(Relazione tenuta al convegno “La prevenzione del bullismo nelle scuole”,
organizzato dal Tribunale dei Diritti del Malato di Casarano (LE), con il contributo del Comune di Casarano, tenutosi a Casarano il 27 maggio 2006.)
Le cronache quotidiane e la diretta esperienza degli adulti che vivono a contatto con i bambini e ne hanno la responsabilità educativa registrano sempre più spesso quanto sia diffuso il fenomeno della piccola cattiveria tra bambini, che come tale è sempre esistito, ma ultimamente sembra conoscere un’esacerbazione, passando sempre più spesso dalle semplici e banali manifestazioni del dispetto fra coetanei ad episodi di aperta e incontrollata espressione di aggressività e crudeltà, e non solo nella strada o nei luoghi di svago, ma principalmente all’interno di istituzioni educative come, e in particolar modo, la scuola.
La scuola è il luogo in cui il bambino/ragazzo esercita il proprio diritto-dovere di ricevere un’adeguata istruzione che lo aiuti ad affacciarsi nel mondo del lavoro, ma è sicuramente anche il luogo nel quale il bambino diventa adulto, sviluppa la propria individualità, e impara a relazionarsi con gli altri.
Parlare di bullismo e, soprattutto, constatare che è diventato un fenomeno di una portata a tal punto allarmante, pone interrogativi di ogni genere che non ricercano risposte solo ed esclusivamente sul piano psicologico e sociale, ma richiedono e necessitano di risposte anche sul piano giuridico.
Bullismo è fare del male deliberatamente, minacciare, intimorire qualcuno con parole o azioni di una o più persone, e più o meno gravemente; è un problema non solo per la vittima, ma anche per tutti coloro che sanno che questi comportamenti avvengono all’interno di una scuola e vi assistono.
Negli ultimi tempi si è accostato il fenomeno del “bullismo” a quello del “mobbing”, per i risvolti psicologi che entrambi provocano sulla vittima, ma diversamente dal fenomeno del “bullismo”, che si sviluppa principalmente nelle scuole e per le strade, i casi di “mobbing” avvengono nelle diverse formazioni sociali: sul posto di lavoro, all’interno della famiglia ed anche nella scuola.
Il bullismo si esprime in due forme: diretto e indiretto.
Diretto: con pugni, schiaffi, dispetti di ogni genere e avviene per lo più negli uomini e fra gli uomini.
Indiretto: con l’isolamento sociale ed esclusione dal gruppo, con sguardi maliziosi, maldicenze e avviene statisticamente di più fra le donne e nelle donne.
La vittima è in genere un bambino o una bambina ansioso/a, debole, introverso/a, qualche volta presi in giro per il loro aspetto. Le cause possono essere molteplici, ma in genere, e soprattutto nei ragazzi, il bullismo è determinato probabilmente dalla forza fisica e, nell’età adulta, "prosegue" con l’umiliazione e la manifestazione del potere.
A ragione di ciò si parla oggi di bullismo come di mobbing in età evolutiva.
Psicologicamente parlando i due fenomeni presentano caratteristiche e obiettivi molto simili, pur avvenendo, ovviamente, in contesti completamente diversi e presentando forti differenze sul piano giuridico.
Il termine mobbing designa una condizione di esercizio di potere scorretto, vessatorio, persecutorio da parte di datori di lavoro (mobbing verticale o bossing), oppure un comportamento scorretto e persecutorio da parte di colleghi di lavoro (mobbing orizzontale), ipotesi che si può sviluppare anche ad opera di un gruppo di soggetti che svolgono mansioni inferiori rispetto al mobbizzato (mobbing ascendente).
Le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono diverse e vanno dall’emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla persecuzione sistematica, dalla dequalificazione professionale alle ritorsioni sulle possibilità di carriera, al fine di metterlo in difficoltà.
Negli ultimi anni, a seguito degli interventi della contrattazione collettiva, soprattutto nel lavoro pubblico, si è pervenuti a definizioni più puntuali e specifiche del mobbing, che è stato quindi definito come una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie, tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o addirittura tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento.
Dalle condotte di mobbing derivano delle responsabilità, sia in capo ai soggetti che materialmente pongono in essere tali comportamenti, sia in capo al datore di lavoro. I primi ne rispondono ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), il secondo ai sensi dell’art. 2087 c.c. (responsabilità contrattuale): quest’ultima norma impone al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.
