Ricorso in cassazione, novità del processo del lavoro

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La recente riforma del codice di procedura civile ha introdotto importanti modifiche al processo del lavoro.
a) la prima: il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40(“Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80”) inserisce nel Codice di procedura civile l’articolo 420-bis (“accertamento pregiudiziale sull’efficacia validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi”), che recita «Quando per la definizione di una controversia di cui all’articolo 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza. Copia del ricorso per Cassazione deve, a pena di inammissibilità del ricorso, essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata entro venti giorni dalla notificazione del ricorso alle altre parti; il processo è sospeso dalla data del deposito».
b) la seconda: il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 modifica l’articolo 360, al punto 3, nel senso di consentire il ricorso per Cassazione «per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro»;
c) la terza: il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 introduce l’articolo 366-bis (Formulazione dei motivi), il quale dispone che «Nei casi previsti dall’articolo 360, primo comma, numeri… 3) … l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto».
d) la quarta: il decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40 così modifica il secondo comma dell’articolo 360 c.p.c. «Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello; ma in tale caso l’impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3.»e, con ulteriore modifica all’articolo 366 c.p.c., prevede che la rinuncia all’appello possa avvenire, oltre che «mediante visto apposto sul ricorso» anche «… mediante atto separato, anche anteriore alla sentenza impugnata».
e) la quinta: il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 all’articolo 20 apporta modifiche al Capo I, Titolo VIII, Libro IV del codice di procedura civile, in particolare modifica l’articolo 806 (Controversie arbitrabili), statuendo, tra l’altro, che «Le controversie di cui all’articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro».
 
Gli obiettivi
Tali modifiche agiscono in modo incisivo sulle procedure attinenti al processo del lavoro.
La riforma presenta, infatti, una molteplicità di obiettivi, espliciti e impliciti, i più importanti dei quali sono:
a) uno scopo deflattivo del contenzioso per due ordini di motivi, di cui a1) il primo deriva dal fatto che, normalmente, tutte le controversie di lavoro vertono, direttamente o indirettamente, sulla interpretazione di una clausola del contratto collettivo; ora, risolvere tale questione da subito, con un provvedimento che porta alla composizione “forte” del contrasto (sentenza del giudice di merito e successiva sentenza della Corte di cassazione), in un certo senso anticipa la sentenza definitiva del 1° grado e riduce grandemente anche la necessità e opportunità dell’appello; a2) il secondo motivo è dato dal fatto che il formarsi di orientamenti giurisprudenziali della Suprema Corte sui contratti e accordi collettivi nazionali, tendenzialmente a valere per tutti, anche in forza del vincolo introdotto con la modifica dell’articolo 374 c.p.c., dissuaderà fortemente dal riproporre questioni già sottoposte in precedenza al vaglio della magistratura;
b) la tendenza volta ad omogeneizzare il processo relativo ad un rapporto di lavoro del settore privato al processo relativo ad un rapporto di lavoro di un dipendente pubblico c.d. «privatizzato»;
c) il rafforzamento della la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, estendendola anche ai contratti e accordi collettivi nazionali, assicurando l’esatta osservanza ed uniforme interpretazione anche per tali ultime fonti.
