1. Introduzione: un ragionamento sistematico e consequenziale – 2. Decentramento: una definizione – 3.1. L’esperienza europea ed internazionale: La Francia – 3.2. Il Regno Unito – 3.3 Gli Stati Uniti – 4. Il decentramento nell’esperienza italiana: tra l’immobilismo istituzionale e la crisi del modello del Welfare State – 5.1 Decentramento e sussidiarietà: nell’esperienza nazionale… – 5.2 …e nell’esperienza comunitaria – 6. Il lungo percorso delle politiche locali
1. Introduzione: un ragionamento sistematico e consequenziale
Parlare di decentramento alla luce dell’evoluzione storica, politica e giuridica che ha contraddistinto l’istituto, giungendo ad evidenziare quali siano stati i successi e quali, invece, i fallimenti di un percorso intrapreso da tutte le grandi realtà politiche internazionali (seppure con intenti, mezzi e dunque risultati diversi) richiede un ragionamento sistematico e consequenziale.
Sistematico perché, in tanto il paradigma del decentramento può essere compreso in quanto questo sia stato definito e valutato, nei suoi tratti essenziali, attraverso un’indagine di più ampio respiro, che intraprenda il proprio percorso conoscitivo partendo dall’esame del decentramento così come attuato nelle politiche internazionali (prima) ed europee (poi), arrivando infine a definire l’esperienza italiana (e le non poche né indifferenti problematicità di questa) come il risultato di questo complesso percorso di ricerca.
Consequenziale perché, proprio in ragione del ragionamento sistematico ora indicato, si verrà a delineare un campo di ricerca che opererà attraverso un progressivo (appunto: consequenziale) restringimento, giungendo ad individuare quanto di specifico interesse della ricerca: l’applicazione del decentramento presso gli Enti locali, nelle istituzioni municipali, in qualità di interlocutori primari nel dialogo con l’utenza che l’ottica di una politica di decentramento mira a realizzare ed implementare.
2. Decentramento, una definizione
La dottrina dibatte su quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “decentramento”, ed in proposito ha elaborato tre distinti orientamenti[1].
Anzitutto, si rinviene la nozione di decentramento autarchico, quando cioè le funzioni vengono trasferite ad enti diversi dallo Stato, dotati di autarchia: vale a dire della capacità di porre in essere atti amministrativi che abbiano la stessa natura e la stessa efficacia degli atti statali. Secondo l’impostazione tradizionale[2], in questo contesto rientrerebbe appunto il decentramento autarchico territoriale, vale a dire il trasferimento di funzioni amministrative agli enti locali.
È possibile, in secondo luogo, parlare di decentramento burocratico, quando cioè agli uffici periferici vengono trasferite potestà decisionali (con relative responsabilità) e non soltanto compiti preparatori o esecutivi. Pertanto, al fine di non confondere tale fenomeno con il trasferimento di competenze (e non di potestà decisionali), in costanza di un rapporto gerarchizzato tra ufficio centrale e periferico, la dottrina francese preferisce usare, per questa seconda ipotesi, il termine “deconcentration”.
Infine, si parla di decentramento funzionale quando determinate funzioni vengono attribuite a strutture compiute che, pur rimanendo assorbite nell’organizzazione complessiva dell’ente di riferimento, godono di una certa autonomia operativa, finanziaria e contabile.
3.1. L’esperienza europea ed internazionale: la Francia
Alla luce di queste valutazioni è bene far riferimento ad alcune esemplificative esperienze europee ed internazionali che, sotto questo specifico punto di vista, offrono una pratica applicazione.
Anzitutto la Francia. Si tratta di un paese che rappresenta il prototipo e la piena espressione del modello unitario: è possibile affermare che dalla Rivoluzione francese alla presidenza Mitterand, l’organizzazione territoriale del potere sia rimasta sostanzialmente inalterata. Volendo tuttavia individuare le tappe che paiono più significative al fine di verificare l’applicazione dei principi del decentramento (che di fatto non si è mai veramente realizzato), non è possibile non citare la prima riforma del 1972, varata dal presidente Pompidou, che rafforza le Regioni, le quali acquistano personalità giuridica propria e cessano di configurarsi come corpi amministrativi dello Stato[3].
Successivamente, nel corso degli anni Settanta, alcuni eventi concorrono a preparare un terreno favorevole per una riforma più incisiva degli enti regionali e locali. La recessione economica spinge infatti le Regioni a chiedere maggiori poteri per il sostegno delle attività produttive locali[4].
