La L. 49 del 21 Febbraio 2006, che ha innovato il T.U. sulle sostanze stupefacenti, inizia a fornire, nel corso della sua applicazione, primi spunti giurisprudenziali di meditata riflessione.
E’ il caso della sentenza che si annota, la quale che affronta, con lucida argomentazione espositiva, l’annoso problema del riconoscimento, in sede esecutiva, del vincolo della continuazione fra sentenze di condanna pronunziate nei confronti di persona tossicodipendente, la quale abbia delinquito in costanza ed a cagione della propria conclamata situazione personale.
In pratica la prospettiva che ci viene proposta non è solo quella – peraltro maggiormente comune – di omogeneità di violazioni di legge, tutte incentrate sul T.U. 309/90, ma abbraccia, qualsiasi delitto che l’agente, in virtù del proprio stato di tossicomania, abbia commesso.
Va, infatti, rammentato al lettore che il codice di procedura penale del 1988, ha introdotto all’art. 671, la possibilità di dare corso, anche in sede esecutiva, all’applicazione del regime della continuazione di reato.
La norma, sotto la rubrica “Applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato” recita, infatti, testualmente:
1. Nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato [c.p. 81], sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione. Fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza[1].
2. Il giudice dell’esecuzione provvede determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto.
2-bis. Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, quarto comma, del codice penale[2].
3. Il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando ciò consegue al riconoscimento del concorso formale o della continuazione. Adotta infine ogni altro provvedimento conseguente[3]
Si tratta di una previsione normativa assolutamente innovativa rispetto al regime previgente.
Essa, infatti, lodevolmente, ha allargato lo spettro applicativo dell’istituto di diritto sostanziale, previsto dall’art. 81 c.p., sino a tale momento limitato e circoscritto alla sola fase del giudizio di merito, superando, così, con evidenti quanto irragionevoli differenziazioni, dipendenti da un fattore soggettivo e cioè esclusivamente dalla fase processuale in cui il processo si fosse venuto a trovare.
Ha affermato, infatti, Cassazione Sez. V, sent. n. 1258 del 28 Luglio 1992, Mulinacci (rv 191499) che la disposizione dell’art. 671 cod. proc. pen., si inserisce nel processo di espansione applicativa dell’istituto della continuazione al di là dei confini del giudizio di cognizione, senza, però, intaccare le regole che presiedono alla sua disciplina.
E’, peraltro, pacifico che il procedimento di rideterminazione della pena, in forza dell’eventuale riconoscimento della continuazione, introdotto con l’art. 671 c.p.p. assume, senza dubbio, una veste di intervento residuale, attesa la previsione portata dall’inciso “sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione”.
Con tale locuzione, infatti, il legislatore ha inteso ribadire una chiara gerarchia, sancendo come la fase in cui precipuamente si debba dare corso alla valutazione in ordine all’applicazione concreta della disciplina di cui all’art. 81 c.p. debba essere quella del merito cognitivo.
E’ stato previsto, quindi, la possibilità di accedere a tale giudizio anche in sede di esecuzione, subordinando lo stesso, indefettibilmente, alla condizione che, il quid petitum non abbia formato già oggetto di precedente valutazione negativa in sede di merito, posto che non è concepibile una mera reiterazione di un’istanze concernente una tematica già decisa in senso negativo.
La quotidiana esperienza forense ha posto in luce la circostanza che uno degli argomenti, che con maggiore frequenza venivano richiamati dai condannati e dai loro difensori, a sostegno delle richieste di applicazione del regime derivante dal combinato disposto degli artt. 81 c.p e 671 c.p.p., consisteva nella globale e soggettiva condizione di tossicodipendenza dell’istante, il quale giustificava le proprie plurime condotte, come unica soluzione adottata per soddisfare i tristi bisogni legati a tale status personale.
Si è precisato, al fine di valorizzare siffatta impostazione, che il tossicodipendente poneva in essere, usualmente, comportamenti illeciti di carattere specificatamente ripetitivo ed omogeneo (quale ad esempio detenzione e cessione a terzi di sostanze stupefacenti).