 
Il procedimento di accertamento pregiudiziale
Sul primo versante possiamo formulare alcune considerazioni. Già l’articolo 64 del Testo unico sul pubblico impiego prevedeva che «quando per la definizione di una controversia individuale di cui all’articolo 63 [controversie relative ai rapporti di lavoro] è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale [stessa dicitura che viene usata nel decreto legislativo n. 40/2006] sottoscritto dall’A.Ra.N. ai sensi dell’articolo 40.» il giudice, con ordinanza non impugnabile avvia il procedimento di accertamento pregiudiziale. Esperita vanamente la procedura di verifica nella sede dell’A.Ra.N. , «il giudice decide con sentenza sulla sola questione di cui al comma 1 [clausola controversa], … La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione… Il deposito nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa di una copia del ricorso per cassazione… determina la sospensione del processo.». In conseguenza di tali considerazioni dobbiamo dedurre che si è ritenuto di estendere tale procedura pregiudiziale [ovviamente escludendo la fase davanti all’A.Ra.N.] anche al procedimento relativo alle controversie di lavoro del settore privato.(1)
Per i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, ove si consideri l’articolo 420-bis norma speciale potrebbe ipotizzarsi che esso abroghi la norma dell’articolo 64 Testo unico, ove invece si consideri l’articolo 420-bis come norma generale, l’articolo 64 Testo unico deve considerarsi – come ci pare più esatto – in vigore pur dopo l’approvazione del predetto nuovo articolo. A questo punto ci dobbiamo domandare se il ricorso immediato alla Corte di Cassazione, previsto dall’articolo 420-bis, divenuto come su detto norma generale, e come tale applicabile a tutti i tipi di controversie di lavoro, sia quanto meno alternativo alla procedura di cui all’articolo 64 Testo unico del pubblico impiego nel senso che il giudice di fronte ad una necessità, ai fini della definizione di una causa di lavoro [nel settore pubblico privatizzato], di risolvere in via pregiudiziale una questione relativa all’efficacia, validità o interpretazione di una clausola di contratto o accordo collettivo abbia due strade, o quella di cui al citato articolo 64, e quindi preventivamente esperire la procedura di accertamento davanti all’A.Ra.N. e solo successivamente pronunciare sentenza ricorribile in Cassazione o applicare la procedura di cui all’articolo 420-bis di nuova introduzione, pronunciando subito sentenza ricorribile in Cassazione.(2)
 
La possibilità di ricorso in Cassazione per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro
Sull’altro versante si verifica l’estensione, con conseguente trasformazione in norma generale della possibilità di ricorrere alla Corte di Cassazione per «violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro» – possibilità già prevista per il contratto collettivo pubblico dall’articolo 63, comma 5, Testo unico del pubblico impiego nonché dalla procedura particolare, limitatamente alla seconda fase, contenuta nell’articolo 64 Testo unico, comma 3 del pubblico impiego (per cui v. rinvio di cui all’articolo 63, comma 5) – attraverso appunto l’inserimento nel punto 3 dell’articolo 360, in aggiunta alla violazione e/o falsa applicazione delle norme di legge anche della violazione o falsa applicazione… dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.
Anche in tal caso si pongono i problemi di successione tra vecchie e nuove norme su visti.
Prima della attuale riforma sussisteva una dicotomia per cui nel settore privato i contratti collettivi potevano essere impugnati in Cassazione, non per motivi contenutistici, ma solo per motivi di carattere ermeneutico. Più precisamente la Corte aveva statuito che «l’interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune, compiuta dal giudice del merito, è censurabile in sede di legittimità, solo per vizi di motivazione o per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, la cui denuncia non può peraltro esaurirsi nella mera contrapposizione di un diverso risultato interpretativo» (v. Cassazione, Sez. lav., 28 marzo 1998, n. 3293, in Giust. civ. Mass., 1998, 687) e anche «L’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune compiuta dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità solo in caso di violazione delle norme legali sull’interpretazione dei contratti e di vizi logici della motivazione.» (Cassazione, Sez. lav., 1° agosto 2000, n. 10073, in Giust. civ. Mass., 2000, 1675, vedi, più recentemente Corte di Cassazione, Sez. lav., 18 novembre 2004, n. 21826), mentre nel settore pubblico, come si è visto, si poteva adire la Corte di Cassazione per motivi sostanziali propri del contratto, stante la contrattualizzazione del rapporto regolato.
Ma qui si pone un altro problema: quali siano i contratti e accordi collettivi nazionali per la cui interpretazione [o meglio violazione e falsa applicazione] si può ricorrere alla Corte di Cassazione. Data la varietà delle ipotesi in essere, ci si può chiedere se siano quelli firmati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative o comparativamente più rappresentative e, data la specificità delle nostre relazioni sindacali, se tali contratti debbano essere sottoscritti da tutte tali organizzazioni, e se, firmati solo da alcune di esse, come è già accaduto – contratti che comunque vengono applicati –, se anche in tal caso debbano e possano essere portati all’esame della Suprema Corte. Sembrerebbe di dovere rispondere affermativamente. Nell’area pubblica i contratti nazionali erano già individuati: l’articolo 40 Testo unico del pubblico impiego statuiva che «mediante appositi accordi tra l’A.Ra.N. e le confederazioni rappresentative ai sensi dell’articolo 43, comma 4, sono stabiliti i comparti della contrattazione collettiva nazionale riguardanti settori omogenei o affini. I dirigenti costituiscono un’area contrattuale autonoma relativamente a uno o più comparti. Pertanto il livello nazionale viene a collegarsi sia all’ambito di comparto che all’area autonoma di contrattazione sia agli accordi e contratti quadro o intercompartimentali».(3) C’è da chiedersi, da ultimo, se negli accordi nazionali siano da ricomprendersi quegli accordi aziendali o di enti che coprono l’intero territorio nazionale quali, ad esempio, le Poste S.p.a. e Ferrovie dello Stato S.p.a. e altri.