Sarà però soltanto con la riforma operata dal presidente Mitterand che si verrà, da una parte a dare parziale attuazione alle logiche di decentramento, ma, dall’altra, non si verrà ad intaccare la struttura prevalentemente centralista dello Stato francese, che, a conti fatti, resterà fondamentalmente strutturata sulla base del modello centrista[5].
3.2. Il Regno Unito
Anche il modello anglosassone presenta tradizionalmente una struttura prevalentemente unitaria fino alla devolution del 1998, che portò alla riapertura del parlamento scozzese, all’istituzione di un’assemblea gallese e al ripristino di quella nord-irlandese. Tuttavia, a differenza di quello francese, il modello anglosassone si presenta storicamente predisposto all’accoglimento ed applicazione dell’ideologia del decentramento[6], ciò anche in ragione delle notevoli differenze culturali che ne caratterizzano l’essenza, nonché, in misura minore ma non meno significativa, in ragione del clima liberale e riformista che storicamente ha guidato i governi del paese.
3.3 Gli Stati Uniti
Benchè ragioni di comodità espositiva abbiano reso preferibile trattare anzitutto delle due principali esperienze europee è tuttavia noto che quello degli Stati Uniti costituisce il primo e più significativo esempio di federalismo, nato con la costituzione americana del 1787 che istituisce appunto un nuovo modello di stato, quello federalista[7], opposto al modello unitario di matrice europea.
Lo Stato federalista statunitense è il frutto di un processo che non è di incorporazione o conquista di territori da parte di un centro egemonico, ma si origina da un patto di unione fra polities sovrane che, rinunciando all’esercizio di una parte del proprio potere, danno vita ad una nuova polity che le comprende al suo interno. A dimostrazione di questa particolare genesi vi è il fatto che oggi questo modello struttura in modo estremamente diversificato dal nostro la propria organizzazione amministrativa e lo svolgimento delle dinamiche di potere. Pur con un centro forte ed un Presidente che esercita grande influenza, tuttavia la vita amministrativa quotidiana è affidata nelle mani di una struttura centrale piuttosto snella (i Dipartimenti) e viene poi delegata ad un crescente numero di agenzie, che gestiscono la propria attività con notevoli margini di autonomia e riferiscono agli organi centrali esclusivamente per quanto riguarda il rispetto di budget e della realizzazione delle politiche generali[8].
4. Il decentramento nell’esperienza italiana: tra l’immobilismo istituzionale e la crisi del modello del Welfare State
Le questioni che si sono appena affrontate, oltre a dare un quadro d’insieme di cosa sia stato il decentramento nei diversi stati nazionali europei ed extraeuropei, hanno sotteso un’ulteriore elemento di problematicità, di cui ora si rende necessario fornire una disamina complessiva approfondita: quello cioè dell’ostilità, talora indolenza, degli organi centrali nell’avviare le politiche devoluzioniste e dar concreta applicazioni al modello di governo che queste prospettano ed auspicano[9].
Proprio a partire da questa rilevazione è possibile ricostruire il primo aspetto caratteristico dell’evoluzione del decentramento in Italia. Il fondo del problema consiste nella circostanza per cui, nel porre in essere logiche di decentramento e privatizzazione dei contesti nazionali, favorendo dunque più agili strutture di governo (quali, appunto, quelle che fanno capo alle Regioni ed Enti locali) si determini un esito paradossale: quello cioè definito dello “statalismo di ritorno”, cui non è esente il tentativo di scaricare a livello regionale le tensioni non più sostenibili da altri livelli di governo, soprattutto sul piano della finanza pubblica[10].
Questa circostanza – l’effetto paradossale per cui le politiche di decentramento quando non propriamente realizzate hanno indotto non una delega rispetto dell’autonomismo ma, al contrario, un conferimento di poteri che finiva per ridurre i margini di operatività degli Enti locali – ha determinato, congiuntamente alla diffidenza che per tradizione ha accompagnato la politica italiana nella valutazione delle scelte logistiche di potere, il fenomeno definibile come “immobilismo delle istituzioni”.
