Nei primi sei mesi dell’anno corrente l’attenzione della Consulta ha riguardato l’art. 170 del T.U. n.115/02 (ord.n.52 del 10 febbraio), gli artt.119 e 142 (ord.n.76 del 22 febbraio), l’art. 117 (ord.n. 160 del 5 aprile), l’art. 116 (ord.n. 176 del 20 aprile), l’art. 112 (ord.n. 177 del 20 aprile), l’art. 130 (ord.n. 201 del 3 maggio).
I testi completi delle suddette pronunce si trovano sul sito
www.anvag.it nella rubrica BIBLIOTECA/Giurisprudenza.
Mentre per la ordinanza n. 52 richiamo il mio articolo già pubblicato nello scorso febbraio, ritengo utile fare una succinta presentazione degli altri provvedimenti tutti conclusi con dichiarazione di inammissibilità o infondatezza delle rispettive questioni sollevate.
1) L’ordinanza n. 76: il Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 119 e 142 del T.U.n. 115/2002 in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.
Il Tribunale aveva respinto il ricorso volto all’annullamento di un diniego di regolarizzazione, ai sensi della legge 9 ottobre 2002, n. 222 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195, recante disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari) opposto dall’Ufficio territoriale del Governo di Terni al datore di lavoro di un cittadino extracomunitario.
Il difensore aveva presentato la domanda di liquidazione delle spese di giudizio dell’extracomunitario, sulla base dell’ammissione di questo al patrocinio a spese dello Stato, disposta con decreto del Presidente del Tribunale.
L’Agenzia delle entrate aveva chiesto la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, invocando l’art. 119 del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui il patrocinio a spese dello Stato è assicurato solo al cittadino italiano e allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare.
L’art. 142 riguarda il processo avverso il provvedimento di espulsione di cittadini extracomunitari (di cui all’art. 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e dispone che le relative spese sono a carico dell’erario e sono liquidate nella misura e con le modalità previste per i cittadini comunitari.
Si ravviserebbe, pertanto, una disparità di trattamento per lo straniero che si trovi in Italia in una situazione di clandestinità cui viene perciò negato il patrocinio a spese dello Stato, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, perché – in relazione alla condizione di disagio sociale e difficoltà economica che rappresenta la normalità per gli aspiranti alla regolarizzazione – affiderebbero l’esito dei procedimenti di regolarizzazione a fattori casuali (quali la possibilità dei singoli di tutelare concretamente le proprie ragioni, sostenendo l’onere del patrocinio), e perché determinerebbero un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri cittadini extracomunitari, i quali potrebbero usufruire del patrocinio a spese dello Stato per contrastare provvedimenti negativi incidenti sulla possibilità di permanere nel territorio italiano (impugnazione dei dinieghi di rinnovo del permesso di soggiorno), giovandosi di una situazione di soggiorno regolare; nonché per violazione degli articoli 24 e 113 della Costituzione, perché non si potrebbe escludere che lo straniero legittimamente espulso sia comunque parte di controversie civili o amministrative che per lui rivestono vitale importanza.
La Corte, pertanto, considerato che il provvedimento di rimessione fornisce una descrizione insufficiente in ordine alla fattispecie concreta sottoposta all’esame del giudice a quo, dal momento che si limita ad affermare che sussistono le condizioni economiche disagiate del ricorrente, quale presupposto richiesto per l’ammissione al beneficio, senza tenere presente che da tale affermazione non si desume se il cittadino extracomunitario fosse o meno in possesso dei requisiti di reddito necessari per accedere al patrocinio a spese dello Stato, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione.
2) L’ordinanza n. 160: il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bolzano ha sollevatoquestione di legittimità costituzionale dell’art. 117, comma 1, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 , in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), «in quanto non estende gli effetti dell’ammissione al gratuito patrocinio quali previsti e specificati dall’art. 107 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 anche in favore del difensore di ufficio di persona irreperibile».