Si impone, a parer nostro, un’altra osservazione importante. Il fatto che la modifica dell’articolo 360 c.p.c. laddove ammette il ricorso alla Suprema Corte anche in caso di violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro non distingue tra i contratti stipulati nell’area privata da quelli stipulati nell’area pubblica secondo le norme del Testo unico sul pubblico impiego. Ciò ci fa pensare che il legislatore abbia sposato la tesi, del resto prevalente in dottrina, che anche il contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici privatizzati abbia la stessa “natura” del contratto che regola il rapporto di lavoro del dipendente privato. Ossia che entrambi siano considerati dal legislatore contratti privatistici o, come meglio suol dirsi, “contratti di diritto comune”.(4) È noto che si contendono il campo due posizioni. La prima sostiene la funzionalizzazione del contratto collettivo pubblico (con posizioni più spinte che ravvisano la natura pubblicistica dello stesso contratto) [a) «facendo leva sull’articolo 97 Costituzione, si è sostenuta la “funzionalizzazione” della disciplina e della gestione del rapporto di lavoro nell’interesse pubblico rappresentato dall’amministrazione (Orsi Battaglino, 1993, 470); b) Occorre, quindi porre in relazione il principio costituzionale di autonomia negoziale dei rapporti di lavoro con… l’articolo 97 Costituzione… da tale relazione discenderebbe l’asserita funzionalizzazione.»](5). La seconda, invece «… ha individuato nella contrattazione collettiva del settore pubblico non una fonte di diritto obiettivo, bensì una manifestazione di autonomia privata collettiva, garantita dall’articolo 39 Costituzione, sia per il lavoro alle dipendenze di imprese private, sia per quello alle dipendenze della p.a.»(6). La stessa Corte di Cassazione ha sposato tale seconda tesi: così Corte di Cassazione, Sez. lav., 17 marzo 2005, n. 5892 [Contratti collettivi del settore pubblico – Natura di norme giuridiche secondarie – Esclusione (decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, articolo 64)]: «Alle disposizioni dei contratti collettivi del pubblico impiego non è possibile riconoscere forza e valore di norme giuridiche secondarie, trattandosi di disposizioni che trovano la loro fonte nella volontà delle parti collettive che stipulano, non rilevando in senso contrario la particolarità del procedimento di formazione del contratto». Vedi anche Corte di Cassazione, Sez. lav., 17 marzo 2005, n. 5892 [Contratti collettivi del settore pubblico – Interpretazione – Canoni per l’interpretazione delle norme giuridiche – Inapplicabilità – Canoni per l’interpretazione contrattuale – Applicabilità] «Dalla natura negoziale dei contratti collettivi dei pubblici dipendenti (non più recepiti in un atto regolamentare) consegue che l’interpretazione di tali atti debba avvenire secondo le norme generali di ermeneutica contrattuale di cui agli articoli 1362-1371 c.c., piuttosto che a norma degli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale.».(7)
Altro quesito che potremmo porci è se da questa riforma esca stravolta la funzione della Cassazione come giudice di legittimità (8). Si ricorderà che l’articolo 65 dell’Ordinamento giudiziario prevede che la Corte di Cassazione ha una serie di compiti definiti, per così dire “tipici”, (“assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale,il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni…” ecc.), ma anche «adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge».
Non è superfluo all’uopo richiamare le nozioni di fatto e diritto.
