Riepilogo (ed epilogo) delle principali pronunce sulla prova del danno da demansionamento.

Mannino Andrea 09/11/06
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Recentemente[1] la Cassazione è intervenuta a Sezioni Unite per dirimere un contrasto tra tre principale filoni interpretativi in tema di prova del danno da demansionamento.
Naturalmente la prova del danno da demansionamento è da tenere ben distinta dalla prova del demansionamento. Su quest’ultimo punto, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 6572/2006 conferma la tesi maggioritaria in dottrina ed in giurisprudenza, che configura il demansionamento come inadempimento contrattuale, e pone a carico del datore di lavoro, ex art. 1218 cod. civ., una presunzione di colpevolezza.
La sent. 6572/2006 conferma peraltro che la dequalificazione è potenzialmente fonte di quattro voci distinte di danno: danno biologico, danno morale, danno professionale nelle due accezioni di danno alla professionalità e di danno da perdita di chances e danno esistenziale.
I tre indirizzi giurisprudenziali, su cui la Corte di Cassazione è stata chiamata a risolvere il contrasto, possono essere così brevemente riassunti:
 
1)            – IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO NON NECESSITA DI PROVA
 
Secondo tale orientamento, dominante in dottrina e in giurisprudenza, la dequalificazione costituisce un danno di per sé (c.d. in re ipsa). Il giudice, quindi, al riscontro della mera dequalificazione deve liquidare il conseguente danno, anche in via equitativa. Tra le sentenze che hanno aderito a tale orientamento si ricordano:
                Cass. n. 10157 del 25/6/2004;                       – Cass. n. 10 del 2/1/2002;                
                Cass. n. 7980 del 27/4/2004;                         – Cass. n. 7967 del 1/6/2002;            
                Cass. n. 8721 del 29/4/2003;                         – Cass. n. 13033 del 23/101/2001;
                Cass. n. 12553 del 27/8/2003;                       – Cass. n. 14443 del 6/11/2000;
                Cass. n. 2763 del 22/2/2003;                                     – Cass. n. 11727 del 18/10/1999;
 
2)            – IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO DEVE ESSERE PROVATO DAL LAVORATORE (prova rigida del danno)
 
Tale secondo orientamento richiede al lavoratore un onere probatorio specifico in tema di danno da demansionamento. La Cassazione, con la sentenza n. 26666 del 6/12/2005, afferma: “E’ necessario che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno in concreto scaturito. La prova può essere fornita anche ex art. 2729 cod. civ. attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti (…) Corollario di quanto ora detto è che grava sul lavoratore l’onere di fornire l’indicazione del tipo di danno subito, restando in ogni caso affidato al giudice di merito il compito di verificare volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista.” La sent. n. 6992 del 15/5/2002 afferma che per il danno da demansionamento “il risarcimento spetta quando sia provata non solo l’attività illecita ma anche l’oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l’inflizione di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest’ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita.” Tra le sentenze che hanno aderito a tale orientamento vedasi:
                Cass. n. 26666 del 6/12/2005;
                Cass. n. 8904 del 4/6/2003;
                Cass. n. 6992 del 14/5/2002;
 
3)            – L’ORIENTAMENTO INTERMEDIO
Tra i due orientamenti sopra delineati si pone un terzo, intermedio, che propende per l’obbligo a carico del lavoratore di provare il danno alla professionalità – residualmente ed in forma attenuata – tramite presunzioni ex art. 2729 cod. civ., desumibili intrinsecamente dal magistrato per effetto dell’entità, gravità durata del demansionamento nonché dipendenti dal grado di dislivello intercorrente fra le mansioni a quo e quelle dequalificate ad quem in cui si è confinati, valorizzando altresì, ai fini del quantum per la liquidazione equitativa, un’indagine sull’intenzionalità vessatoria ed emarginazione rivelata dal comportamento dell’azienda.
Afferma la Cassazione:”Non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria tramite l’irriducibilità della retribuzione, la norma codicistica dell’art. 2103. Invero, non ogni modifica delle mansioni in senso riduttivo comporta di per sé una dequalificazione professionale, poiché questa fattispecie si connota, per sua natura, con un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione – non transeunte – della sua professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta tecnologia, ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno.
Trattandosi di danno ulteriore, spetta al lavoratore l’onere di fornirne la prova, mentre resta al giudice di merito – le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità – il compito di verificare di volta in volta se, in concreto,il suddetto danno sussiste, individuarne la specie e determinarne l’ammontare, eventualmente procedendo ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche presuntiva
Aderiscono a tale indirizzo interpretativo:
    Cass., 14.5.2002, n. 6992
    Cass., 2.11.2001, n. 13580
    Cass., 14.11.2001, n. 14199
 
LE SEZIONI UNITE RISOLVONO IL CONTRASTO:LA SENTENZA N. 6575 DEL 24/3/2006
Con la sentenza in oggetto, le Sezioni Unite, risolvono il contrasto giurisprudenziale accolgliendo il secondo degli indirizzi sopraccitati, e quindi ponendo a carico del lavoratore la prova diabolica dell’impoverimento professionale, ovvero il mancato sviluppo delle cognizioni da inesercizio d’attività, nonché la prova del danno all’immagine ed al prestigio, rifluenti in danno all’identità personale e in danno esistenziale (modificazione peggiorativa delle abitudini di vita).
Affermano le Sezioni Unite: “[Del danno] va data la prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore. (…). Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, poiché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente ha inciso in senso negativo nella sfera soggettiva del lavoratore, alterandone gli equilibri e le abitudini di vita.
L’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione : dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene a un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non regolato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva per la formazione del suo convincimento, purchè, secondo le regole di cui all’art. 2727 cod. civ., venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano.
 
Evidenti sono le critiche che possono farsi a questa sentenza. Per dirla con Meucci, si tratta di ”una decisione sorda e regressiva; le Sezioni Unite hanno aderito a quest’orientamento minoritario e formalistico, non facendosi carico delle esigenze di giustizia sostanziale e non tenendo in alcun conto dell’orientamento prevalente”(MEUCCI, La prova del danno da demansionamento: un epilogo apparente, in D&L, 2006, p. 381).   
 
Dott. ManninoAndrea
Studio Legale Greco avv. Lino
mannino.andrea@fastwebnet.it


[1] Corte di Cassazione sez. un. 24 marzo 2006 n. 6572, Pres. Carbone, est. La terza.

Mannino Andrea

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