere attraverso l’azione inibitoria. Che appare, a ben vedere, una soluzione destituita da ogni fondamento normativo; se non contrastante addirittura con i principi del diritto civile, che si pongono nel senso di garantire a ciascun soggetto la più ampia sfera di libertà di agire, compatibile con la libertà degli altri consociati e con gli interessi generali della società (e in particolare, applicazioni del contestato principio di prevenzione non si possono ravvisare nelle norme degli artt. 25, 274, 361, 872 cod.civ., ecc. dinanzi citate, che costituiscono soluzioni caso per caso corrispondenti alla generica esigenza di garantire al titolare la piena realizzazione del suo diritto, sia attribuendogli ulteriori poteri a suo sostegno, sia privando un altro soggetto per il suo contegno o per la situazione in cui viene a trovarsi dei suoi poteri o del suo ufficio, ecc.).
Semmai a qualche ulteriore perplessità può dar luogo qui il tono della reazione del diritto; che assume la forma attenuata – e ben poco rispondente all’idea che ci si suole fare della sanzione – dell’azione inibitoria. Ma si deve replicare che la condanna in sentenza ad astenersi dagli atti, che vengono riconosciuti come vietati, può – ove si abbia riguardo alle finalità caratteristiche e allo stesso spirito del diritto privato – costituire di già un rimedio adeguato avverso l’illecito. Ed è anzi il caso di rilevare che i provvedimenti giurisdizionali di tale contenuto tendono a diffondersi nel diritto moderno – e soprattutto in rami speciali, come quello del diritto industriale – man mano che, secondo l’evoluzione della coscienza sociale ed il progredire della tecnica giuridica, il diritto viene chiamato, già per quanto attiene ai rapporti tra i privati, ad assolvere a nuovi compiti, che postulano una tutela peculiare degli interessi in gioco (ed eccedente quella tradizionale, la quale si risolve, come già altrove rilevato, nell’attribuzione dei diritti soggettivi e delle azioni che valgono a garantirne l’attuazione)” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 302-304].
E’ opportuno ribadire un concetto essenziale espresso da Scognamiglio: l’illecito si concretizza a seguito degli atti di aggressione al diritto, a prescindere dal danno, cosicché è errato, secondo tale studioso, ritenere che l’illecito si configuri soltanto allorché vi sia un danno.
Scognamiglio ha altresì scritto: “La nozione di illecito, che si è sin qui delineata, incontra comunque – e per completare ora il quadro – una applicazione anche più evidente in una serie di fattispecie, in cui al divieto di atti determinati fa riscontro l’applicazione di sanzioni nel senso tipico, o almeno più diffuso, dell’espressione: quello già noto della inflizione di un male al trasgressore. Tutte ipotesi che la dottrina dominante si sforza poi di raggruppare sotto il profilo meramente negativo dell’anomalia della reazione di fronte a quella, che si assume come tipica, del risarcimento del danno (si discute di volta in volta – e vedi in seguito – di pena privata, di riparazione non pecuniaria, di pene convenzionali). In tale ambito è possibile a nostro avviso elencare – senza alcuna pretesa di seguire un ordine sistematico – le fattispecie degli atti di abbandono del tetto coniugale, cui consegue secondo l’art. 146 cod.civ. la sospensione dell’obbligo del marito di provvedere al mantenimento della moglie; […]degli atti dell’erede che ne determinano l’esclusione dalla eredità come indegno secondo l’art. 463 cod.civ.; degli atti di ingratitudine del donatario che danno luogo per l’art. 801 cod.civ. alla revocabilità della donazione, ecc. (e per tali soluzioni si fa spesso ricorso dagli scrittori alla nozione di pena privata). Alle quali si possono aggiungere con un certo fondamento le fattispecie in cui al divieto di tenere un certo contegno fanno riscontro rimedi caratterizzati altresì dalla loro idoneità a concorrere alla riparazione delle conseguenze dannose dell’atto (cosicché è possibile dubitare se il diritto