A ciò si accompagna un secondo, ed inverso, fenomeno, che ha favorito, anziché ostacolare, il decentramento. Per effetto della globalizzazione dei mercati finanziari, infatti, i capitali “fuggono” verso gli stati fiscalmente più convenienti. Qualora non ci si adoperasse per trovare forme nuove di Welfare, i modelli tradizionali ricadrebbero drammaticamente sui soggetti stessi che il Welfare vorrebbe proteggere. Infatti, un meccanismo volto ad assicurare il benessere che sia ancora centrato sul ruolo dello Stato (quello cioè tradizionale), implica una forte pressione fiscale. Ma, appunto, se i capitali fuggono – e fuggono verso quegli Stati dove la pressione fiscale è più leggera – i soggetti colpiti dall’imposizione divengono le ricchezze che non possono invece scappare (ad esempio, il reddito dell’impiegato o dell’operaio o i beni primari, come la casa d’abitazione). I finanziatori del Welfare State saranno allora sempre gli stessi soggetti che da esso dovrebbero essere assistiti, con un ritorno del “fantasma della povertà” per le classi meno agiate[11].
Proprio il concetto di sussidiarietà dunque, diviene uno strumento di rilevanza centrale per comprendere le ragioni della crisi del welfare state ed anche per prospettare un’applicazione di potere decentrata che possa garantire il raggiungimento di un benessere diffuso in ragione di quello. La garanzia del benessere non può più essere perseguita dallo Stato secondo le dinamiche tradizionali, perché si rivela controproducente,come si è appena dimostrato. Tuttavia questa crisi può essere a sua volta superata e si può ottenere in modo relativamente agevole esattamente con l’applicazione di politiche di decentramento che facciano della sussidierietà un punto centrale del discorso. In questo modo, modificando le forme di imposizione fiscale ed i soggetti, e salvando dunque i capitali, lo Stato trova la possibilità di perseguire il benessere dei propri cittadini (e dunque assicurarsi il consenso di questi).
5. Decentramento e sussidiarietà: nell’esperienza nazionale
Appare evidente, in ragione di quanto specificato poc’anzi, che il concetto di decentramento giunge a specificarsi e giustificarsi in quello di sussidierietà. Con quest’ultimo termine (e con il principio ad esso riferito) si indica un’idea filosofica e politica, connessa all’organizzazione pubblica e sociale, che è presente da lungo tempo nella storia del pensiero umano occidentale. Si tratta, più precisamente, di un principio trasversale, che prescinde da quella ricerca del miglior regime politico che, nell’alternativa tra un regime di democrazia, monarchia o aristocrazia, ha visto schierarsi i filosofi di grande rilievo nella storia del pensiero umano, a partire da Plotino, fino ad arrivare a Bodin.
Essa, al contrario, accosta il problema in maniera diversa, in quanto, mettendo in secondo piano il problema della forma di governo, affronta primariamente la questione di fin dove può spingersi l’autorità e in virtù di che cosa e di quali compiti.
Sebbene la difesa del pluralismo sociale dalla invasività dello statalismo sia stato poi ribadito da notevoli autori, primo fra tutti, appunto, Tocqueville[12], sarà però nella dottrina sociale della Chiesa[13] che il principio di sussidiarietà troverà una prima ed esaustiva formulazione esplicita, divenendo l’unico principio di filosofia sociale da questa proclamato come "gravissimo" ed "inderogabile"[14].
La situazione italiana si presenta in proposito alquanto articolata. Quando sulle rovine lasciate dal fascismo i padri costituenti intrapresero la loro opera di ricostruzione del patto politico e sociale, il principio di sussidiarietà non venne, di fatto, valorizzato come si sarebbe potuto nel corso dei lavori dell’Assemblea.
L’idea che la società civile italiana fosse impreparata, unitamente alla convinzione che sarebbero stati i partiti che avevano sconfitto il nazifascismo a garantire la democraticità della vita politica, spinsero a favorire una certa tiepidezza nella difesa del principio di sussidiarietà, che durante tutti i lavori dell’Assemblea costituente non venne mai esplicitamente invocato, nemmeno da quella parte cattolica dalla quale ci si poteva aspettare una maggiore fedeltà al magistero pontificio (che, come detto, aveva elaborato e sviluppato il principio di cui si tratta, rendendolo un concetto essenziale).
5.2 …e nell’esperienza comunitaria
Ovviamente il principio di sussidiarietà ha trovato applicazione pratica anche nell’ambito internazionale. Volendo allora dare una visione di insieme è opportuno soffermarsi in particolare sul significato che ne viene offerto nel Trattato di Maastricht.