Per fatto giuridico si intende(9) «qualunque avvenimento che produca effetti giuridici. La norma contiene la previsione astratta di una situazione tipo chiamata fattispecie ed al verificarsi di un fatto concreto che ad essa corrisponde si realizzano gli effetti nella norma stabiliti».
Occorre quindi analizzare la nozione del contratto collettivo elaborato e accolto dalla dottrina.
Basterà ricordare per tutti Santoro Passarelli(10). «è un atto di autonomia il contratto stipulato fra sindacati contrapposti di lavoratori e datori di lavoro, allo scopo di regolare il contenuto dei contratti individuali fra singoli lavoratori e datori di lavoro. In questo senso è un contratto normativo rispetto alle parti dei contratti individuali». Il contratto collettivo è dunque un contratto e trova il suo fondamento nell’articolo 1322 c.c. (Autonomia contrattuale).
Ricordiamo ancora che (ex articolo 1321 c.c.) «il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» e ancora (ex articolo 1372 c.c.) «il contratto ha forza di legge tra le parti».
Potremmo, paradossalmente, concludere che il contratto collettivo e il contratto individuale sono nello stesso tempo norma e fatto.
Il contratto collettivo è norma per una pluralità di altri contratti individuali, mentre il contratto individuale è norma per le parti stipulanti. Il contratto individuale è fatto rispetto alla legge e al contratto collettivo, mentre il contratto collettivo è fatto rispetto alla legge.
La stessa legge è norma e fatto a un tempo. È legge per le fattispecie che regola e fatto perché dalla sua esistenza (emanazione) derivano conseguenze previste da altre leggi dello stesso rango e di rango superiore.
Ma il problema della natura del compito della Cassazione non è certo problema di oggi.
Su Cassazione, fatto e diritto ci piace richiamare il pensiero di un illustre processualista.(11)
Non dimentichiamo però, allo scopo di non esorbitare dai confini del problema, che i criteri per individuare la norma e differenziarla da ogni altro atto e/o attività giuridica sono dati dalla sussistenza di alcune caratteristiche quali quella della generalità, quella dell’astrattezza e, infine, della ipoteticità. Solo in tali casi possiamo dire di trovarci di fronte ad una norma di legge. Ma non può negarsi che le stesse caratteristiche sussistono nel contratto collettivo, parte c.d. normativa.
Tali osservazioni ci portano a concludere che soprattutto sotto il profilo dell’“assicurazione dell’unità del diritto oggettivo nazionale”, l’estensione del legislatore operata dalla riforma appare compatibile con il sistema – in aggiunta alle circostanze che a) il citato articolo 65 dell’Ordinamento giudiziario, come abbiamo visto, prevede che possano essere conferiti dalla legge alla Corte compiti aggiuntivi, e b) il regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 è legge ordinaria che può essere modificata da altra legge di pari grado.
Ma, a questo punto, non possiamo non domandarci quale debba essere il processo di verifica che la Corte deve seguire circa l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi. Il tema è già stato affrontato per quel che riguarda il contratto collettivo del settore pubblico. Si è detto che «l’interpretazione di tali atti debba avvenire secondo le norme generali di ermeneutica contrattuale di cui agli articoli 1362-1371 c.c., piuttosto che a norma degli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale» (Cassazione 17 marzo 2005, n. 5892 cit.). Ma importante dottrina(12), spostando l’asse del sistema, aveva concluso, in periodo ben anteriore all’attuale riforma, che «tra le norme di diritto di cui all’articolo 360, n. 3 rientrano anche i contratti collettivi di diritto comune e, più in generale, le c.d. clausole negoziali tipiche». Quanto sopra, sempre secondo tale accreditata teoria «trova senso compiuto solo in una prospettiva teleologica, tale cioè da vedere la funzione nomofilattica della Cassazione, non in funzione della tutela dell’ordinamento giuridico, ma del riconoscimento dell’interesse di tutti a prevedere l’esito quanto meno giuridico della lite che vorrebbero intentare».(13)(14) Tale soluzione, che troverebbe riscontro nella normativa del Testo unico del pubblico impiego, ci darebbe la chiave di lettura utile anche per l’interpretazione della nuova normativa. Ulteriore argomento a favore dell’assimilazione dell’interpretazione del contratto collettivo all’interpretazione della norma di diritto è proprio nel dato letterale che accomuna, senza dubbio, nell’espressione usata, come elementi omogenei norme di legge e norme di contratto collettivo nazionale.