reagisca contro l’atto illecito o il danno conseguente). E si tratta per la verità di sanzioni di indole eccezionale, come la pubblicazione della sentenza di condanna a carico del responsabile (di cui in generale agli artt. 120 e 186 cod.proc.civ. nonché alle leggi speciali) […] Mentre un’altra sfera di applicazione si schiude da ultimo all’illecito, se si ritiene di poter riferire tale nozione al campo degli atti negoziali in quanto dispongono in concreto qualche divieto di agire e statuiscono sanzioni adeguate per i trasgressori. Il che può dirsi, per fare anche qui qualche esempio, a proposito della clausola penale e della caparra confirmatoria nei contratti (art. 1382 e seguenti, cod.civ.); ed in genere dalle clausole negoziali che comminano per le ipotesi di inadempienza qualche decadenza o altra penalità; ed ancora, per passare a rapporti in cui il fenomeno acquista un particolare rilievo, a proposito delle disposizioni dell’atto costitutivo o dello statuto che regolano la libertà di agire dei soci al di dentro e al di fuori della società, statuendo penalità per gli inadempimenti; e di quelle dei contratti collettivi ed aziendali o dei regolamenti di azienda intese a disciplinare il contegno dei lavoratori al di dentro, e talvolta anche al di fuori dell’azienda, disponendo un vasto arco di sanzioni, secondo la gravità della trasgressione. E questa rappresenta, beninteso, una configurazione, della quale è dato di dubitare, considerando che la fonte del divieto di agire, e della sanzione, si pone in tali ipotesi non già nella legge, ma in un atto dispositivo dei privati. Dal che deriva, per soffermarci sulla differenza di maggior rilievo, che statuizioni del genere non sempre possono esplicare la propria forza operativa, essendo soggette al controllo da parte dell’ordinamento, sul punto almeno che non si risolvano in un sacrificio eccessivo ed inammissibile della libertà del soggetto, preso in considerazione, nel qual caso saranno piuttosto tali atti, patti o clausole, illeciti – nel senso in cui tale espressione, e vedi in seguito, viene adoperata nell’area del negozio giuridico – e per conseguenza inficiati da invalidità ed eventualmente sottoposti a conversione o riduzione legale dei propri effetti (cfr., ad es., l’ipotesi di cui all’art. 1384 cod.civ.). Cosicché, e per concludere, sembra migliore partito specificare a scanso di equivoci e se si vuol far ricorso alla nozione di illecito, che qui si tratta di illecito negoziale o convenzionale nel senso descritto” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 304-305].
Si può concludere: “Passando a tracciare un primo bilancio dell’indagine, si deve dunque convenire che si ravvisano in diritto civile diverse ipotesi di atti che – salve le perplessità affioranti nella classificazione di qualche fattispecie – bene possono qualificarsi illeciti. L’adesione ad una siffatta configurazione non corrisponde, anche questo va ribadito, ad una mera esigenza, pure degna di considerazione, di ordine e coerenza del sistema. Intanto solo a tale stregua sarà di volta in volta possibile procedere – ed è un’indagine che si rende spesso necessaria o almeno opportuna – alla rigorosa individuazione dell’atto vietato (al cui compimento si collega la conseguenza sanzionatoria).
In ogni caso poi, e quel che più conta, la configurazione di un atto come illecito rileva ai fini dell’applicabilità delle regole di trattamento degli atti medesimi su alcuni punti fondamentali, di cui già altrove si è fatto cenno. E così per quanto attiene alla imputabilità del contegno del contegno al soggetto responsabile, e dunque all’esigenza, perché si realizzino gli effetti sanzionatori, della sua capacità e libertà di intendere e di volere; od ancora per l’eventuale incidenza sugli stessi effetti delle circostanze ritenute idonee a scagionare l’agente dalla sua responsabilità (le cosiddette discriminanti, come lo stato di necessità, la legittima difesa, ecc.) [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 306].