La norma in questione nello stabilire che l’onorario e le spese spettanti al difensore d’ufficio di persona irreperibile siano liquidati nella misura e con le modalità previste dagli articoli 82 e 84 del medesimo d.P.R. n. 115 del 2002, «costringerebbe il difensore d’ufficio di persona irreperibile alla anticipazione di spese anche rilevanti, come nella specie, nella quale gli atti del procedimento sono raccolti in ben quindici volumi».
Vi sarebbe, quindi disparità di trattamento rispetto alla posizione dei difensori «degli altri imputati, ammessi al gratuito patrocinio, nei cui confronti, ai sensi dell’art. 107 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 per effetto dell’ammissione al patrocinio alcune spese sono gratuite – quali le copie degli atti processuali necessarie per l’esercizio della difesa – mentre altre sono anticipate dall’erario», come «l’onorario e le spese agli avvocati».
Il rimettente vi ravviserebbe la gravosa conseguenza che al difensore dell’imputato irreperibile vengono liquidati l’onorario e le spese del procedimento da esso anticipati, soltanto a conclusione del procedimento, mentre il difensore di imputato reperibile usufruisce per contro gratuitamente delle copie degli atti processuali necessarie per l’esercizio del diritto di difesa, e allo stesso vengono anticipate dall’erario anche l’onorario e le altre spese – non gratuite – da quest’ultimo sostenute»;
La Corte ha dichiarato la questione manifestamente infondata sotto tutti i prospettati profili di censura e cioè non è ravvisabile una violazione dell’art. 3 Cost., giacché il giudice a quo pone in comparazione situazioni disomogenee tra loro, quali l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (e gli effetti che ad essa conseguono) e la difesa d’ufficio dell’imputato irreperibile.
L’ammissione al patrocinio, rispondendo ad un preciso vincolo costituzionale, posto dal comma terzo dell’art. 24 Cost., si radica sul presupposto della “non abbienza” (art. 74 del d.P.R. n. 115 del 2002), che si concretizza nella titolarità di un reddito non superiore ad una determinata soglia (art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002), da comprovare documentalmente da parte dell’interessato (art. 79 del d.P.R. n. 115 del 2002), che è tenuto personalmente a sottoscrivere l’istanza di ammissione al patrocinio, altrimenti inammissibile (art. 78 del d.P.R. n. 115 del 2002).
Diversa è la situazione processuale dell’imputato nei cui confronti non sia stato possibile eseguire le notificazioni nei modi previsti dall’art. 157 cod. proc. pen. e non abbiano avuto esito le ulteriori ricerche imposte dall’art. 159 cod. proc. pen.; donde, la prosecuzione del processo, una volta emesso il decreto di irreperibilità, con la nomina all’imputato, che ne sia privo, di un difensore d’ufficio, che lo rappresenti.
La evidente disomogeneità degli istituti posti a raffronto rende peraltro incongruo il riferimento del rimettente ad una disparità di trattamento tra il difensore d’ufficio di persona irreperibile e il difensore d’ufficio di persona reperibile «qualora gli assistiti versino in una condizione di non abbienza», risultando intimamente contraddittorio affermare, alla luce della disciplina positiva sopra richiamata, la “non abbienza” dell’imputato irreperibile;
Non è ravvisabile, in secondo luogo, neppure la violazione dello stesso art. 24, in quanto la disciplina di cui al denunciato art. 117 è frutto di una scelta discrezionale del legislatore che si pone proprio nel solco della garanzia della difesa, rendendone effettivo l’esercizio tramite l’anticipazione, da parte dello Stato, degli onorari e delle spese del difensore d’ufficio dell’imputato irreperibile, al pari, peraltro, di quanto avviene nel caso di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, come fatto palese dalla lettera f) del comma 3 dell’art. 107 del d.P.R. n. 115 del 2002.
Secondo la Corte non vi è ragione neppure di sostenere il prospettato vulnus all’art. 111 Cost. giacché la doglianza, fondata su argomentazioni analoghe a quelle già esaminate, non assume alcun autonomo rilievo.
3) L’ordinanza n. 176: il Tribunale di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 116 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e36 della Costituzione.