Quando, poi, non si fosse stati in presenza della specifica violazione di una delle norme previste dal dpr 309/90, la valutazione concernente le particolari modalità di esecuzione di taluni comportamenti integranti reato (quali ad esempio furti o rapine) potevano certamente essere di ausilio per comprendere la sussistenza di un nesso teleologico tra essi e la condizione psico-fisica del loro autore.
In buona sostanza, era evidente, a parere di coloro (gli avvocati) che si battevano per ottenere il riconoscimento giurisprudenziale della sussistenza della continuazione in favore degli autori di delitti, che trovassero nello stato di tossicodipendenza il loro fondamento eziologico, che la tesi della valenza probatoria riconnettibile alla tipologia d’autore, ricongiunta con i reati aventi ad oggetto gli stupefacenti, doveva trovare nei giudicanti una definitiva accettazione.
Simile orientamento rimaneva, purtroppo, lettera morta, tale era, sul punto, la costante posizione di rigetto della giurisprudenza.
La Suprema Corte reiteratamente affermava, infatti, che “In tema di continuazione nel reato, l’unicità del disegno criminoso non può essere ravvisata nella proclività al delitto né in un generico programma delinquenziale, quale può considerarsi quello implicito nell’esigenza di procurarsi i mezzi per soddisfare la tossicodipendenza, mancando in tal caso la previsione delle singole azioni criminose nell’ambito del progetto delinquenziale unitario”. (Cfr. Sez. I, sent. n. 3004 del 15 Ottobre 1992, Pisano rv 192021).
La condizione di assuntore continuativo di droghe e, quindi, soggetto palesemente dipendente dalle stesse, nonchè, quindi, il modus operandi – sul piano strettamente criminoso – che da tale situazione si poteva derivare, veniva sic et simpliciter equiparato ad un generico programma delinquenziale, pertanto, inidoneo a configurare l’unicità del disegno criminoso.
Veniva, inoltre, affermato il principio che “Lo stato di tossicodipendenza e la violazione di una medesima norma penale non sono sufficienti a far ritenere la continuazione tra reati determinati da tale condizione psicofisica, in quanto trattasi di circostanze concernenti i singoli reati, come tali non dimostrative della loro preventiva e unica ideazione, ma soltanto rivelatori di una scelta di vita delinquenziale del soggetto interessato” (Cfr. Sez. I, sent. n. 369 del 12 Aprile 1999 Zennaro rv 212961).
A bene osservare, quindi, si poteva concludere nel senso che l’impostazione ermeneutica del Supremo Collegio oscillava (in modo pericolosamente contraddittorio) fra l’accusa di genericità ed indeterminatezza del programma criminoso del tossicodipendente e, all’opposto, quella di parcellizzazione dei singoli reati, i quali deliberati, di volta in volta, sarebbero sfuggiti ad un disegno di natura unitaria.
Unico dato certo e non controverso era quello della “feroce” opposizione dei giudici di legittimità a che si potesse fare rientrare nel contesto dell’art. 81 c.p., l’insieme di fatti che avessero la comune e soggettiva matrice sin qui ricordata.
Indicativa in tal senso appare la sentenza della Sez. VI, n. 8858 del 30 Luglio 1998, Cannavò (rv 212006), la quale pone sottilmente l’accento sul fatto che lo stato personale del soggetto appare sintomatico solo del movente e non assolve alla funzione di prova dell’identità del disegno criminoso.
“Lo stato di tossicodipendenza e il correlativo bisogno di procurarsi la droga violando la legge penale (nella specie, attraverso la commissione di più reati di evasione per allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari) non legittimano la presunzione di unicità del disegno criminoso, perché tali elementi sono indicativi del solo movente dei delitti commessi, ma non costituiscono prova dell’originaria ideazione e della successiva permanenza del progetto criminoso che caratterizzano l’istituto della continuazione”.