Parte III – Illecito e responsabilità civile
Particolarmente interessante è la disamina pertinente al rapporto tra l’illecito e la responsabilità civile. E’ peraltro opportuno, al fine di segnalare altre opinioni dottrinali, mettere in rilievo l’idiosincrasia fra l’opinione di Scognamiglio e quelle di studiosi altrettanto autorevoli, quali Gazzoni, Alpa e Bianca.
Le riflessioni di Scognamiglio a tal riguardo sono le seguenti: “La dottrina tradizionale suole peraltro, e già se n’è fatto cenno, riferire la terminologia di illecito (in diritto civile) principalmente, se non esclusivamente, alla materia della responsabilità civile. E nello stesso senso sembra porsi del resto il codice vigente quando adotta a tale riguardo l’espressione in parte diversa e anche più equivoca di fatti illeciti (cfr. il titolo IV del libro delle obbligazioni). Da parte nostra si sono invece già prospettati seri dubbi sulla legittimità di un siffatto orientamento; ed è tempo ormai – seguendo il piano dell’esposizione – di darne una adeguata ragione, e prendere così un’esplicita posizione sul fenomeno mentovato, con particolare riguardo all’esigenza di distinguere tale materia da quella al nostro avviso diversa, ancorché limitrofa e talora interferente, dell’illecito.
All’uopo occorre tener presente che, secondo la teoria riferita, l’illecito consiste proprio nell’arrecare un danno ad altri violando un suo diritto; dal che deriva poi la sanzione caratteristica dell’obbligo di risarcimento a carico del responsabile. Che anzi – e secondo un autorevole chiarimento – l’illecito ed il danno risarcibile costituiscono in buona sostanza due profili della stessa realtà, e soltanto ad una osservazione empirica possono apparire come due entità distinte ed in connessione causale [Così Carnelutti, Il danno ed il reato, Padova, 1930, p. 21 e ss.].
Orbene va rilevato subito che una siffatta concezione urta nelle più gravi difficoltà quando si tratta di delineare alla sua stregua i termini dell’illecito in funzione dell’evento dannoso. Si discute aspramente, per cominciare, intorno alla corretta determinazione dell’obbligo, ovvero del divieto, cui si contravviene nell’arrecare danno ad altri. L’opinione dominante fa capo al riguardo all’obbligo generico del neminem laedere, nel quale si suole ravvisare un principio fondamentale del nostro ordinamento in materia [cfr. Pugliatti, Alterum non laedere, cit.].
Ma è fin troppo agevole replicare che così si aggira piuttosto l’ostacolo, prospettando una soluzione di mero comodo. Ed in effetti un obbligo generale di non arrecare danno agli altri non risulta dal diritto vigente; ed anzi neppure sembra configurabile in tale accezione, considerando che la stessa esplicazione della libera attività individuale costituisce una continua fonte di danni, destinati per lo più a restare irrilevanti.
Una corrente dottrinale cerca tuttavia di dare un più preciso significato alla nozione, spiegando che l’obbligo generico, di cui si tratta, deve piuttosto raffigurarsi come la sintesi di una serie di obblighi specifici – quelli che di caso in caso si costituiscono di non arrecare ad altri il danno qualificato come ingiusto (e risarcibile) dal diritto; rispetto ai quali dovrebbe in definitiva commisurarsi l’illiceità del contegno. Ma è possibile ancora obiettare: a tale stregua si sposta a tutta evidenza l’accento su di un requisito caratteristico del danno – l’ingiustizia – in cui si rinviene la ragione della sua risarcibilità [vedi su quest’ultimo elemento Schlesinger, L’ingiustizia del danno nell’illecito civile (Jus, 1960); Sacco, L’ingiustizia di cui all’art. 2043 (Foro Pad., 1960, I, 1420 e ss.)]; e ci si avvale di un espediente costruttivo, arbitrario quanto infecondo, chi su tale, asserita qualità del danno pretende di fondare l’obbligo di non tenere un contegno che possa cagionarlo, e di riflesso la qualifica di illecito del contegno stesso.