Da tali condotte derivano anche dei danni:
– il danno morale, inteso quale complesso di sofferenze fisiche o morali derivanti al danneggiato dall’illecito, ovvero il pretium doloris, disciplinato dall’art. 2059 c.c. che ne limita la risarcibilità nei soli casi previsti dalla legge;
– il danno biologico, riconosciuto dalla Corte Costituzionale come danno riguardante la salute in sé considerata, a prescindere dalle conseguenze che dalla menomazione derivano sul piano patrimoniale;
– il danno esistenziale, inteso come danno alla persona, di carattere non patrimoniale e che attinge a beni ed interessi costituzionalmente tutelati, inerenti l’esistenza dei singoli e la qualità della vita o comportanti la lesione di vari beni immateriali (professionalità, vita di relazione, riservatezza, identità personale, reputazione, immagine, autodeterminazione sessuale): infatti, mentre i riflessi patrimoniali delle lesioni arrecate a tali beni sono senza dubbio risarcibili secondo i tradizionali principi ex art. 2043 c.c., la lesione in sé considerata di tali beni configura un danno non patrimoniale, in sé non rientrante nell’ambito di applicazione delle norme ora dette.
Il danno morale soggettivo è, quindi, il temporaneo turbamento dello stato d’animo della vittima; il danno biologico in senso stretto consiste nella lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità fisica e psichica della persona (art. 32 Cost.); il danno esistenziale è quello derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona e che trovano fondamento nell’art. 2 Cost. e nella tutela del pieno sviluppo della persona nelle formazioni sociali.
Il danno esistenziale, come rilevato dalla migliore dottrina, non ha nulla a che vedere con le lacrime, le sofferenze, i dolori e i patemi d’animo; il danno morale è essenzialmente un sentire, il danno esistenziale è piuttosto un non fare, cioè un poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente.
In buona sostanza, la giurisprudenza ha ormai elaborato il principio, in virtù del quale il danno non patrimoniale deve essere ricondotto all’interno di una visione costituzionalmente orientata, che tenga cioè conto della lesione di valori inerenti alla persona tutelati da principi costituzionali e, come tali, non suscettibili di valutazione economica. Per tale ragione, quindi, il risarcimento di tale pregiudizio non può che avvenire, da parte del Giudice, in via equitativa: a tal uopo, il Giudice valuterà diverse circostanze, quali la durata dei comportamenti illeciti ovvero mobbizzanti e gli effetti provocati sulla vittima.
Emerge da quanto innanzi, pertanto, che entrambi i fenomeni, vale a dire il bullismo e il mobbing, pur presentando caratteristiche diverse relative al contesto nel quale si sviluppano e all’età dei soggetti interessati, possono comportare risvolti e conseguenze psico-fisiche di notevole entità, in grado di determinare danni anche notevoli che vanno, in qualche modo, risarciti.
L’ordinamento giuridico e le possibili risposte al “bullismo”
Il nostro ordinamento non fornisce una definizione circa il fenomeno del “bullismo”, così come peraltro avviene per il mobbing, ma non la fornisce nemmeno la giurisprudenza che solo in rare occasioni, ed in casi molto gravi, si è pronunciata al riguardo. E tanto avviene, dal momento che il bullismo non viene riconosciuto come una fattispecie avente rilevanza giuridica, bensì viene analizzato prevalentemente, se non esclusivamente, sotto l’aspetto psicologico.
Ciò, tuttavia, non deve esimere l’interprete dal valutare se possano configurarsi, nei comportamenti dei ragazzi che praticano il bullismo, delle fattispecie di reato ovvero degli atti illegittimi; così come va ricercata e riconosciuta una responsabilità in capo a chi ha l’onere di salvaguardare il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (legge n. 53/2003, art. 2, comma 1, lettera c), perché esso è un diritto soggettivo (riconosciuto come tale dal D.Lgs. n. 76/2005, art. 1, comma 6) e si fonda sulla libertà di apprendimento, che rappresenta un diritto originario e costitutivo di ogni persona umana.
Se un bambino/ragazzo è vittima di bullismo all’interno dell’istituto scolastico che egli frequenta quotidianamente, se egli subisce maltrattamenti psicologici e spesso anche fisici, se non riesce a fruire serenamente del proprio diritto all’istruzione e alla formazione, ma soprattutto se non riesce a sviluppare appieno la propria personalità, in quanto vittima di abusi e soprusi da parte dei suoi coetanei, in capo a chi risiede la responsabilità di tutti i danni (morale, biologico, psicologico ed esistenziale) che il bambino/ragazzo subisce? Ed inoltre nei confronti di chi è possibile far valere una responsabilità per la lesione del diritto all’istruzione e alla formazione?