Ulteriore modifica, apportata dal decreto legislativo n. 40/2006, consiste nell’introduzione dell’articolo 366-bis c.p.c., il quale prevede che ,anche nei casi in cui si ricorra per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi, il motivo per cui si ricorre debba concludersi con la formulazione di un quesito di diritto,il che ci pare coerente con il sistema, laddove si ricordi che l’articolo 384 c.p.c. prevede che la Corte di Cassazione, quando accoglie il ricorso deve enunciare il principio di diritto.
 
Il ricorso “per saltum
È pure precisato, nell’articolo 360, comma 2, che «può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello; ma in tale caso l’impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3».
In base a tale disposizione le parti possono accordarsi di omettere l’appello (rinunciando ad un secondo grado per il merito) solo nel caso un cui intendano proporre ricorso per Cassazione limitatamente a quanto previsto dalla norma del primo comma n. 3 (violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di contratti e accordi collettivi nazionali).
L’articolo 366 comma 3 c.p.c. stabilisce inoltre che «nel caso previsto nell’articolo 360, secondo comma, l’accordo delle parti deve risultare mediante visto apposto sul ricorso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura speciale, oppure mediante atto separato, anche anteriore alla sentenza impugnata, da unirsi al ricorso stesso.». In altri termini la rinuncia all’appello può avvenire dopo la sentenza, a sentenza pronunciata (chi ha visto soddisfatte le sue ragioni e chi no), o anche, prima della sentenza, per così dire “al buio”.
La prima ipotesi, ovviamente, non presuppone un’avvenuta conciliazione, ma semmai una conciliazione parziale sui fatti (meglio una tacita accettazione dei contenuti della sentenza di 1° grado). In altri termini i fatti restano fissati sulla base di una sentenza intervenuta sul merito, accogliendo le richieste di una parte, totalmente o parzialmente, e respingendo le richieste dell’altra parte, totalmente o parzialmente. Tale conciliazione non può assimilarsi alle forme di transazione previste (in sede amministrativa, in sede sindacale, in sede giudiziaria: in particolare, quest’ultima, ai sensi dell’articolo 420, primo comma, deve conseguire a seguito del tentativo di conciliazione obbligatoriamente esperito dal giudice).
La seconda ipotesi veniva contrastata dagli orientamenti giurisprudenziali: «L’accordo delle parti per omettere l’appello, e per impugnare una sentenza di primo grado direttamente con ricorso per cassazione, limitatamente ai motivi di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, può intervenire validamente soltanto dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, quando le parti possono concretamente valutare se la contesa sia ormai limitata alla risoluzione di questioni di diritto: di conseguenza, è inammissibile il ricorso per cassazione proposto “per saltum” sulla base di un accordo intervenuto in un momento anteriore (nella specie le parti ancor prima dell’inizio del giudizio, avevano convenuto di ritenere l’emananda sentenza di primo grado “per brevità di contenzioso, definitiva ed esecutiva in primo grado e quindi inappellabile”». Cassazione 7 marzo 1997, n. 2021 in Giust. civ., 1998, I, 220.
Rinunciando all’appello nel merito( n.b. in assenza di transazione e/o conciliazione) le parti rinunciano ai diritti sostanziali per cui agivano ( diritti spesso irrinunciabili o indisponibili).
 
L’arbitrato
L’ultima modifica riguarda l’arbitrato. Il decreto legislativo n. 40/2006 si limita a confermare che le controversie di cui all’articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se ciò è previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro.
 
Conclusioni
Il testo del comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali) prevedeva che (è bene ricordare le parole esatte usate): «Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante modificazioni al codice di procedura civile. Il decreto provvede a realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti».
Ci pare che in ciò il legislatore, affrettato, abbia mancato. Deve avere, a parere nostro, sottovalutato l’importanza notevole delle operazioni che compiva e del loro impatto sull’ordinamento. A chi toccherà risistemare il tutto, descriverci il nuovo scenario, spiegarci “il diritto vivente”?
 
 
 
NOTE
 
* Nel testo indicheremo il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” semplicemente come Testo unico del pubblico impiego.