L’incongruenza della costruzione, che si sottopone a critica, trova del resto una ulteriore, ed anche più convincente, conferma quando si passa a considerare la possibilità di configurare l’effetto del risarcimento del danno, come la sanzione correlativa (all’atto dannoso). Non sembra possibile infatti sottrarsi all’obiezione che l’obbligo risarcitorio non si commisura certo al presunto illecito come dovrebbe essere per la teoria indicata, ma trova piuttosto il suo fondamento ed il suo limite nell’entità del danno arrecato al leso. Cosicché il predetto obbligo si risolve nel rimettere per quanto è possibile, e per lo più per equivalente, il danneggiato nella condizione qua ante, eliminando tutte le conseguenze pregiudizievoli che il diritto considera a tale effetto rilevanti (quelle per l’appunto risarcibili)” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 306-307].
Quest’ultima osservazione di Scognamiglio è decisiva, secondo l’opinione di chi scrive, per avvalorare la tesi (che dovrebbe risultare chiara al termine di questo scritto) dello studioso predetto circa la distinzione tra il fondamento della responsabilità civile e l’area dell’illecito: è certo che il risarcimento del danno è commisurato al danno arrecato e non già al presunto illecito. Egli ha espresso il medesimo concetto in tali termini: “Il discorso non muta poi, se ci si volge a considerare l’altro profilo dell’obbligo di risarcimento come effetto e pretesa sanzione dell’illecito. Basti riflettere che, anche quando si verte nell’ambito di atti dolosi e colposi, la misura del risarcimento non dipende in alcun modo dal grado di riprovevolezza del contegno, o se si vuole, e più genericamente, dalla gravità in sé dell’offesa arrecata, bensì si commisura alla quantità del danno giuridicamente rilevante” [Scognamiglio, Responsabilità civile, in Noviss. Digesto Italiano, XV, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 331].
Continuando ad esporre la teoria di Scognamiglio, si può notare che costui ha posto in rilievo la distinzione tra il fondamento della responsabilità civile (ovverosia la reazione al danno ingiusto) e l’area dell’illecito (civile), ed ha poi analizzato, al fine di dimostrare la giustezza delle sue asserzioni, la normativa del codice civile volta a disciplinare la tutela aquiliana: “Respinta a prima vista la teoria che riconduce la responsabilità civile alla prospettiva dell’illecito, la concezione più attendibile appare, di già a prima vista, quella che fa capo all’idea della reazione al danno ingiusto. Ed in effetti, se procedendo ad una più ampia e approfondita disamina, ci si rivolge a considerare le fattispecie principali di responsabilità civile (v. anche tra breve) e da tali elementi si risale poi alla ratio dell’istituto, non sembra possibile dubitare che il legislatore intenda affrontare, attraverso le soluzioni così predisposte, il problema della ripartizione, secondo le esigenze di giustizia, dei danni che nell’ambito della vita di relazione, con frequenza sempre maggiore, si possono verificare. Che risolve poi trasferendo tali danni, in quanto siano lesivi di un altrui diritto, sul soggetto che li ha prodotti, tenuto a porvi rimedio attraverso l’obbligo di risarcimento, ove ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge per determinarne la responsabilità, al di là della finalità di proibire e colpire attraverso un siffatto rimedio, l’attività pregiudizievole. Mentre riesce agevole spiegare, completando il quadro, come i cennati criteri di responsabilità si identifichino nei fatti e situazioni, a loro volta riferibili ad un soggetto, che si pongono in una relazione adeguata, per lo più di causalità, con il danno cosiddetto ingiusto; e che sul piano formale assumono il ruolo di fattispecie costitutive dell’obbligo di risarcimento […] Una conferma decisiva dell’esigenza di mutare rotta, quando ci si voglia correttamente orientare in tema di responsabilità civile, risulta dall’esame – al quale conviene dedicare qualche ulteriore cenno – delle principali fattispecie dell’obbligo di risarcimento che costituiscono, secondo l’opinione criticata, altrettante ipotesi di illecito. Riesce agevole infatti constatare, una volta sgombrato il campo dei preconcetti in materia accumulatisi, come siffatte fattispecie si diversifichino, pur presentando diversi punti di contatto, da quelle dell’illecito; o altre volte si configurino in termini di piena contraddizione con tale prospettiva.