Tale sentenza, infatti, si rifaceva espressamente ad una pronuncia della Sez. I, n. 1119 del 19 Marzo 1996, Salamone (rv 203981), la quale sosteneva che “
Presupposto normativo per l’applicazione, anche in "executivis", della disciplina del reato continuato a plurime sentenze di condanna, è la preesistenza di un programma delinquenziale, ancorché genericamente ideato, del quale le varie violazioni di legge siano momenti volitivi che ne costituiscono esecuzione, concetto nel quale s’illustra quella unicità del disegno criminoso cui fa riferimento l’art. 81 cod. pen., capoverso. In tal senso, non legittimano la presunzione di unicità del disegno criminoso né l’omogeneità delle varie violazioni (es.: furti aggravati, tentati o consumati) della legge penale, né la permanenza di un proposito criminoso riconducibile allo stato di tossicodipendenza ed al correlativo bisogno di procurarsi, con proventi illeciti, i mezzi economici necessari all’acquisto della droga, in quanto tali elementi, di per sé, sono indicativi del solo movente dei delitti commessi, ma non costituiscono prova dell’originaria ideazione e deliberazione di tutte le violazioni nei loro caratteri essenziali, sintomatiche dell’istituto della continuazione”[4].
Si trattava di una pronuncia che non poteva andare esente da critiche, in quanto presentava contraddizioni facilmente evidenziabili.
Da un lato, infatti, si ammetteva la possibilitàche presupposto dell’applicabilità dell’istituto della continuazione, anche in sede esecutiva, potesse essere una generica ideazione di un programma criminale che preesistesse, ovviamente, alla commissione dei singoli fatti illeciti, i quali, quindi, ne divenivano – così – concreta espressione.
Dall’altro, però, la condizione generale di tossicodipendenza del soggetto non poteva assurgere a dignità di elemento probante, in quanto considerato solo mero movente, cioè ragione della spinta criminosa, ma, in quanto tale, inidonea a dimostrare la predeterminazione di un contesto di illiceità destinato a durare nel tempo.
E’ del tutto evidente che esista una differenza sia giuridica, che naturalistica fra movente ed identità di disegno criminoso, ma, nel momento in cui si utilizza il movente quale massimo comune denominatore di una serie di condotte criminose, che presentino tutte il carattere dell’omogeneità, pare di poter affermare che i contorni dei due istituti perdano quel carattere di assoluta autonomia che in radice li caratterizza.
Vale a dire che, se in una specifica fattispecie, si rinviene la prova di una spinta individuale (movente) propria del singolo alla commissione di più condotte delinquenziali, ove esse si ponga in diretta dipendenza rispetto ad una situazione di alterazione fisica o psichica del soggetto, sarà ben difficile potere escludere che tale determinazione non risponda ad una visione criminosa di natura unitaria.
Va, infatti, sottolineato che – a parere di chi scrive – l’orientamento negativo, adottato in epoca pregressa (e sin qui rivisitate con le pronunzie che precedono) prestava il fianco ad una fondamentale critica.
I giudici, infatti, omettevano di considerare che proprio il tossicodipendente, che delinquisse, incarnava appieno l’esempio di chi abbia predeterminato e previsto i reati da commettere
Se “il medesimo disegno criminoso ricorre allorché i vari reati siano stati previamente previsti nei loro elementi peculiari ed organizzati attraverso un piano criminoso unitario” Sez. I, sent. n. 3476 del 16-10-1993 Poletti rv 195301), non era, quindi, affatto peregrino ritenere che lo stato di tossicodipendenza di un soggetto (che avesse commesso dei reati in conseguenza di tale condizione) potesse assumere, al contempo, veste di movente e di previdente e consapevole organizzazione dei vari fatti-reato.
La versatilità criminosa della condizione di tossicodipendente poteva, infatti, incidere in due momenti tra loro diversi, atteso che il movente si manifesta come espressione ideativa che per nulla coincide temporalmente con l’ideazione di più violazioni della legge penale.
La sentenza della Sezione I 28 marzo-10 aprile 2006, n. 12638, che si allega, certifica ed applica, quindi, uno dei pochi principi della L. 49/2006 che non appare suscettibile di critica e che è destinato a dare ordine ed adeguatezza a situazione procedimentale, spesso confuse e tali da comportare gravi e sproporzionate conseguenze a persone che sono state contingentemente autori di reati e, in molto casi, hanno chiuso con un certo passato delinquenziale.