1 Sul punto la Giunta e l’Assemblea della Sezione Cassazione dell’Associazione nazionale magistrati (vedasi in Questione giustizia, n. 5, 2005, “Documenti”, 978) hanno espresso parere che dissente in radice e, comunque, esprime alcune specifiche critiche. Tra le altre «a tacere d’altro, vi è un interrogativo ineludibile, perché mai questa esigenza vi sarebbe per l’interpretazione, l’efficacia e la validità delle clausole collettive e non anche per l’interpretazione delle norme di legge» e poi, auspica l’estensione anche in tal caso del principio affermatosi con riferimento all’accertamento pregiudiziale dei contratti del settore pubblico che «il giudice può ricorrere alla sentenza pregiudiziale non definitiva solo se la questione ( di efficacia, validità o interpretazione) è seria e di rilevante importanza». Tali osservazioni, condivise o non condivise che siano, portano senz’altro un contributo al dibattito sulla riforma attuata. Si potrebbe rispondere alla prima delle due obiezioni richiamando la “polverizzazione” evidenziata dalla stessa Anm (vedasi infra), alla seconda che scaricherebbe sul giudice di merito il peso della scelta.
2. Con riferimento al tema della efficacia nel tempo della legge, per norma generale dovrebbe, in effetti, intendersi – ai fini della valutazione dell’applicabilità del principio giuridico “legi speciali per generalem non derogatur” (v. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, ed. Cedam, Padova, 1975, Tomo I, 367) – quella legge che regola, rispetto a norma precedente speciale , l’intera materia già regolata per un aspetto speciale dalla stessa (articolo 15, Disposizioni sulla legge in generale). In conseguenza di che la norma di cui all’articolo 420-bis c.p.c., regolando uno specifico, limitato aspetto del processo del lavoro, ci pone il dubbio se debba considerarsi generale o piuttosto anch’essa speciale. Resta da esaminare l’aspetto della incompatibilità tra le due norme (articolo 420-bis c.p.c. e articolo 64 Testo unico del pubblico impiego). Il criterio dell’alternatività ipotizzato nel testo dell’articolo, le renderebbe compatibili, lasciando al giudice la scelta, secondo le circostanze, di adottare l’una o l’altra soluzione con riguardo alle caratteristiche del caso (ad. es. ove si prospetti particolare difficoltà nel raggiungere un accordo dalle parti sulla clausola controversa, per vari motivi, quali difficoltà già riscontrate in precedenza nella stessa o in analoga fattispecie).
3. Come noto l’assetto dei comparti di contrattazione comprende Ministeri, Enti pubblici non economici, Regioni e Autonomie Locali, Aziende e amministrazioni autonome dello Stato, Sanità, Scuola, Università (oggi Miur), enti vari, ecc.
4. Per un modello che riconducesse ad un unico comune denominatore tanto il contratto collettivo del settore privato che il contratto collettivo del settore pubblico vedi, ad esempio, M. MARAZZA, Il contratto collettivo di lavoro all’indomani della privatizzazione del pubblico impiego in Trattato di diritto Commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. GALGANO, volume trentottesimo, ed. Cedam, 2005, 5 e 6 nonché 140 segg., il quale dopo serrata analisi della contrattazione collettiva degli ultimi decenni, così conclude: «… se le considerazioni da ultimo svolte sono corrette se ne deve dunque dedurre che il contratto collettivo pubblico appartiene allo stesso tipo del contratto collettivo privato, anche se dotato di disciplina speciale. Per entrambi, infatti, si può parlare di una funzione economico sociale caratterizzata dalla finalità di organizzare un fattore della produzione, il la­voro, in vista di un interesse che è al tempo stesso particolare, l’efficienza produttiva, e generale, il benessere collettivo. L’interesse pubblico rimane in ogni caso sullo sfondo perché ad esso concorrono, in via mediata, i due modelli di contrattazione collettiva. In via immediata, invece, entrambi i contratti sono chiamati a fondere l’interesse collettivo dei lavoratori con quello dell’efficienza produttiva.». È questa una corrente di pensiero che, in definitiva, si fa risalire alle concezioni di M. PERSIANI illustrate nel noto testo Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966.