La prima considerazione vale per la figura di più ampia portata della responsabilità, che è quella costituita dall’atto doloso o colposo dell’uomo (art. 2043 cod.civ.); la quale pure sembra costituire – ed in questo senso si orienta tuttora la migliore dottrina – una ipotesi sicura di coincidenza dell’atto illecito con il fenomeno della responsabilità. Ma si deve replicare: l’atto dell’uomo rileva come fattispecie dell’obbligo risarcitorio non perché vietato come tale, ma in quanto qualificato dal dolo o dalla colpa: che sono i connotati di carattere soggettivo ipotizzati dal diritto per porre a carico dell’agente il danno ingiusto (analoghe considerazioni possono probabilmente farsi valere – ma qui non è il caso di approfondire l’argomento – a proposito della responsabilità per l’inadempimento della obbligazione). Altro discorso è invece – per dare ora conto della frequente interferenza dell’una e dell’altra figura – che l’atto illecito in senso proprio, ed in quanto integra i requisiti del contegno doloso o colposo, rappresenti in linea di massima una causale idonea di responsabilità per danni. Ed altro discorso ancora – al quale può soltanto accennarsi – è che l’illiceità dell’atto possa determinare l’estensione dell’ambito della responsabilità; nel senso di rendere ingiuste e dunque risarcibili, le conseguenze dannose che altrimenti non sarebbero tali. Come risulta dallo stesso atteggiamento del legislatore; che per lo più, ed a scanso di dubbi, nel sancire un divieto di agire fa salvo, in aggiunta alla sanzione specificamente disposta, il risarcimento del danno conseguente al contegno riprovato (cfr., ad es., gli artt. 872 […] L’altro rilievo critico si riferisce in linea principale alle restanti fattispecie di responsabilità qualificate come fatti illeciti; rispetto alle quali la dottrina dominante, per la palese impossibilità di far capo ad un atto (illecito) del responsabile, versa in difficoltà insuperabili. Si tratta della responsabilità per fatto altrui (artt. 2047, 2049 cod.civ.); per esercizio di attività pericolose (2050); per il danno cagionato dalla cosa in custodia (art. 2051); dagli animali in custodia (art. 2052), dalla rovina dell’edificio (art. 2053) ed infine dalla circolazione dei veicoli (art. 2054). Tutti casi nei quali l’obbligato al risarcimento risponde non già in conseguenza di un suo atto, che addirittura manca, ma per la relazione in cui di volta in volta si trova con un’altra persona, che è l’autore del danno; o perché organizza una certa attività; o in quanto può disporre della cosa o dell’animale o dell’edificio o in quanto proprietario o conducente del veicolo.
E la dottrina dominante riconduce queste fattispecie alla nozione di responsabilità oggettiva o senza colpa intorno alla quale sorgono poi discussioni aspre, quanto fuorvianti.
In altri casi il soggetto agente risponde addirittura dei danni arrecati in conseguenza di un suo atto esplicitamente autorizzato dal diritto, che sotto questo profilo può essere qualificato come lecito (i cosiddetti atti leciti dannosi: cfr. le fattispecie di cui agli artt. 924, 925, 938, 1032, 1328 ecc.).