La prima norma da cui occorre partire per inquadrare correttamente la fattispecie in questione è rappresentata dall’art. 28 della Costituzione, che statuisce: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
Il principio sopra enunciato stabilisce da una parte il principio della responsabilità diretta (in proprio) dei pubblici dipendenti che agiscono quali organi della pubblica amministrazione, dall’altra la responsabilità della stessa pubblica amministrazione per gli atti illeciti dagli stessi dipendenti commessi e che ha natura diretta in virtù del cosiddetto rapporto organico che assimila l’attività degli organi con quella dell’ente pubblico.
In seguito a tale previsione costituzionale, ma prima dell’entrata in vigoredella legge 312/80, la responsabilità civile e patrimoniale del personale insegnante delle scuole statali era regolata dagli artt. 22-23 del D.P.R. n° 3/1957 (Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato). Ai sensi dell’art. 22, comma 1, “l’impiegato che nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalla legge o dai regolamenti cagioni ad altri in danno ingiusto è personalmente obbligato a risarcirlo”.
L’art. 23, comma 1, precisa, inoltre, che “è danno ingiusto… quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o colpa grave”. Lo stesso articolo aggiunge che restano salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti e che l’azione di risarcimento nei confronti dell’impiegato statale “può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’amministrazione qualora in base alle norme e ai principi vigenti nell’ordinamento giuridico sussista anche la responsabilità dello Stato”. Infine, l’art. 22, comma 2, prevede l’azione di rivalsa sul dipendente da parte dell’amministrazione che abbia risarcito il danno in conseguenza dell’azione diretta.
Ai sensi di tali norme, gli impiegati statali, e tra questi il personale insegnante, rispondevano civilmente verso i terzi solo per dolo o colpa grave per tutte le attività inerenti al loro ufficio. Non rispondevano, invece, nell’ipotesi di colpa lieve, rispetto alla quale la giurisprudenza aveva affermato la responsabilità diretta dello Stato, che poteva tuttavia promuovere l’azione di rivalsa sul dipendente ai sensi degli artt. 18-22 del D.P.R. n° 3 del 1957. In base alle disposizioni limitative della responsabilità contenute nel Testo Unico succitato si poteva legittimamente ritenere che gli insegnanti statali potevano considerarsi esonerati dalla responsabilità aggravata di cui all’art. 2048 c.c.. Tale norma, che arriva a considerare la responsabilità degli insegnanti quasi in senso oggettivo, così testualmente dispone: “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato da fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.
Con l’entrata in vigore della legge 312/80, in particolare con l’art. 61, il legislatore persegue l’obiettivo di limitare il regime della responsabilità diretta degli insegnanti. Ed infatti, tale norma apporta una profonda modifica sul piano processuale al precedente regime, escludendo l’azione di danno diretta nei confronti degli insegnanti ed identificando l’amministrazione come unica legittimata passiva dell’azione risarcitoria.
Tale azione si fonda su di una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. che prevede. “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità dalla prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
A tale conclusione, si perviene dal momento che lo studente (e i genitori in quanto titolari del diritto soggettivo di educare ed istruire i figli) è attore di un negozio giuridico, come tale regolato dal codice civile, che può essere ricondotto non solo ad un contratto di iscrizione, come avveniva in passato, ma addirittura ad un contratto di prestazione scolastica, all’interno del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione.
Si vuol dire cioè che oggi, in seguito alla riforma scolastica che ha riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo all’istruzione e alla formazione, lo studente, con l’iscrizione ad una scuola, acquisisce il diritto a riceve un’adeguata, corretta e puntuale formazione. Conseguentemente, l’amministrazione scolastica ha il preciso dovere di garantire tutto ciò, impedendo ed evitando che atti illegittimi ovvero illeciti possano in qualche modo turbare il corretto esercizio di tale diritto.
A tal proposito, va segnalata una recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha affermato e ribadito tale principio: ed infatti, con la sentenza n. 24456 del 2005, la Suprema Corte ha stabilito, da un lato, la sussistenza di un vincolo negoziale nascente tra la scuola e l’allievo mediante l’accoglimento della domanda di iscrizione e, dall’altro, la sussistenza di un rapporto giuridico che si instaura tra l’allievo e l’insegnante in virtù del quale il docente ha non solo l’obbligo di istruire ed educare, ma anche uno specifico obbligo di protezione e sorveglianza, volto ad evitare che gli allievi possano procurarsi da soli danni alla persona.