L’Europa di Maastricht, infatti, prevede all’art. 3b del Trattato[15] che la Comunità agisca nei limiti delle funzioni conferite e dei fini assegnati, e che, nelle materie in cui non ha competenze esclusive[16], conformemente al principio di sussidiarietà, intervenga soltanto e nella misura in cui le finalità previste non possano essere sufficientemente realizzate dagli Stati membri.
Inserito nell’agenda politica europea già dagli anni settanta per l’insistenza del gruppo democratico cristiano del Parlamento europeo, il principio di sussidiarietà ha trovato poi diverse formulazioni nei progetti Spinelli del 1974 e del 1984, nonché nel celebre rapporto Padoa Schioppa[17]. La sua prima applicazione concreta è stata però nell’art. 130R4 dell’Atto Unico del 1986 in materia di ambiente, poi abrogato in conseguenza della generalizzazione operata dal Trattato di Maastricht.
Nonostante che dunque il principio fosse stato presentato all’attenzione dei politici europei già da tempo, e spesso con relazioni di pregevole fattura, così come nel caso italiano, anche in questo ambito esso è stato a lungo disatteso, soprattutto in ragione di alcuni contrasti interpretativi che si ritengono significativi anche al fine di definire adeguatamente il suo rapporto con il concetto di decentramento. Già al primo livello di significato (quello cioè di sussidiarietà verticale) esistono interpretazioni contrapposte. Secondo alcuni (i fautori di una tesi estensiva) la sussidiarietà incrementerebbe le competenze comunitarie, dunque, in ultima istanza, implementarne lo sviluppo significherebbe anche esercitare un più pervasivo controllo sugli Stati membri ed accrescere i propri organici ed il proprio potere.
Secondo altri, fautori invece di una tesi riduttiva, ne limiterebbe, al contrario, l’espansione. Questa è la concezione sviluppata da coloro ai quali preme soprattutto assicurare che i margini di indipendenza dei singoli Stati continuino a trovare una piena e completa garanzia[18].
L’ambivalenza del principio (apparentemente idoneo a giustificare contemporaneamente spinte centrifughe e centripete) può essere però parzialmente risolta distinguendo il piano normativo da quello amministrativo: mentre sul piano normativo l’Unione europea ha una capacità pratica d’intervento non inferiore a quella degli Stati membri, non dispone invece di un apparato amministrativo paragonabile a quelli nazionali[19].
6. Il lungo percorso delle politiche locali
Il quadro storico ed interpretativo delineato lascia aperti numerosi interrogativi. Le linee di sviluppo delle autonomie locali continuano ad oscillare tra il perseguimento della sussidiarietà e, viceversa, il mantenimento di una logica accentratrice nelle materie di maggiore rilevanza.
Il cammino delle autonomie locali, all’indomani della riforma costituzionale del 2001 e del successivo dibattito instauratosi a livello politico non si è interrotto, ma, al contrario, ha trovato nuova linfa vitale. Tuttavia, è concorde in ciò il giudizio degli addetti ai lavori, il buon esito di questo sarà garantito esclusivamente dal sereno dibattito politico e, non meno importante, dall’assicurazione di un pacifico confronto tra le esigenze nazionali ed europee in ordine ad un tema che oggi, più che mai, interessa e coinvolge da vicino l’intera popolazione.
[1] Si veda in merito Cassese S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2004, pag. 70 ss., il quale, nel collocare, appunto giuridicamente, il concetto di decentramento, opera una distinzione importante, sostenendo che: “Dall’autonomia politico-amministrativa si distinguono l’autogoverno, il decentramento e la deconcentrazione. Il primo si ha quando un ente, nel proprio ambito territoriale, viene dotato, oltre che di autonomia, anche di tutte le funzioni pubbliche, ad eccezione di quelle concernenti la difesa e i rapporti con l’estero (si tratta, tuttavia, di un modello ormai superato, la cui realizzazione storica si è avuta in Gran Bretagna fino agli anni Trenta del secolo scorso). Il secondo consiste nella devoluzione di funzioni da uffici centrali a uffici locali, che le esercitano sotto il controllo della rispettiva collettività e non più del centro (è quanto si è verificato, ad esempio, con i decentramenti operati con il D.P.R. 616/1977 e con la L. 59/1997). Con la terza si realizza un trasferimento di funzioni da uffici centrali ad uffici periferici, che dipendono sempre dall’amministrazione statale (come è avvenuto al momento dell’istituzione dei provveditorati agli studi)”.