5. Vedi M. RICCI, L’efficacia del contratto collettivo, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Commentario a cura di F. CARINCI e L. ZOPPOLI, ed. Utet, Torino, 2004, 470.
6. Vedi M. RICCI, L’efficacia del contratto collettivo, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., 472
7. Vedi APICELLA, CURCURUTO, SORDI-TENORE (a cura di), Il pubblico impiego privatizzato nella giurisprudenza, di ed. Giuffrè, Milano, 2005, 718.
8 Anche su tale punto la Giunta e l’Assemblea della Sezione Cassazione dell’Associazione nazionale magistrati (vedasi in Questione giustizia, n. 5, 2005, Documenti cit.) hanno espresso parere. In particolare si sono pronunciate nel senso che «tale innovazione aumenterebbe in modo insostenibile il carico di lavoro della Corte di Cassazione e moltiplicherebbe oltremodo i ricorsi determinando un’alterazione incongrua e impraticabile del giudizio di legittimità. I contratti collettivi di diritto comune, infatti sono contratti di diritto privato, l’interpretazione dei quali implica a norma degli articoli 1362 e seguenti c.c. l’accertamento di un fatto (la comune volontà delle parti stipulanti) e l’accertamento eventualmente di altri fatti secondari ai quali gli articoli 1362 e seguenti, oltre che i principi fondamentali della materia, attribuiscono rilevanza ai fini di tale indagine» e poi «d’altro canto, in mancanza di norme legislative di attuazione delle garanzie di democraticità e rappresentanza stabilite dall’articolo 39 della Costituzione, la tendenziale omologazione delle norme collettive alle norme di legge appare rappresentare un sovvertimento illegittimo del fondamentale principio della gerarchia delle fonti» e infine «è certamente vero che anche nel settore privato vi è una esigenza di superare la polverizzazione delle interpretazioni di una medesima norma collettiva e che tale esigenza non è compiutamente soddisfatta dall’unicità della Cassazione, una volta che il controllo di quest’ultima sia limitato al rispetto delle regole legali di ermeneutica contrattuale e al vizio di motivazione. Ma la risposta a questa esigenza – fin tanto che non venga data attuazione all’articolo 39 della Costituzione… – non può che essere affidata agli strumenti dell’autonomia negoziale». Ci pare che il parere de quo esprima la consapevolezza dell’esistenza di una problematica (quando parla di “tendenziale omologazione delle norme collettive alle norme di legge” e quando parla “della polverizzazione delle interpretazioni di una medesima norma”) dissentendo dalle soluzioni adottate dal Legislatore.
L’Assemblea generale della Corte di Cassazione ha fatto sue le preoccupazioni «sulle possibili conseguenze negative che sull’efficienza del lavoro della Corte e sulla concreta realizzazione della sua funzione nomofilattica potranno avere alcune delle scelte operate nelle legge delega» citando tra queste «l’estensione del sindacato sull’interpretazione e applicazione dei contratti collettivi nazionali».
9. Vedasi A. TORRENTE, Manuale di diritto privato, ed. Giuffrè, Milano, 1962, 103.
10. Vedasi F. SANTORO PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, ed Jovene, Napoli, 1967, 35.
11. Vedasi S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, ed. Vallardi, 1954/1962, libro II, 190 segg.: «si è visto nei cenni storici come in realtà il supremo organo di giustizia sia sorto in una atmosfera di utopia della legge che portava ad escludere la sua stessa qualità di organo giurisdizionale; come espressamente fosse vietato, dal decreto istitutivo del Tribunal de Cassation, di occuparsi del merito della causa; come peraltro si fosse dovuto consentire il controllo sugli errori in procedendo, attraverso i quali si riammetteva, se così si può dire, la Cassazione nella pienezza del giudizio, pur nei termini segnati dalle norme» e più avanti «bisogna subito dire che, considerata in assoluto, la distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto non ha alcuna razionalità; anzi è assolutamente irrazionale perché contraddice alla essenziale unità del giudizio. Non esistono due giudizi, ma due (o più) momenti del giudizio» e più avanti ancora chiarisce : «Così ad es. quando l’articolo 1321 dice che il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire ecc…, esso prevede un certo, accadimento… e questo accadimento qualifica come contratto. Ora, quando dalla norma si passa al giudizio, si pone un problema di esistenza dell’accadimento, ed è questo un problema che viene risolto con un giudizio che è tipicamente di fatto. Ma questo giudizio… è il risultato di tutta una indefinita serie di premesse… [in che cosa consiste l’accordo? come deve essere la sua manifestazione?] … la caratteristica di queste premesse è che esse si pongono sì per il giudizio dell’accadimento ,ma come valide per tutti i giudizi,e cioè in definitiva come norma, anzi la norma».