Qui le contraddizioni della concezione tradizionale esplodono in pieno e vani appaiono i tentativi della migliore dottrina di comporre il contrasto; che si risolve agevolmente invece, una volta ribadita la differenza che corre tra i due termini dell’illecito e della responsabilità. Alla cui stregua può bene darsi che un atto, il quale costituisce l’esercizio di un proprio diritto, rilevi tuttavia sul piano del contemperamento degli opposti interessi, come una fattispecie idonea a trasferire, attraverso l’obbligo risarcitorio, il danno che ne può scaturire sul soggetto agente.
Giova segnalare da ultimo, e per amore di completezza, che, nei limiti in cui la responsabilità civile si fonda sull’atto dell’uomo, ci si imbatte in problemi di trattamento analoghi a quelli cui dà luogo il fenomeno dell’illecito (il requisito della imputabilità, la rilevanza delle discriminanti). Ma questo agevolmente si spiega, considerando che nell’una materia come nell’altra ci si trova in presenza di atti che producono effetti giuridici contrastanti con gli interessi di chi li pone in essere e a lui sfavorevoli. Mentre la differenza dell’una e dell’altra figura si rispecchia di nuovo nella diversità delle soluzioni che di tali problemi il codice detta in tema di responsabilità civile; come quando dispone che in caso di danni arrecati dall’incapace, risponde tuttavia chi è tenuto alla sua sorveglianza, ecc.; o in mancanza ed entro certi limiti lo stesso incapace (art. 2047); ed ancora statuisce che nel caso di danno arrecato in stato di necessità – che costituisce la discriminante di maggior rilievo – il soggetto agente debba tuttavia corrispondere al soggetto leso un equo indennizzo (art. 2045)” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 307-310].
In conclusione, “la responsabilità civile può bene definirsi nei termini della reazione che il diritto appresta avverso il danno ingiusto, imponendo a chi vi dato causa l’obbligo di risarcirlo” [Scognamiglio, Responsabilità civile, in Noviss. Digesto Italiano, XV, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 332].
Ritengo che la teoria di Scognamiglio, secondo la quale il fondamento della responsabilità civile è ravvisabile nella reazione al danno ingiusto, sia in grado di raffigurare adeguatamente l’operatività della tutela aquiliana.
Ciò nonostante, è necessario tenere in considerazione il fatto che studiosi altrettanto autorevoli, quali, ad esempio, Bianca, Alpa e Gazzoni, hanno espresso delle opinioni di segno contrario.
Il primo, pur riconoscendo che “una larga rappresentanza della dottrina critica la nozione dell’illecito come violazione di un dovere”, ritiene che “la responsabilità extracontrattuale non è né strumento di punizione (concezione etica) né strumento tecnico di allocazione dei danni (concezione tecnicistica) ma tutela civile contro l’illecito. Unico e generale suo fondamento è la violazione del precetto di rispetto altrui (alterum non laedere)” [cfr. Bianca C.M., La responsabilità, V, in diritto civile, Milano, 1995, p. 531 ss.].
Il secondo, in un suo recentissimo libro, ha scritto: “Atto illecito, in senso tecnico, è appunto l’atto che provoca danni a terzi, e che crea una obbligazione di risarcimento” [Alpa G., Diritto della responsabilità civile, Roma-Bari, 2003, p. 68].
Il terzo, riferendosi all’art. 2043 cod.civ., ha osservato: “Con questa norma l’ordinamento pone la regola cardine dell’intero sistema della c.d. responsabilità civile o aquiliana, con la quale, in sostanza, si sanziona mediante un obbligo risarcitorio la violazione del fondamentale principio di convivenza racchiuso nell’espressione neminem laedere […] L’aspetto più delicato dell’intera disciplina della responsabilità civile è però quello di accertare quando sussista l’ingiustizia del danno, perché l’area dell’illecito coincide con quella del danno ingiusto […]” [Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 1993, p. 671 e 673].
