Qualificazione giuridica del consenso
Ciascun uomo è titolare di diritti fondamentali e inviolabili, riconosciuti e garantiti dallo Stato. Per questa ragione, qualsiasi azione che non rispetta l’inviolabilità della persona, è da considerare azione illecita, non tollerata dalle leggi.
L’art. 5 del cc è il presidio civilistico alla tutela dell’integrità fisica; con esso il legislatore ha sottolineato che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume”. Da esso si evince la volontà del legislatore di tutelare il bene primario dell’integrità psico-fisica.
Conferma della natura primaria di tale bene ci è data dall’art. 32 della Carta Costituzionale, nel quale è sancito il principio secondo cui “ la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”. Sennonché è oggettivamente impossibile curare un malato senza violarne l’integrità psicofisica; a legittimare la liceità dell’attività medica è il consenso del paziente, ovvero la scriminante del consenso dell’avente diritto ex art. 50 cp.(1).
Alla luce dell’art. 2 cost. emerge la necessità di una valutazione in termini di bilanciamento di interessi che verrà effettuato, caso per caso, dal giudice, tra gli atti di disposizione del proprio corpo e la tutela della persona in tutte le sue manifestazioni.
Dall’analisi estensiva dell’art. 21 cost. (il diritto all’informazione nella sua duplice natura di diritto di informare ed essere informati) emerge un’esigenza informativa: il diritto ad essere informati diventa un obbligo (costituzionale) a carico di certi soggetti nell’ottica della tutela della persona, come valore assoluto.
Caratteri tipizzanti del consenso
Regola giurisprudenziale imprescindibile è quella del consenso libero, cosciente ed informato del paziente che si sottopone ad interventi (terapeutici, estetici, sperimentali) invasivi della propria sfera giuridica soggettiva.
Si discute in dottrina sulla natura giuridica da attribuire al consenso: da un lato ci sono i sostenitori della tesi che ritiene il consenso una manifestazione negoziale di volontà (negozio unilaterale ovvero contratto d’opera professionale); dall’altro lato coloro che ribadiscono come il consenso non sia altro che un atto giuridico in senso stretto con valore autorizzatorio. La prima tesi è criticata perché si attribuisce al consenso un valore patrimoniale; in realtà oggetto del consenso è una scelta autodeterminativa dell’individuo che non può avere tale natura.
Il consenso è visto come un atto avente funzione autorizzatrice dell’invasione altrui nella propria sfera giuridica, e giustificatrice di eventi lesivi.
Ulteriore questione dibattuta riguarda la revocabilità del consensi. Da un lato si afferma che il consenso sia sempre revocabile; se, tuttavia, lo consideriamo un atto negoziale, esso avrà natura recettizia e sarà revocabile, secondo le regole ordinarie (art. 1328 ult. co), fin tanto che non sia giunto al destinatario. Alcuni interpreti sostengono la nullità delle clausole volte a limitare la revoca del consenso.
Per essere efficace il consenso all’attività medica deve essere prestato da soggetto capace di intendere e di volere. Per il soggetto incapace, ovviamente il consenso dovrà essere prestato da chi ne ha la rappresentanza legale.
Il consenso inoltre per essere efficace deve essere immune dai vizi della volontà tipici di qualsiasi negozio giuridico: errore, dolo e violenza.
La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente).Naturalmente la forma scritta resta quella preferibile, in quanto facilita enormemente il problema della prova del consenso.
Il consenso riveste un ruolo chiave in numerose disposizioni normative, tra le quali l’art. 4 L. 26.6.67 n. 458 (trapianto del rene tra viventi), l’art. 14 L. 22.5.78 n. 194 (interruzione volontaria della gravidanza), art. 33 1^ e 5^ c. L. 23.12.78 n. 833 (istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), art. 2 L. 14.4.82 n. 164 (rettificazione in materia di attribuzione di sesso) e più recentemente nell’art. 5, 3^ e 4^ c. L. 5.6.90 n. 135 (prevenzione e lotta contro l’AIDS) e artt. 29 e 34 Codice Deontologico della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri approvato il 25.6.95 ed altre.
Fino a qualche anno fa si riteneva che l’obbligo di informare il paziente sussistesse solo nei casi in cui venisse posto in serio pericolo la vita o l’incolumità fisica del paziente.