12. Vedi D. BORGHESI, La giurisdizione del giudice ordinario, in Il lavoro nelle pubbiche amministrazioni, Commentario a cura di F. CARINCI e L. ZOPPOLI, ed. Utet, Torino, 2004, 1247.
13 Vedi da ultimo G. SCARDOZZI, Brevi osservazioni sul nuovo giudizio di cassazione in materia di lavoro, in Guida al lav., 13, 2006, 23: «Peraltro è stato posto in rilievo da parte della dottrina più recente che la nozione di “norma di diritto”, rilevante ai sensi del ricorso per cassazione, non coincide totalmente con quella di “regola posta da una fonte di diritto”; e che pertanto la modifica muova dal presupposto che il self restraint tradizionalmente praticato dalla Suprema Corte di Cassazione rispetto al problema della censurabilità dell’interpretazione data dal giudice di merito di accordi e contratti collettivi di lavoro non sia imposto da alcuna necessità logico – sistematica, né da alcuna esigenza pratica. La norma, secondo tale dottrina ,mira a far succedere al contenzioso diffuso e particolare che affligge la materia dell’interpretazione dei contratti collettivi, la possibilità della soluzione una tantum, autorevole e tendenzialmente estintiva del contenzioso stesso. Oltre ad avere dalla sua parte evidenti ragioni pratiche, la soluzione positiva è apparsa in sintonia con il recupero del valore preminente della funzione nomofilattica della Corte Suprema, che esce rafforzata dall’interpretazione omogenea della parte normativa della contrattazione collettiva».
14 Per una tendenziale nomofilachia attinente agli accordi sindacali vedi Cassazione civile 13 maggio 2003, n. 7355, in Mass. giur. lav. Rep., 2003, voce “Il ricorso in Cassazione”, 27. Nella motivazione si legge: «Nella specie trattasi di un accordo aziendale per incentivazione all’esodo. L’esigenza della sua interpretazione uniforme è correlata alla sua funzione normativa nell’ambito dell’istituzione aziendale. I giudici del merito hanno fornito una interpretazione uniforme, che è stata confermata dalle sentenze di questa Corte citate sopra, nel senso sopra riportato. La valutazione di tale interpretazione operata dalle citate sentenze di questa Corte, pur non vincolando giuridicamente la decisione odierna, costituisce tuttavia persuasivo argomento per confermare il medesimo giudizio, in relazione alle medesime censure.
Infatti, come sottolineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte, la funzione nomofilattica assegnata dall’articolo 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario) alla Corte Suprema costituisce una funzione di carattere costituzionale, diretta espressione dell’articolo 3, perché l’uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge ne implica l’uniforme interpretazione (Cassazione, Sez. III pen., sentenza 1° luglio 1994, n. 7455).
Pertanto, benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello “stare decisis”, essa tuttavia costituisce un valore o una direttiva di tendenza, immanente nel nostro ordinamento, in forza della quale non ci si deve discostare da un’interpretazione consolidata del giudice di legittimità, investito, istituzionalmente, della funzione di nomofilachia, senza una ragione giustificativa (Cassazione, Sez. III pen., sentenza 23 febbraio 1996, n. 1999)». Vedasi anche Cassazione 14 agosto 2004, n. 15987, in Mass. giur. lav., 11, 2004, “Massime scelte” 31, 790. con riguardo all’interpretazione del contratto collettivo, per il principio per cui «… ove altri giudici di merito abbiano reso un’interpretazione del testo contrattuale che abbia superato il vaglio della Corte di Cassazione, il giudice che si accinga ad interpretare il medesimo testo, non può ignorare, senza un’adeguata motivazione, le suddette precedenti interpretazioni».
 

Avv. Viceconte Massimo

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