La discordanza tra l’opinione di Scognamiglio e quelle di Gazzoni e Bianca è palese, poiché costoro individuano il fondamento della responsabilità civile nella violazione del dovere generale di neminem laedere. Tuttavia tale dovere, come è stato rilevato da Scognamiglio, non esiste nel diritto vigente.
Anche l’opinione di Alpa non collima con quella di Scognamiglio, se non altro perché la definizione di atto illecito proposta dai due studiosi è nettamente difforme. Costui, difatti, ritiene che l’atto illecito in senso proprio (non solo penale ma anche civile) sia ravvisabile ogniqualvolta una norma giuridica preveda il divieto di tenere una condotta determinata e sia comminata, per l’ipotesi di inosservanza di siffatta norma, una sanzione adeguata.
Per esprimersi nei termini impiegati da Scognamiglio: "Una conferma decisiva dell’esigenza di mutare rotta, quando ci si voglia correttamente orientare in tema di responsabilità civile, risulta dall’esame – al quale conviene dedicare qualche ulteriore cenno – delle principali fattispecie dell’obbligo di risarcimento che costituiscono, secondo l’opinione criticata, altrettante ipotesi di illecito. Riesce agevole infatti constatare, una volta sgombrato il campo dei preconcetti in materia accumulatisi, come siffatte fattispecie si diversifichino, pur presentando diversi punti di contatto, da quelle dell’illecito; o altre volte si configurino in termini di piena contraddizione con tale prospettiva” [Scognamiglio, Illecito (diritto vigente), in Noviss. Digesto Italiano – VIII, 1968, ora anche in Scritti giuridici, op.cit., p. 308].
Orbene, si vuole segnalare un’esplicita adesione alla teoria incentrata sul profilo risarcitorio della responsabilità civile: “La funzione della responsabilità, che viene ormai comunemente qualificata sic et simpliciter come «responsabilità civile», cessa di avere carattere (meramente) sanzionatorio per divenire essenzialmente riparatoria: il risarcimento del danno, inteso un tempo come sanzione repressiva a carico del danneggiante per la violazione di un ipotetico dovere extracontrattuale di neminem laedere, viene ora concepito piuttosto come mezzo di riparazione di un danno ingiusto […] Conseguentemente, alla tradizionale nozione di illecito civile, inteso come violazione sanzionabile di un ipotetico dovere di neminem laedere, viene contrapponendosi un ampio concetto di responsabilità civile, incentrato sulla idea della reazione al danno ingiusto” [Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, Il sistema giuridico italiano, diritto civile, III, obbligazioni e contratti, rist., 1994, Torino, p. 674 nota 8]. Si noti: il contributo di Scognamiglio è espressamente citato in questo libro del 1994.
Anche Salvi peraltro ha messo in rilievo, analizzando la responsabilità aquiliana, il medesimo profilo: “Gli articoli 2043 ss. non definiscono la forma generale di protezione del diritto dei privati, diretta a sanzionare le violazioni colpevoli del principio del neminem laedere, ma prevedono una tra le tecniche di tutela civile degli interessi; quella che ha il compito specifico di assicurare, ricorrendone i presupposti normativi, la riparazione del danno ingiusto” [Salvi C., La responsabilità civile, Milano, 1998, p. 6].
Per di più, soggiunge Salvi, “il quadro delle tutele civili è ben più complesso e non vi è quindi ragione per riservare solo al fatto, che dà luogo alla responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043, il nome di illecito civile, come espressivo di una categoria unitaria e generalizzante” [Salvi C., La responsabilità civile, Milano, 1998, p. 4-5].
In conclusione: a mio giudizio, l’opinione dottrinale che individua il fondamento della responsabilità civile nella reazione al danno ingiusto è in grado di descrivere adeguatamente l’operatività della responsabilità civile, mentre l’altra concezione (sanzionatoria), imperniata sulla violazione di un ipotetico dovere di neminem laedere, sebbene sia sostenuta da taluni studiosi autorevoli, non ritrae fedelmente la realtà normativa.
dott. Angelo Ippoliti
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