Oggi, invece, la giurisprudenza afferma espressamente che l’obbligo in questione sussiste non solo in relazione alla necessità di intraprendere interventi devastanti o complessi, ma sussiste in relazione ad ogni attività medica che possa comportare un qualche rischio: quindi il medico ha l’obbligo di informare il paziente sia quando intende compiere attività chirurgica; sia quando intende compiere esami diagnostici o strumentali.
Il fine dell’obbligo di informazione è infatti quello di mettere il paziente nella condizione di valutare serenamente e consapevolmente se sottoporsi o meno al trattamento, e tale fine non potrebbe essere utilmente perseguito se al paziente fosse sottaciuta una qualsivoglia circostanza rilevante in merito all’intervento.
Il consenso, infine, deve essere continuato. Esso non può essere prestato una tantum all’inizio della cura, ma va richiesto e riformulato per ogni singolo atto terapeutico o diagnostico, il quale sia suscettibile di cagionare autonomi rischi.
Il paziente deve essere “informato”, in modo completo e preciso, del suo stato di salute, del ventaglio di possibilità degli interventi, offerte dalla scienza medica, e degli eventuali rischi. Si tratta, cioè, di porre il paziente in grado di prestare il cosiddetto “consenso informato”.
La Corte Suprema di Cassazione (2) non perde occasione per ribadire questi concetti; di recente ha stabilito che l’obbligo d’informazione riguarda anche i rischi specifici delle singole fasi del trattamento sanitario; “il medico deve informare il paziente dei possibili benefici del trattamento, delle modalità d’intervento, dell’eventuale possibilità di scelta fra cure diverse o diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili di complicanze in sede postoperatoria”.
Il medico è tenuto a comunicare al paziente anche l’esito delle indagini (per esempio, dell’ecografia), poiché tale informazione è una caratteristica essenziale della prestazione sanitaria (3); il chirurgo estetico deve informare il paziente non solo e non tanto dei rischi in genere dell’intervento programmato, ma anche delle concrete possibilità di conseguire il risultato sperato (4).
Occorre il consenso informato anche per le trasfusioni di sangue, di emocomponenti e di emoderivati, poiché tale pratica terapeutica non è esente da rischi(5); per converso, occorre il consenso informato anche per il prelievo ematico, che non può essere imposto(6).
La Corte di Cassazione è stata chiarissima con una sentenza–modello, poi confermata da tutte le pronunzie successive: la n. 10014 della III Sezione Civile della Suprema Corte, del 25 novembre 1994; “nel contratto di prestazione d’opera intellettuale tra il chirurgo ed il paziente, il professionista anche quando l’oggetto della sua prestazione sia solo di mezzi, e non di risultato, ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell’intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, sia perchè violerebbe, in mancanza, il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.) sia perchè tale informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32 comma 2 della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall’art. 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall’art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.)”.
Coloro che sostengono la tesi della natura negoziale del consenso ne sottolineano il ruolo di elemento essenziale del contratto medesimo; il consenso, non preceduto dalla corretta e chiara informazione medica, non è da considerare valido, facendo venir meno l’elemento fondamentale dell’accordo di cui all’art. 1325 n. 1 c.c.
Dal consenso non informato o dal deficit del consenso scaturiscono conseguenze invalidanti il contratto che differiscono a seconda dell’impostazione giuridica che si segue per la definizione della relativa problematica.
Se da esso consegue la mancanza dell’accordo, quale elemento essenziale del negozio giuridico, il contratto è nullo ex art. 1418 c.c.; se, invece, si ammette la sussistenza dell’accordo, fondato sul consenso “dato per errore” o “carpito con dolo”, il contratto è annullabile ex art. 1427 c.c.
Casi particolari di applicazione del consenso
La regola del consenso è di difficile, se non impossibile, applicazione in almeno tre casi:
a) quando il paziente è minore d’età;
b) quando il paziente, per malattia mentale, è incapace di ricevere l’informazione e di esprimere un valido consenso;
c) quando il paziente, pur essendo un soggetto capace, versa in una situazione tale da non poter essere interpellato (così avviene, per esempio, nelle situazioni di emergenza in pronto soccorso).
Nel primo caso, fermo restante il principio generale per il quale, il consenso ai trattamenti sanitari dev’essere espresso dal diretto interessato (il diritto alla salute è personalissimo e la sua tutela non può essere affidata ad altri), esso va richiesto a chi esercita la patria potestà. Se però il paziente, malgrado l’età minore, possiede capacità critiche e volitive allo stesso modo di un adulto, è necessario il suo consenso e, se tale consenso contrasta con la volontà dei genitori, prevale la volontà del paziente, previo parere del Giudice tutelare.