Quanto non sopra non significa – come correttamente afferma la sentenza de qua – che l’inciso “Fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza” induca a ritenere che tale specifica condizione sia assolutamente decisiva nel giudizio sulla continuazione ed assume il ruolo di criterio unico in proposito.
Rimangono, infatti, vigenti quei principi da tempo sanciti dalla giurisprudenza in base ai quali L’indagine che si impone alla riflessione del giudice chiamato a delibare un’istanza di applicazione della disciplina della continuazione deve concentrarsi su tre essenziali problemi: dapprima verificare la credibilità intrinseca, sotto i profili della logica e della congruità, dell’asserita esistenza di un unico, originario programma delittuoso; indi, analizzare i singoli comportamenti incriminati per individuare le particolari, specifiche finalità che appaiono perseguite dall’agente; infine verificare se detti comportamenti criminosi, per le loro particolari modalità, per le circostanze in cui si sono manifestati, per lo spirito che li ha informati, per le finalità che li hanno contraddistinti, possano considerarsi, valutata anche la natura dei beni aggrediti, come l’esecuzione, diluita nel tempo, del prospettato, originario unico disegno criminoso. (Cfr. ex plurimis Sez. I, sent. n. 1721 del 25 Giugno 1992 Curcio (rv 190807).
Non a caso la Corte ha disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza del GUP di Asti con rinvio allo stesso giudice, sancendo il principio in ase al quale il giudice del rinvio dovrà riesaminare la istanza del condannato alla luce dello ius superveniens, con libertà di giudizio in ordina alla incidenza dello stato di tossicodipendenza sull’accertamento della unitarietà del disegno criminoso nell’ambito del complesso di tutti gli altri elementi che ha già esaminato e che la giurisprudenza ha individuato come sintomatici della sussistenza della continuazione.
La norma in esame, invece, introduce, in modo equilibrato, un ulteriore elemento valutativo, atto a superare e dirimere i contrasti ed i bizantinismi più volte ricordati ed esaminati, arricchendo di un nuovo importante criterio il potere discrezionale del giudicante.
Comunque la si veda è, peraltro, indubbio che la novella legislativa concreti un riconoscimento giuridico, che dimostra come fossero tutt’altro che infondate quelle critiche, in precedenza, mosse alla posizione di assoluta indisponibilità da parte dei Supremi Giudici a aderire ad un’interpretazione di maggiore elasticità dei principi regolatori l’istituto della continuazione, che tenesse, pertanto, conto, al fine procedimentale in disamina, di una condizione così grave, irripetibile e devastante come quella vissuta dal tossicodipendente.
Si tratta, quindi, di un intelligente adeguamento del diritto ad una realtà fattuale, che, per la sua unicità, non poteva continuare a non produrre effetti, in sede (sia cognitiva, che esecutiva) di rideterminazione della pena e che va colto nella sua essenzialità.
Non mancano, però, occasioni per rimarcare come il legislatore – nella sua poco meditata scelta di promulgare frettolosamente la L. 49/2006 – sia incorso in omissioni, talune delle quali possono essere in qualche modo colmate attraverso un’interpretazione dei principi generali del diritto penale, mentre per altre si aprono scenari di rilevante discussione.
Per quanto attiene alle prime è il caso della mancata previsione di una norma transitoria, che regolasse, in maniera inequivoca, l’ambito di applicazione del novellato art. 671 c.p.p., non limitandolo, quindi, solo al futuro, ma favorendone la compatibilità anche ma anche a procedimenti in corso, sia pendenti innanzi a giudici dell’esecuzione, sia di fronte alla Suprema Corte.
La soluzione dell’arcano è stata fortunatamente agevole, siccome improntata al rispetto dell’art. 2 c.p., in quanto, pur operando riferimento ad una norma di carattere processuale – l’art. 671 c.p.p. – in realtà nella fattispecie si tratta di applicare in concreto una disposizione di diritto sostanziale – quale è l’art. 81 c.p. -.
Sicchè non vige il principio del tempus regit actum, quanto piuttosto quella della norma più favorevole al reo.
Rimane il convincimento che la previsione espressa di un regime transitorio, che individuasse i confini applicativi della nuova normativa non avrebbe certo guastato, siccome idonea a prevenire dubbi e contrasti interpretativi.