Gli gli artt. 116 e 117 del d.P.R. n. 115 del 2002 disciplinano la retribuzione, a carico dello Stato, del difensore d’ufficio, ed il giudice a quo si chiede se titolare del diritto di esigere il credito professionale, per garantire l’effettività del diritto di difesa, sia esclusivamente il difensore d’ufficio originariamente nominato per il procedimento ai sensi dell’art. 97, primo comma, cod. proc. pen., ovvero anche quello nominato come sostituto ai sensi dell’art. 97, quarto comma,cod. proc. pen., in relazione all’attività concretamente svolta.
L’art. 116 del d.P.R. n. 115 del 2002, così come formulato, presenterebbe profili di incostituzionalità, poiché il sostituto non avrebbe diritti verso il difensore di fiducia sostituito e, nella parte in cui non equiparerebbe il sostituto ex art. 97, quarto comma, cod. proc. pen., al difensore d’ufficio, sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che impone al legislatore il trattamento uguale di situazioni tra loro omogenee, con l’art. 36 della Costituzione, che sancisce il diritto di ciascun lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, e con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, che tutela l’effettività del diritto di difesa.
La Corte ha dichiarato la questione manifestamente infondata per erroneità del presupposto interpretativo, in quanto, ai sensi dell’art. 97, quarto comma, cod. proc. pen., al difensore designato in sostituzione si applicano le disposizioni dell’art. 102 dello stesso codice, secondo cui il «sostituto esercita i diritti ed assume i doveri del difensore» (
ordinanza n. 8 del 2005) e, quindi, anche al primo si applica la normativa relativa al patrocinio a spese dello Stato.
4) L’ordinanza n. 177: la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 112, comma 1, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in riferimento all’art. 77, primo comma, della Costituzione.
Secondo il rimettente, il difensore di un imputato, nell’ambito di un procedimento penale in ordine al reato di cui all’art. 80, comma 2, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), aveva proposto ricorso per cassazione avverso il decreto con il quale la Corte d’appello di Bari aveva revocato de plano, ai sensi degli artt. 112, 113 e 114 del d.P.R. n. 115 del 2002, su richiesta avanzata dall’Agenzia delle entrate di Bari, il decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, emesso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, sulla base della presunzione di sussistenza di una disponibilità di reddito superiore al limite massimo fissato dalla normativa di settore, desumibile dalla definitiva sentenza di condanna, laddove si era accertato che l’imputato aveva posto in essere, a fini di lucro, un’attività di spaccio di sostanze stupefacenti di notevole rilevanza.
Secondo il reclamante, il provvedimento impugnato, sarebbe stato emesso, ai sensi dell’art. 112 del d.P.R. n. 115 del 2002, con decreto de plano, con conseguente violazione del principio del contraddittorio.
La citata disposizione avrebbe ridisciplinato, sotto il profilo sostanziale, tutte le ipotesi di revoca del beneficio, prevedendo, alle lettere a), b) e c) del comma 1, le revoche «d’ufficio» di carattere c.d. formale, ed alla lettera d) dello stesso comma 1, quella «su richiesta dell’ufficio finanziario, presentata in ogni momento, e comunque non oltre cinque anni dalla definizione del processo, se risulta provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito».
L’art. 113 stabilisce poi la ricorribilità per cassazione (non più limitata ai soli casi di «violazione di legge») solo contro il decreto che decide sulla richiesta di revoca dell’Ufficio finanziario.
La norma impugnata, sotto il profilo squisitamente procedimentale, statuisce, invece, che in tutte le ipotesi previste, il magistrato revoca l’ammissione con decreto motivato.
La norma sarebbe, pertanto, decisamente innovativa rispetto al sistema della legge n. 217 del 1990 che prevedeva, all’art. 10, comma 2, nelle ipotesi di revoca o modifica del provvedimento di ammissione su richiesta del pubblico ministero o dell’ufficio finanziario (come nel caso in esame), l’applicabilità della procedura di cui all’art. 6, comma 4, che rinviava, a sua volta, all’art. 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794, e cioè ad una disposizione che dettava, in proposito, una disciplina ispirata a garantire il principio del contraddittorio (essendo, tra l’altro, prevista la comparizione degli interessati davanti al giudice).