[2] La nozione di autarchia, riferita in particolare al complesso degli enti che nacquero e si svilupparono durante il periodo fascista, è dovuta ad un noto giurista dell’epoca, successivamente chiamato a presiedere il Consiglio di Stato: Santi Romano. L’autore, riferendo le proprie riflessioni indistintamente agli enti pubblici facenti parte del “parastato” ed agli Enti locali, con il concetto di autarchia riconduceva entrambe sotto l’egidia del potere statalista centrale. Esse non erano cioè titolari di poteri e funzioni preesistenti allo Stato ma, al contrario, da questo ne ricevevano legittimazione. Condotto alle estreme conseguenze il ragionamento portava a sostenere che la partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini non dovesse necessariamente avvenire attraverso l’elezione dei propri rappresentanti a livello locale. Fu dunque usato per sostenere le riforme fasciste che eliminarono il concetto di rappresentatività a livello locale.
[3] La riforma prevedeva anche che i prefetti mantenessero la direzione delle Regioni, ma venissero affiancati da consigli regionali eletti direttamente, composti da tutti i deputati e senatori eletti nelle circoscrizioni comprese nel territorio regionale e da un numero equivalente di amministratori locali, sindaci o consiglieri generali di dipartimento.
[4] Cfr. Baldi D., Stato e territorio – federalismo e decentramento nelle democrazie contemporanee, Bari, 2003, pag. 12: “…diviene necessario l’aumento della consistenza finanziaria dei bilanci regionali e del relativo potere di spesa allo scopo di facilitare gli investimenti nelle infrastrutture del territorio e l’erogazione di aiuti economici alle imprese in difficoltà. La congiuntura economica apre cioè alle Regioni uno spazio importante nelle politiche di sostengo dell’occupazione e dello sviluppo territoriale”.
[5] Numerosi autori tuttavia sottolineano come questa affermazione possa essere in parte ridimensionata se si osserva all’anomalia costituzionale che contraddistingue lo Stato francese, e che viene rappresentata dalla composizione del Senato che, come previsto dall’articolo 24 della costituzione francese, assicura la rappresentanza degli enti territoriali. Il senato francese viene eletto a suffragio indiretto da un collegio elettorale formato dai deputati eletti nelle circoscrizioni dipartimentali e dai membri dei consigli degli enti territoriali, ovvero dei Dipartimenti, dei Comuni, dei Territori d’Oltremare e, a seguito della riforma di Mitterand, delle Regioni. Il senato consente dunque la rappresentanza e la partecipazione dei governi periferici alla decisione nazionale, sebbene esso possieda minori poteri rispetto alla camera bassa, ossia l’Assemblea nazionale. Opera piuttosto come punto di raccordo tra il potere centrale dello stato e quello periferico e rappresenta un vincolo, seppure solo parziale, nei confronti di un’azione del centro volta solo ed esclusivamente alla tutela dei propri interessi a scapito di quelli territoriali. Si tratta quindi di un Senato di ispirazione federale, sebbene, a differenza di quanto accade nelle federazioni, esso non garantisca la rappresentanza a ciascuna entità territoriale.
[6] V. Baldi D., Stato e territorio – federalismo e decentramento nelle democrazie contemporanee, Bari, 2003, pag. 17: “Lo Stato britannico si forma attraverso processi di unione di territori dotati di identità e istituzioni politiche proprie, da cui deriva un assetto che si caratterizza per l’esistenza, da un lato, di nazionalismi periferici, espressione di un processo di nation building incompleto; dall’altro, di asimmetrie istituzionali, intese come l’attribuzione di status giuridici differenziati a determinate Regioni in virtù della loro riconosciuta diversità storica e culturale”.
[7] Proprio il termine “federalismo”, fino a quel momento sconosciuto, viene coniato come neologismo nel corso dei lavori della Convenzione di Filadelfia per esprimere l’innovatività del disegno istituzionale che si andava prospettando e che rappresentava il superamento dell’assetto confederale scelto dalle tredici ex colonie britanniche nel 1776. Il termine trova una propria derivazione dal latino, dove il sostantivo foedus significa appunto patto o convenzione e il verbo foedero unire con patto.