In secondo luogo, ci si deve porre il problema se sia sostenibile la compatibilità ed estensibilità del principio codificato all’art. 671 c.p.p. alla fase cognitiva, o se il principio introdotto con la recente novella normativa esaurisca la propria funzione propulsiva solo in relazione a sentenze o decreti penali di condanna passati in cosa giudicata.
E’, infatti, pacifico nell’ambito della quotidiana esperienza forense, il caso di un soggetto tossicodipendente, indagato/imputato per processi che pendano seppur autonomamente innanzi alla stessa Autorità o che si trovi, sempre in tale stato, dinanzi ad Autorità diverse, seppur nella medesima fase processuale.
Il regime processuale che, in questi casi, si richiama è quello in materia di connessione di cui all’art. 12 lett. b) c.p.p.
[5].
Esso opera, però, un esplicito riferimento alla continuazione e si pone come paradigma anche per l’applicazione dell’art. 16 comma 1° c.p.p. in materia di competenza territoriale
[6].
E’, pertanto, il descritto tipo di situazione, quella che interessa in questa sede, perché presenta maggiori profili di complessità in relazione all’applicabilità della norma sostanziale di cui all’art. 81 c.p. .
In tale contesto, infatti, il fine perseguito dal difensore (e l’inquisito) è quello di mirare alla celebrazione di un unico processo che riguardi tutti i reati commessi dal proprio assistito, onde giungere ad una unica condanna, con evidenti favorevoli profili in punto a trattamento sanzionatorio ed ad economia processuale.
L’esperienza quotidiana dimostra che spesso, invece, a tale fine non si perviene, proprio per una rigida applicazione dei criteri ermeneutici in tema di continuazione, che vanificano lo strumento processuale di cui al combinato disposto dei citati artt. 12 lett. b) e 16 c.p.p.
Chi scrive, alla luce delle premesse sin qui sviluppate, ritiene che si debba optare per la soluzione favorevole e cioè che anche in sede di giudizio di merito si debba tenere conto dello status di tossicodipendenza dell’inquisito, allo scopo di dare pienezza applicativa al regime di cui all’art. 81 c.p. .
E’, infatti, assolutamente doveroso e fondato domandarsi perché mai la locuzione “Fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza” dovrebbe produrre effetti meramente parziali, in quanto solamente limitati alla fase esecutiva e non possa, invece, assumere idoneità probatoria concreta anche nella fase del vero e proprio giudizio penale.
In buona sostanza, per giungere ad una soluzione coerente con i principi dell’ordinamento giuridico vigente (e quella che si propugna pare tale) ci si deve, preliminarmente, chiedere se sia ammissibile e compatibile sia sotto un generale profilo giuridico, che sotto quelle specifico di conformità al dettato costituzionale, l’eventuale adozione di un doppio binario valutativo, in relazione ai criteri in base ai quali si applica la continuazione.
La risposta negativa (id est favorevole alla tesi che si propugna) a tale quesito può essere ricavata dall’esegesi dell’’art. 192 c.p.p..
Recita, infatti, la citata disposizione, sotto la rubrica “Valutazione della prova” :
“ Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione [c.p.p. 125, comma 3, 606, comma 1, lett. e] dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.
L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti [c.c. 2729].
Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato [c.p. 110, 113] o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.
La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371 comma 2 lettera b)”
[7].
I principi contenuti (ed appena esposti) non sono, né possono essere, patrimonio unicamente appartenente alla fase del giudizio di merito, in quanto il regime di regolamentazione della prova penale configura e costituisce un aspetto specifico del più generale principio del libero convincimento del giudice.
La disciplina contenuta nel libro III del codice di rito, dedicato alle prove, quindi, si rivolge indistintamente a qualsiasi procedimento di natura penale, posto che essa sottende al metodo attraverso il quale si deve venire a formare il risultato del percorso percettivo ed ideativo del giudice, ovvero la decisione.