E’, quindi, evidente che la nuova normativa avrebbe abrogato il procedimento in contraddittorio tra le parti precedentemente previsto avverso la revoca del provvedimento di ammissione, ora non più richiamato neppure implicitamente, determinando una sostanziale modifica del previgente sistema, che, secondo il rimettente, non sarebbe autorizzato dal legislatore per contrasto con la legge di delegain quanto la delega stessa si limiterebbe a permettere un coordinamento meramente formale di norme preesistenti.
La Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione in quanto
a) tra i criteri direttivi individuati nella delega, assume rilievo quello previsto dalla lettera
d), comma 2, dell’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1998), come modificato dall’art. 1 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1999) concernente il «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo», aggiungendo che «se l’obiettivo è quello della coerenza logica e sistematica della normativa, il coordinamento non può essere solo formale, come non ha mancato di sottolineare il Consiglio di Stato nel parere espresso nel corso della procedura di approvazione del testo unico» e che, «se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principî sono quelli già posti dal legislatore, non è necessario che – come vorrebbe il rimettente – sia espressamente enunciato nella delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata», con la conseguenza che «entro questi limiti il testo unico poteva innovare per raggiungere la coerenza logica e sistematica» (
sentenza n. 52 del 2005);
b) che, del resto, nonostante un difetto di coordinamento normativo delle disposizioni trasfuse nel testo unico ed in parte novellate, si può ricavare dal sistema la possibilità di una interpretazione adeguatrice secondo la quale è sempre esperibile, nei confronti dei provvedimenti di revoca della ammissione al patrocinio a spese dello Stato emessi dal giudice competente, il ricorso al Presidente del tribunale o della corte di appello, i cui provvedimenti sono ricorribili per cassazione ovvero, in caso di revoca richiesta dall’ufficio finanziario, direttamente il ricorso per cassazione;
c) che, come già affermato dalla Corte, «per “diritto vivente”, come espresso in numerose pronunce della Corte di cassazione, confermato dalla recente sentenza delle sezioni unite penali del 14 luglio 2004, n. 36168, tutti i provvedimenti che dispongono in ordine alla ammissione al patrocinio a spese dell’erario, compresi quelli di revoca di un precedente provvedimento, sono impugnabili negli stessi termini e con i medesimi rimedi stabiliti dall’art. 99 del d.P.R. n. 115 del 2002, non avendo il testo unico abrogato i diritti e le garanzie difensive previsti dalla previgente disciplina» (
sentenza n. 54 del 2005).
5) L’ordinanza n. 201: il Tribunale di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui dispone che, nel caso di patrocinio a spese dello Stato, gli importi spettanti al difensore sono ridotti della metà, ove si tratti di procedimenti civili in ciò ravvisando un contrasto con l’art. 3 della Costituzione per la irragionevole disparità di trattamento che si determinerebbe rispetto all’onorario previsto per il difensore nel processo penale, per il quale la predetta riduzione non opera.
La Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione richiamando la precedente
ordinanza n. 350/2005, che ha esaminato identica questione, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
La Corte ribadisce che la diversità di disciplina fra la liquidazione degli onorari e dei compensi nel processo civile e nel processo penale trova fondamento nella diversità delle situazioni comparate (da una parte gli interessi civili, dall’altra le situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio dell’azione penale), e che la circostanza dedotta secondo cui il sistema di liquidazione degli onorari civili impone al difensore di prestare la propria opera per un compenso inferiore al minimo previsto, che, normalmente, costituirebbe infrazione ai doveri deontologici e fatto suscettibile di sanzione disciplinare, è costituzionalmente irrilevante ove si tenga presente che il sistema di liquidazione è imposto da una norma di legge, che, come tale, può legittimamente derogare anche ai minimi tariffari.
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Avv. Nicola Ianniello presidente dell’A.N.V.A.G. Associazione Nazionale Volontari Avvocati per il Gratuito patrocinio e la difesa dei non abbienti- 07/06
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