[8] Peraltro non sono infrequenti i casi in cui le agenzie acquisiscono maggiore peso e rilievo, anche sul piano internazionale, rispetto ai propri centri di riferimento. Il caso più emblematico, ma non è il solo, è quello del Federal Bureau of Investigation, che, pur facendo parte della strutturazione del Dipartimento di giustizia, in realtà esercita funzioni ben più importanti di quella, al punto che i vertici di quello sono in diretto contatto con la presidenza.
[9] In proposito illuminanti sono le riflessioni di Violini L., Spunti di riflessione sui processi di riforma delle strutture di governo nell’ottica della devolution e della sussidiarietà, in Sussidiarietà e decentramento – approfondimenti sulle esperienze europee e sulle politiche regionali in Italia, Milano, 2000, pag. 12: “…i molti tentativi fin qui compiuti di modificare le dinamiche stataliste e centraliste che hanno dominato le politiche degli scorsi decenni si sono scontrati con la necessità di porre in essere un paziente lavoro di scardinamento delle logiche preesistenti, logiche – tra l’altro – straordinariamente persistenti, solo che si pensi al fatto che la stessa riorganizzazione del più recente e più nuovo livello di governo, quello europeo, non manca di suscitare oramai quasi scontate critiche di neostatalismo e di forte burocratizzazione”.
[10] V. Violini L., Spunti di riflessione sui processi di riforma delle strutture di governo nell’ottica della devolution e della sussidiarietà, in Sussidiarietà e decentramento – approfondimenti sulle esperienze europee e sulle politiche regionali in Italia, Milano, 2000, pag. 16: “Statalismo di ritorno ma anche centralismo regionale sono ostacoli pressocchè ineludibili di un cammino riformatore che pure deve fare il suo corso pena la destrutturazione dell’esistente senza una contestuale costruzione di plausibili e praticabili alternative”.
[11] Sono significative le indicazioni e gli spunti di riflessione che offre Antonini L., Il principio di sussidiarietà orizzontale: a welfare state, a welfare society, in Rivista di diritto finanziario, 2000, I, pag. 104: “Quanto fin qui detto non toglie la prudenza che occorre avere nel seguire la via della sussidiarietà anche orizzontale, sia in relazione al problema della garanzia di condizioni d’eguaglianza, sia in ordine alla differente distribuzione sul territorio nazionale di soggetti (forse pochi) in grado di assumere le relative responsabilità sociali gravanti su di loro in quanto classi sociali (e dunque sottoposte alle garanzie propriedell’uguaglianza). Si tratta però di rischi che è opportuno correre, evitando che un velato pessimismo impedisca alla fine di riconoscere che, come ricorda un antico adagio germanico, “l’uomo è più vecchio dello Stato”.
[12] V. De Tocqueville A., De la Démocratie in Amérique, Paris, 1963, pagg. 29 ss., ma anche Montesquieu, Esprit des lois, Parigi, 1856, VIII, nella sua descrizione del despota rimarca, più del fatto che questi è arbitrario e crudele, la circostanza che è irrispettoso delle autonomie e usurpatore delle iniziative
[13] Grande merito, a questo proposito, va a Keller E., definito da Leone XIII come il "suo precursore", che enuncierà per la prima volta il "diritto alla sussidiarietà" a proposito dell’istanza statale.
[14] Nota Antonini L., Il principio di sussidiarietà orizzontale: a welfare state, a welfare society, in Rivista di diritto finanziario, 2000, I, pag. 102, che: “La prima enunciazione avvenne nella Enciclica Quadragesimo anno nella quale Pio XI, in reazione alle pretese egemoniche del Fascismo, propose la seguente formulazione: "Siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e con l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare". "Ne deriverebbe" – continua Papa Ratti – "un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società… poiché oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare inmanierasuppletiva ( subsidium afferre) le assemblee del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle.”
[15] Per la precisione la disposizione recita che: "Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possano dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario". Viene accolto, inoltre, il principio della proporzionalità dell’azione comunitaria, per il quale: "L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato"
[16] Sono invece competenze assolute della Comunità quelle, ad esempio, in materia di politica monetaria. Esistono poi competenze che richiedono interventi integrativi degli Stati (ad esempio quelle in materie di politiche di coesione economica). Al riguardo si veda soprattutto Vandelli G., Il principio di sussidiarietà nel riparto di competenze tra diversi livelli territoriali: a proposito dell’art. 3b del Trattato sull’Unione europea, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario., 1993, pagg. 386 ss.; Dickmann R., Sussidiarietà, sovranità e regionalismo: il ruolo delle assemblee parlamentari, in Diritto societario., 1994, pagg. 294 ss.