Non pare, quindi, sia possibile circoscrivere la rilevanza e la pertinenza dei principi riguardanti la prova alla sola fase del giudizio di merito, in quanto
1. è la stessa collocazione sistematica delle norme relative alle prove (ed ai mezzi di prova) che situa le stesse all’interno della parte generale della struttura del codice di procedura penale, ad attestare il valore univoco e l’applicabilità delle stesse a qualunque fase procedimentale;
2. anche nella fase dell’esecuzione penale il presupposto processuale fondamentale è dato dal contraddittorio fra le parti dinanzi ad un giudice terzo che opera su impulso di parte (art. 665/1° c.p.p.). Sicchè, è evidente che la omogeneità dei principi basilari che regolano sia il giudizio di merito, che il giudizio incidentale che attiene all’esecuzione, non possono tollerare o giustificare deroghe di sorta.
Una volta chiarita la portata di principio generale della norma che si è individuata come punto di riferimento, alla quale si collega intimamente ed imprescindibilmente il principio di tassatività di cui all’art. 191 c.p.p.
[8] e dalla quale derivano, a cascata le considerazioni svolte, si devono aggiungere due ulteriori osservazioni finali.
La prima riguarda l’esegesi del tenore letterale dell’inciso aggiunto all’art. 671 c.p.p .
Or bene a prescindere dalla palese maldestria del legislatore, nella frase usata non vi sono riferimenti inerenti alla sola fase esecutiva, o che, comunque, inducano a circoscrivere a detta fase la previsione.
Un argomento di ordine logico può essere di ausilio, per comprendere meglio quanto si va sostenendo.
Se, infatti, al principio in questione fosse stata riconosciuta una sovranità limitata, esso avrebbe dovuto essere testualmente del seguente tenore
“Fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato nella fase dell’esecuzione[9] vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza” .
In buona sostanza, ove si fosse inteso escludere, dal campo di applicabilità del principio in oggetto, il giudizio di merito, la scelta più semplice possibile avrebbe dovuto essere quelle di scriverlo espressamente, in ossequio del brocardo “ubi lex dixit, voluit”.
La seconda e conclusiva osservazione, attiene al precetto costituzionale portato dall’art. 3, in tema di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (e, ovviamente, dinanzi ai giudici).
Sarebbe del tutto irrazionale e privo di giustificazione, attese le premesse di unitarietà ed omogeneità del sistema processuale dal 1988, che ha introdotto un modello unico fondato sull’iniziativa probatoria di parte e su correlativi principi interpretativi, un doppio binario che ponesse distinzioni fra cognizione ed esecuzione.
Apparirebbe prima di minima giustificazione, quindi, ponendosi in irreversibile conflitto con la norma costituzionale, un’interpretazione restrittiva, che negasse piena e totale cittadinanza all’interno di qualsiasi fase del procedimento e del processo, al principio estensivo richiamato.
La indubbia penalizzazione che si ricaverebbe a carico degli imputati, nei confronti dei condannati, apparirebbe, poi, particolarmente incongrua ed intollerabile, sol che si rammenti la circostanza che l’art. 671 c.p.p. incarna una funzione residuale, atteso che il regime di applicazione dell’istituto della continuazione coinvolge in prima battuta il giudizio di merito (si vedano sul punto anche le nuove prospettive introdotte dall’art. 54 quater inserito dall’art. 12 co. 1 L. 16 dicembre 1999 n. 479).
Prescindendo, quindi, dalla discutibilità e grossolanità giuridica con la quale la pur pregevole norma è stata inserita nel codice di rito, non si può non affermare che essa riveste un carattere ed una portata che devono necessariamente coinvolgere ogni giudizio relativo al riconoscimento della continuazione, in qualunque fase di merito o di esecuzione.