Nel secondo caso ossia nel caso di malattia mentale la quale richiede un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi della legge 13 maggio 1978 n. 180, il medico può procedere senz’altro alla terapia, con il consenso del tutore (se c’è), ma deve “svolgere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato”.
Quanto, infine, al terzo caso, ossia quando il paziente non è in grado di esprimere il consenso perché versa in una situazione di emergenza, indipendentemente dalla volontà dei parenti, il medico può agire, perché giustificato dallo stato di necessità delineato dall’articolo 54 cp, per il quale l’agente commette il fatto (lesioni personali, ovvero provocata incapacità) per esservi stato costretto dalla necessità di salvare una persona dal pericolo attuale di un danno grave; pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, e sempre che il fatto sia proporzionale al pericolo, e cioè che la cura sia adeguata.
Deficit informativo: che tipo di responsabilità?
Il deficit informativo è, concordemente, ritenuto fonte del risarcimento del danno in quanto il soggetto è leso nella libertà di autodeterminazione delle proprie scelte esistenziali.
La Corte di legittimità(7), in un caso relativo all’intervento di chirurgia estetica, ha ritenuto che l’inadempimento del dovere di informazione è causa della responsabilità contrattuale; sorge, accanto a quest’ultima, la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., qualora si verificano danni psicofisici, conseguenti al trattamento o intervento chirurgico, eseguiti senza informare il paziente.
Secondo la Corte Suprema, quindi, rientrano nella sfera di responsabilità del medico i rischi, connessi ai trattamenti medici o alle relative modalità, che non siano stati preventivamente “comunicati” al paziente. Quest’ultimo, in virtù della corretta informazione sui rischi concreti, è messo nelle condizioni di scegliere; la scelta consapevole e “informata” del paziente libererebbe a priori il medico da responsabilità, salvo riscontrare errori o colpa nella esecuzione degli interventi richiesti.
Si badi, poi, che l’obbligo di ottenere il consenso informato del paziente è del tutto autonomo rispetto alla riuscita del trattamento sanitario, e perciò il medico, che abbia omesso di raccogliere il consenso informato, incorre in responsabilità anche se la prestazione sanitaria viene eseguita in concreto senza errori(8).
La posizione della giurisprudenza si spiega considerando che un intervento invasivo produce sempre delle lesioni al paziente; se l’informativa è deficitaria o incompleta manca il consenso: le lesioni non sono autorizzate.
Anche nell’ipotesi di esito positivo dell’intervento possono insorgere, successivamente ad esso, conseguenze che incidono sull’integrità psico-fisica del paziente: anch’esse devono essere oggetto di adeguata informativa.
L’onere della prova del mancato assolvimento dell’obbligo di informazione completa ricade sul paziente.
Chiarissima la Suprema Cortein tal senso (9): “Incombe sul paziente, che agisca in giudizio per ottenere l’affermazione di responsabilità del chirurgo, l’onere della prova del mancato assolvimento del dovere di informazione da parte del professionista, ovvero che oggetto del contratto sia un determinato risultato”.
(1) Cfr MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, 2001, 286, 364; BARBUTO, Alcune considerazioni in tema di consenso dell’avente diritto e trattamento medico chirurgico, in Cass. pen., 327, 2002; RIZ, Il consenso dell’avente diritto, CEDAM, 1979, 301; PEDRAZZI, Consenso dell’avente diritto, in Enc. dir., IX, Giuffrè, 1961, 144; NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, 1947, 673.
(2) Corte di Cassazione sentenza n. 9705 del 6 ottobre 1997
(3) Corte di Cassazione sentenza n. 3599 del 18 aprile 1997
(4) Corte di Cassazione sentenza, 8 agosto 1985, n. 4394, e sentenza 25 novembre 1994, n. 10014
(5) Articolo 19 del D.M. 15 gennaio 1991
(6) Corte Costituzionale sentenza n° 238 del 9 luglio 1996
(7) Corte di Cassazione, Sez. III 6 ottobre 1997
(8) Corte di Cassazione, 8 luglio 1994, n. 6464
(9) La già richiamata Corte di Cassazione, sentenza n. 10014 del 25.11.94
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