[17] V. D’Acunto A.- Cantadori A., La sussidiarietà, principio guida delle future responsabilità in materia di politica comunitaria, in Nuova rassegna, 1992, pagg. 2143 ss.
[18] Per approfondimenti sulla materia si veda Cassese S., Lo spazio giuridico globale, Roma, 2005, nel quale si prospetta un’evoluzione futura in cui gli Stati delegheranno la gran parte delle proprie funzioni ad ordinamenti sovraordinati rispetto a quelli statali e diventeranno parte di un meccanismo complesso di esercizio delle funzioni basato sul rispetto dei principi e delle regole.
[19] Ne da conto in particolare Cassese S., L’aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi nell’area europea, in Giornale di diritto amministrativo, 1999, pagg. 374 ss.Ma sulla questione (con riferimento al Trattato di Maastrict) torna a soffermarsi anche Antonini L., Il principio di sussidiarietà orizzontale: a welfare state, a welfare society, in Rivista di diritto finanziario, 2000, I, pag. 101:”Sebbene anche con questa precisazione il problema del destino della sussidiarietà rimanga ancora aperto, in questa sede ci si può limitare a quanto detto, giacché interessa maggiormente soffermarsi intorno all’opinione che ritiene accolta in Maastricht solo l’accezione verticale del principio. La questione, infatti, è meno netta di quanto non sembri, risultando interrogata dalle seguenti espressioni contenute nel Preambolo del Trattato: Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli di Europa, in cui le decisioni siano prese il più possibile vicino ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà…La frase Il più possibile vicino ai cittadini, con la specificazione conformemente al principio di sussidiarietà può avere diversi significati: occorre, infatti, chiedersi cosa significhi la vicinanza ai cittadini se riferita alle decisioni politiche. Evidentemente non si tratta semplicemente di una vicinanza sentimentale, emotiva, geografica o anche solo di interesse, posto che la decisione pubblica per definizione è nell’interesse dell’amministrato. Si può ritenere quindi che le espressioni del Preambolo possano volere evocare il carattere suppletivo ed ausiliario dell’intervento pubblico nella regolamentazione delle relazioni interpersonali. Se con due contrapposte metafore potremmo distinguere tra assorbire e aiutare, la conformità al principio di sussidiarietà sirealizzerebbe, pertanto, nell’aiutare e non nell’assorbire. Peraltro questa interpretazione delle intenzioni del Trattato potrebbe forse apparire forzata. Non sembra ragionevole tuttavia ritenere improbabile che l’insostenibilità della condizione risultante dall’assorbire sia emersa ad evidenza nell’ambito della storia europea, al punto che il Preambolo dell’Unione abbia voluto affermare il carattere suppletivo e ausiliario del diritto legale rispetto alle autoregolamentazioni della società civile, rivalutando nel contempo la dignità personale dei singoli e la dignità istituzionale dello Stato, che, liberato dalle funzioni minori e paternalistiche, potrebbe far fronte più convenientemente ai suoi compiti specifici di direzione, sostegno e controllo – sui quali peraltro oggi pendono gravi accuse di lati. Inoltre, nel documento Definition et limites du principe de subsidiarieté pubblicato nel 1994 dal Consiglio d’Europa si sottolineano quali implicazioni del principio di sussidiarietà liberté, diversité, responsabilité, stabilendo nessi con il principio di solidarietà utili a confermare come la valenza solo istituzionale (o verticale) di questo nuovo principio cardine dell’Unione europea non sia affatto scontata come alcuni autori avrebbero sostenuto nelle loro riflessioni interpretative. Ma anche a non condividere questa interpretazione, forse ottimistica, delle intenzioni del Trattato, in ogni caso rimane il fatto che il principio di sussidiarietà è stato previsto positivamente nell’ordinamento costituzionale europeo e questo rappresenta un fatto culturale importante in un contesto che è stato la roccaforte dell’ideologia giacobina. Inoltre, come recentemente ricordato da Velo, a fronte di un modello neo-federalista di derivazione calvinista che si è affermato negli Usa, la tradizione europea – lo si espliciterà di seguito – potrebbe ritrovare tutta se stessa nel principio di sussidiarietà orizzontale, che riafferma i valori di universalità e di solidarietà che sono propri della tradizione cattolica e che rimangono invece penalizzati nel modello neo-federalista americano”.
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