Avv. Carlo Alberto Zaina
Cassazione Sezione prima penale sentenza 28 marzo-10 aprile 2006, n. 12638
Presidente Silvestri
Relatore Corradini
Ricorrente Marino
Con ordinanza in data 12 luglio 2005 il giudice monocratico del Tribunale di Asti, quale giudice dell’esecuzione, investito dalla richiesta di Marino Carmine Gianluca di applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva, ai sensi dell’articolo 671 Cpp, in relazione a sei sentenze di condanna per reati contro il patrimonio commessi fra il 1999 e il 2003, in ordine ai quali il condannato aveva dedotto l’avere agito in esecuzione di un medesimo disegno criminoso consistente nella necessità di reperimento di denaro per il suo stato di tossicodipendente, ha riconosciuto la continuazione limitatamente alle sentenze di condanna del Gup di Asti del 9 novembre 2001 e del Tribunale di Alba del 18 marzo 2002 ed alle sentenze del Gup di Asti del 7 maggio 2002 e della Corte di appello di Torino del 18 febbraio 2004, trattandosi, in tali casi, di reati commessi a brevissima distanza temporale e con modalità esecutive analoghe ed omogenee, respingendo invece l’istanza per le altre sentenze di condanna. Ha ritenuto infatti trattarsi di tali casi di attività delinquenziale protrattasi per lungo lasso di tempo, con significativi intervalli intercorsi fra la commissione dei vari reati e con il compimento di fattispecie di natura diversa commesse con modalità differenti, escludendo in particolare che si potesse individuare la unitarietà del disegno criminoso nello stato di tossicodipendenza dal condannato.
Ha proposto ricorso per cassazione la difesa del Marino lamentando violazione di legge poichè la attività delinquenziale appariva sostanzialmente ininterrotta mentre la unitarietà del disegno criminoso doveva essere individuata nella necessità da parte del condannato di reperire il denaro quale mezzo per soddisfare i suoi bisogni di tossicodipendente.
Il Pg presso questa Corte ha concluso per la inammissibilità del ricorso rilevando che la serie di reati commessi dal condannato appariva il frutto di una scelta di vita delinquenziale piuttosto che il frutto di un unitario disegno criminoso.
Il provvedimento impugnato, laddove ha escluso che lo stato di tossicodipendenza del condannato potesse avere rilievo ai fini della individuazione della unitarietà del disegno criminoso, in relazione alla applicazione dell’istituto del reato continuato invocato dal ricorrente in sede esecutiva, era in effetti del tutto in linea con una giurisprudenza da tempo consolidata di questa Corte per cui la unitarietà del disegno criminoso, richiesta dall’articolo 81, comma 2 Cp, poteva essere ravvisata soltanto quando la decisione di commettere i vari reati fosse stata presa dall’agente in un momento precedente la consumazione del primo e fosse estesa a tutti gli altri, già programmati nelle loro linee generali, non potendo quindi rientrare nella previsione della norma in questione tutti quei fatti costituenti reato posti rispetto al primo in un rapporto di occasionalità , ovvero costituenti, con il primo, espressione di una abitualità o addirittura di un costume di vita, come è proprio dei tossicodipendenti i quali ricorrono abitualmente alle commissioni di reati per procurarsi i mezzi occorrenti per soddisfare i loro bisogni quotidiani di sostanze stupefacenti.
Si deve peraltro rilevare che è ora sopravvenuta la modificazione dell’articolo 671, comma 1 Cpp, per effetto dell’articolo 4vicies della legge 49/2006, che ha convertito in legge con modificazioni il Dl 272/05, aggiungendo, infine, il seguente periodo: «Fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza».
Tale disposizione, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge di conversione citata, è entrata in vigore il giorno successivo alla pubblicazione della legge nella GU e cioè il 28 febbraio 2006, per cui si pone il problema che sia o meno applicabile al presente procedimento.
Questo Collegio ritiene in primo luogo che lo ius superveniens, in quanto relativo allo specifico punto della decisione impugnato dal ricorrente, sia applicabile anche d’ufficio e che sia inoltre immediatamente applicabile non solo ai procedimenti successivi alla entrata in vigore della legge citata, ma anche ai procedimenti in corso, quale quello in esame, qualora le censure portate all’esame della Corte di legittimità attengano specificamente alla incidenza dello stato di tossicodipendenza sulla disciplina del reato continuato. L’istituto della continuazione infatti un istituto di diritto sostanziale, come tale rientrante nella disciplina dell’articolo 2 del Cp, per cui si applica la disposizione più favorevole al reo, costituita chiaramente da quella introdotta dalla modifica legislativa dell’articolo 671 Cpp che è diretta ad attenuare le conseguenze penali della condotta sanzionatoria nel caso di tossicodipendenti, sotto tale particolare aspetto ed anche con riguardo ad alcune misura alternative alla detenzione specificamente previste in relazione a programmi diretti a consentire il recupero di tossicodipendenti anche condannati a pene medio-alte.