A tale riguardo occorre evidenziare che tale obbligo di protezione e sorveglianza deve essere ottemperato dall’insegnante anche nel caso di danni arrecati da alunno ad altro alunno, ma a risponderne, anche in questo caso, sarà l’amministrazione. Ciò esclude in radice la possibilità che gli insegnanti statali siano direttamente convenuti da terzi nelle azioni di risarcimento danni da “culpa in vigilando”, quale che ne sia il titolo, contrattuale o extracontrattuale, dell’azione. Tale principio era stato, tra l’altro, chiaramente esposto dalla Suprema Corte con sentenza n. 12501 del 2000, in cui si afferma, appunto, che è la scuola a dover risarcire i danni cagionati dall’insegnante, per azione o omissione, durante l’esercizio della sua professione all’interno dell’istituto e durante gli orari di lavoro prefissati.
E’ previsto, comunque, che l’amministrazione, condannata al risarcimento dei danni arrecati da alunno ad altro alunno ovvero di quelli arrecati dall’allievo a se stesso, possa agire in via di rivalsa nei confronti dell’insegnante solo nell’ipotesi in cui lo stesso si sia reso responsabile di comportamenti dolosi o gravemente colposi.
D’altro canto, va sottolineato che l’affidamento dei figli minori all’amministrazione scolastica e, per il suo tramite, al personale docente, non esclude la responsabilità dei genitori per il fatto illecito commesso dai loro figli.
Tale principio è contemplato dal nostro ordinamento nel disposto normativo di cui all’art. 2048, 1° comma, il quale dispone testualmente: “Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi”.
Detta norma delinea la responsabilità del genitore e quella del precettore per il fatto commesso dal minore capace durante il tempo in cui è ad esso affidato, come responsabilità tra loro concorrenti e non alternative, poiché l’affidamento a terzi solleva il genitore soltanto dalla presunzione di culpa in vigilando, non anche da quella di culpa in educando.
A titolo esemplificativo si riportano qui di seguito alcuni casi in cui è stato riconosciuto un danno in favore delle vittime di episodi di bullismo nelle scuole, le quali hanno ottenuto un risarcimento per le lesioni subite.
In Galles una ragazza britannica di 23 anni ha ottenuto, dopo il diploma, un risarcimento danni di 20 mila sterline (circa € 30.000,00) per essere stata vittima di bullismo nella scuola elementare pubblica che aveva frequentato dai 4 agli 11 anni.
Il Tribunale dei Minorenni di L’Aquila in data 11-04-2002 ha accertato la responsabilità di un gruppo di minori che, in concorso tra loro e con più azioni esecutive di medesimo disegno criminoso, hanno percosso un compagno di scuola labile sul piano psichico per tutta la durata dell’anno scolastico, in tal modo realizzando una costante persecutorietà che concreta una chiara ipotesi di mobbing.
Ed infine, si riporta la vicenda affrontata in data 04-05-2004 dal Tribunale di Bologna il quale, di fronte ad un caso di lesioni ai danni di un minore dipendente da spintonamento ad opera di un compagno, ha riconosciuto la sussistenza di una responsabilità dell’amministrazione scolastica per difetto di organizzazione correlata alla mancanza di sorveglianza da parte del personale; lo stesso tribunale ha condannato il Ministero della Pubblica Istruzione al risarcimento del danno biologico, del danno morale e del danno esistenziale, dichiarando inoltre tenuta l’amministrazione scolastica in via di manleva e garanzia contrattuale a rimborsare tutto quanto dovuto dal Ministero.
I casi su riportati costituiscono un chiaro segno di cambiamento riguardo al fenomeno del “bullismo”; si può affermare, infatti, che oggi le vittime di “bullismo” sono considerate vittime di un reato e, come tali, hanno il diritto ad essere risarcite, potendosi riconoscere una qualche responsabilità in capo a chi ha il dovere di vigilare sui ragazzi (insegnante) e a chi ha il dovere di controllare che sussista tale vigilanza (amministrazione scolastica) ed, infine, in capo a chi ha il dovere di educare il ragazzo (genitori), perché, lo si ribadisce, ricevere un’adeguata istruzione in un ambiente sicuro e sereno è un diritto che deve essere tutelato.
Prof. Avv. Fernando Caracuta
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