E’ vero che nel caso in esame si tratta di disciplina della continuazione applicata in sede esecutiva e cioè quando le condanne sono ormai definitive, perciò è stato lo stesso legislatore a fare venire meno il mito della intangibilità del giudicato attraverso la previsione dell’articolo 671 Cp in analogia a quanto previsto per il caso di abolitio criminis, posto che, una volta ammesso che la pena può essere rideterminata in sede esecutiva per effetto della continuazione, non può negarsi natura sostanziale all’istituto che lo autorizza anche al di fuori del giudizio di cognizione.
Ciò posto, poichè la disposizione sopravvenuta prevede che «fra gli elementi che incidono sulla applicazione del reato continuato vi è la consumazione di più reato in relazione allo stato di tossicodipendenza», è evidente che di tale stato deve ora tenersi conto nella valutazione della sussistenza o meno della unitarietà del disegno criminoso.
Occorre rilevare in proposito che il legislatore non ha previsto che lo stato di tossicodipendenza sia di per sè elemento decisivo ai fini della valutazione della unitarietà del disegno criminoso, bensì ¬ soltanto che tale stato deve essere valutato fra gli elementi che incidono sulla applicazione della suddetta disciplina, per cui il fatto che la ordinanza impugnata abbia rifiutato correttamente, in base alla interpretazione consolidata della normativa vigente al momento in cui è stato adottato il provvedimento di prendere in esame tale circostanza impone l’annullamento del provvedimento impugnato, a norma dell’articolo 623 Cpp, con rinvio allo stesso giudice il quale dovrà riesaminare la istanza del condannato alla luce dello ius superveniens, con libertà di giudizio in ordina alla incidenza dello stato di tossicodipendenza sull’accertamento della unitarietà del disegno criminoso nell’ambito del complesso di tutti gli altri elementi che ha già esaminato e che la giurisprudenza ha individuato come sintomatici della sussistenza della continuazione.
PQM
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di
Asti.
[1] Periodo aggiunto dall’art. 4-vicies,
D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito in legge, con modificazioni, con L. 21 febbraio 2006, n. 49.
[2] (2) Comma aggiunto dall’art. 5, L. 5 dicembre 2005, n. 251
[3] (3) Vedi gli artt. 90-95, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, di approvazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Vedi, anche, l’art. 5, D.L. 14 maggio 1993, n. 139, concernente il trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti.
[4] Conf. Lo stato di tossicodipendenza non è di per sé sufficiente a far ritenere la continuazione tra i reati determinati da tale condizione psico-fisica, la quale integra una situazione ben diversa dal presupposto che la legge richiede per la configurabilità della continuazione, e cioè un programma criminoso deliberato fin dall’inizio nelle sue linee essenziali per conseguire un determinato fine, che deve essere positivamente e rigorosamente provato; la mera identità delle norme violate, la prossimità temporale delle varie azioni e la medesimezza del movente, viceversa, si sostanziano in circostanze concernenti i singoli reati che non sono dimostrative della loro preventiva unica ideazione. (Sez. I, sent. n. 5381 del 16-11-1995 (ud. del 27-10-1995), Silvestri rv 203103)
[5] 12. Casi di connessione.
1. Si ha connessione di procedimenti:
a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento;
b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso;
c) se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri [o in occasione di questi ovvero per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità]
[6] 16. Competenza per territorio determinata dalla connessione.
1. La competenza per territorio per i procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia appartiene al giudice competente per il reato più grave [c.p.p. 4] e, in caso di pari gravità, al giudice competente per il primo reato
[7]La Corte costituzionale, con
sentenza 11-17 luglio 2000, n. 294 (Gazz. Uff. 26 luglio 2000, n. 31 – Prima serie speciale), ha dichiarato, tra l’altro, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 4, c.p.p. in riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, Cost.
[8] 191. Prove illegittimamente acquisite.
1. Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate.
2. L’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
[9] La parte in corsivo ovviamente è stata aggiunta da chi scrive
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento