1. La disciplina abrogata: la legge 31 luglio 1956, n. 1002
Sino al 4 luglio del 2006, data di entrata in vigore del decreto legge n. 223, la panificazione era soggetta alla disciplina di cui alla legge 31 luglio 1956, n. 1002 recante, “Nuove norme sulla panificazione”. La disciplina della legge del1956 richiedeva per i panifici di nuovo impianto l’ottenimento di una autorizzazione rilasciata dalle Camere di Commercio, Industria e Agricoltura. L’autorizzazione veniva rilasciata sentita una Commissione composta da due rappresentanti della camera di Commercio, Industria, Agricoltura, un rappresentante dell’Associazione provinciale panificatori, un rappresentante delle Organizzazioni Sindacali degli operai panettieri e un rappresentante del Comune di volta in volta interessato. Compito della Commissione era di accertare l’opportunità del nuovo impianto in relazione alla densità dei panifici esistenti e del volume della produzione nella località ove era richiesta l’autorizzazione. Per l’esercizio dei nuovi panifici che avessero ottenuto l’autorizzazione di cui sopra, ma anche per i trasferimenti e le trasformazioni dei panifici esistenti, veniva poi rilasciato un ulteriore atto amministrativo denominato “licenza” sempre di competenza della Camera di Commercio, Industria, Artigianato previo accertamento della efficienza degli impianti e della loro rispondenza ai requisiti tecnici ed igienico sanitari previsti dalla stessa legge 1002 e dalla vigente normativa anche regolamentare. Trattandosi poi di “laboratori”, era necessaria l’autorizzazione sanitaria di cui all’articolo 2 della legge 30 aprile 1962, n. 283 in materia di igiene degli alimenti e delle bevande. Tale autorizzazione era rilasciata dal Comune in veste di Autorità Sanitaria Locale previo accertamento tecnico delle AA.SS.LL.
2. Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (cd. Decreto Bersani) e la conversione in legge con modifiche
La legge del 1956 sopra sinteticamente esaminata era già da tempo criticata poiché ritenuta palesemente anacronistica. Essa, di fatto, poneva una barriera all’ingresso per i nuovi panificatori ed un limite alla crescita per quelli già operanti sul territorio. Già l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) con segnalazione AS 246 del 24 ottobre 2002 si era pronunciata sulla legge del 1956 sottolineandone i caratteri distorsivi della concorrenza e l’effetto protezionistico a tutela dei panifici già esistenti e a danno di chi voleva entrare nel mercato. Sulla materia è intervenuto il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 convertito con modifiche nella legge 4 agosto 2006, n. 248 che abroga totalmente ed esplicitamente la legge n. 1002/56. Tale decreto legge, fortemente voluto dal Ministro dello Sviluppo Economico Bersani, è dedicato alle liberalizzazioni o, meglio, al “cittadino consumatore” e tocca settori quali, oltre il pane, servizi professionali, distribuzione commerciale, farmaci, tassisti, rc-auto, conti correnti bancari, ecc. .. E proprio “Cittadino Consumatore – Nuove norme sulla concorrenza e i diritti dei consumatori” è il titolo del documento prodotto dal Ministero dello Sviluppo Economico per presentare il decreto legge. Nel documento, in ambito di panificazione, si diceva che “l’unico settore produttivo che ancora presentava barriere all’entrata sarà completamente liberalizzato”. Gli effetti della nuova disciplina e dell’abrogazione della legge 1002 sarebbero stati, sempre secondo il documento citato, “più concorrenza, più investimenti e occupazione, più possibilità di scelta per il consumatore”.
Il decreto legge dedica alla panificazione l’articolo 4 che reca come titolo “Disposizioni urgenti per la liberalizzazione dell’attività di produzione di pane”. Il fine della norma, indicato nel comma 1, è di “favorire la promozione di un assetto maggiormente concorrenziale nel settore della panificazione ed assicurare una più ampia accessibilità dei consumatori ai relativi prodotti”. Abrogato il regime autorizzatorio della legge del 1956, la nuova procedura conferisce la funzione amministrativa in esame ai Comuni. La procedura prevista dalla norma è la Denuncia di Inizio Attività di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Dispone infatti il comma 2 dell’articolo 4 che “l’impianto stravolge completamente il tradizionale istituto dell’autorizzazione sanitaria sostituendolo con una comunicazione a fini di “registrazione”dell’industria alimentare per potere consentire l’eventuale controllo da parte degli organi di vigilanza. Tale regolamento ha abrogato implicitamente buona parte della legge n. 283/62 e sicuramente la vecchia e malandata “autorizzazione sanitaria”. I consueti inadempimenti agli obblighi comunitari – in questo caso imputabili alle regioni italiane (non tutte in verità) – nell’attuare materialmente ed organizzativamente il regolamento (che, giova ripeterlo, non ha bisogno di alcun recepimento formale) consentono ancora di menzionare, addirittura in un testo di legge nazionale successivo all’entrata in vigore del regolamento comunitario, le autorizzazioni sanitarie. Non appena tutte le regioni adempieranno a pieno ai loro obblighi, anche in ambito di panificazione sarà sufficiente, ai fini di requisiti igienico sanitari, la “registrazione”dell’industria alimentare tramite comunicazione al Comune che le passerà alle ASL come indicato dall’Accordo della Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano n. 2470 del 9 febbraio 2006 recante “Linee guida applicative del Regolamento n. 852/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’igiene dei prodotti alimentari”. Anche in riferimento ad altri due documenti a corredo va operata una cautela. Sul titolo abilitativo edilizio e sul permesso di agibilità dei locali infatti ci si dovrà raccordare con quanto dispongono le varie normative regionali in materia. di un nuovo panificio ed il trasferimento o la trasformazione di panifici esistenti sono soggetti a dichiarazione di inizio attività da presentare al comune competente per territorio ai sensi dell’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241.” La dichiarazione, prosegue la norma, deve essere corredata dall’autorizzazione della competente Azienda Sanitaria Locale in merito ai requisiti igienico – sanitari e dall’autorizzazione alle emissioni in atmosfera, dal titolo abilitativo edilizio e dal permesso di agibilità dei locali, nonché – aggiunte in sede di conversione in legge – dall’indicazione del nominativo del responsabile dell’attività produttiva, che assicura l’utilizzo di materie prime in conformità alle norme vigenti, l’osservanza delle norme igienico – sanitarie e di sicurezza dei luoghi di lavoro e la qualità del prodotto finito. Su queste ultime disposizioni è bene soffermarsi con attenzione. Si è visto che il meccanismo è quello della D.I.A. che dovrà però essere presentata in Comune già corredata da una serie di atti. L’attività a questo punto, non potrà che essere iniziata dopo 30 giorni dalla presentazione della dichiarazione e comunque dovrà essere proceduta da una ulteriore comunicazione con la quale si dichiara l’inizio effettivo dell’attività come prescrive l’articolo 19 della legge n. 241/90 novellato, con effetti peggiorativi rispetto alla precedente versione, nel 2005 con D.L. 14 marzo 2005, n. 35 convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. Nel corso dei 30 giorni il Comune effettuerà i propri controlli sulla D.I.A. presentata e sui documenti a corredo potendo anche inibire l’inizio dell’attività. Tra i documenti a corredo della D.I.A. qualche riflessione merita “l’autorizzazione della competente Azienda Sanitaria locale in merito ai requisiti igienico- sanitari”. La norma va infatti interpretata. Innanzitutto poiché l’atto al quale voleva fare riferimento il legislatore era con tutta evidenza l’autorizzazione sanitaria di cui all’articolo 2 della legge n. 283/62. Tale autorizzazione però non è di competenza delle ASL bensì dei Comuni quali Autorità Sanitarie Locali che le rilasciano previo accertamento tecnico delle ASL. Questo eccetto che nelle Regioni più avvedute dove la competenza al rilascio dell’autorizzazione sanitaria è già passata direttamente alle ASL eliminando gli inutili ed anacronistici passaggi di carte – che costituiscono oltretutto un evidente aggravio del procedimento – tra Dipartimenti delle ASL e Comuni. Giova infatti una breve riflessione sulla natura dell’autorizzazione sanitaria che più che “autorizzazione” vera e propria, che consentirebbe – secondo la dottrina amministrativistica classica – l’esercizio di un diritto sulla base di una valutazione discrezionale della rispondenza dei requisiti concreti agli interessi tutelati, non è altro che una verifica tecnica del possesso di requisiti igienico sanitari e pertanto è più correttamente individuabile quale abilitazione che si fonda su requisiti puramente tecnici. Ma se così è non si capisce per quale motivo una volta che l’ASL ha trascritto il suo accertamento tecnico in un “parere in linea igienico sanitaria” tale parere debba essere inviato al Comune che provvede a riprodurlo su un altro foglio di carta modificando esclusivamente l’intestazione da “parere” ad “autorizzazione” e provvedendo a farlo sottoscrivere al dirigente comunale. Tale passaggio è inutile e costoso per il cittadino e per le amministrazioni coinvolte in termini di tempi e di risorse impiegate. Un’autorevole conferma a tale tesi si ritrova in Cassazione Penale, sez. III, 12 marzo 1998, n. 5592. La dicitura del comma 2 dell’articolo 4 va pertanto letta nel senso che sarà sufficiente produrre al Comune il parere o un atto comunque denominato di provenienza dell’ASL con il quale si attesti sostanzialmente e non formalmente il possesso dei requisiti igienico sanitari previsti dalla legislazione vigente. Si deve però tenere presente che tale interpretazione se tenta di salvare la disposizione da una probabile svista del legislatore non può salvarla sotto un ben più grave profilo che è stato totalmente ignorato. Dal 1° gennaio 2006, infatti, le autorizzazioni sanitarie in materia di igiene degli alimenti avrebbero dovuto cessare di esistere per gli effetti dell’entrata in vigore del Regolamento UE 852/2004/CE recante “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sull’igiene dei prodotti alimentari”. Tale Regolamento comunitario – che ai sensi dell’art. 249, comma 2 del Trattato Istitutivo della CE ha “portata generale” ed è “obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”-
Proseguendo con l’esame dell’articolo si deve notare il comma 2-bis aggiunto in sede di conversione in legge dopo, evidentemente, il confronto con le categorie dei panificatori. Con tale comma si consente ai titolari di impianti di panificazione l’attività di vendita dei prodotti di propria produzione per il consumo immediato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie. Si consente dunque il consumo sul posto senza che questo si trasformi in una somministrazione vera e propria sia per gli impianti già autorizzati con la legge del 1956 che per i nuovi impianti. Tale comma, si osserva, riprende l’articolo 3, comma 1, lettera f-bis) del decreto legge modificato che prevede in senso più generale proprio il consumo sul posto dei prodotti di gastronomia superando la problematica nota sulla linea di confine tra somministrazione vera e propria e commercio. Il consumo non deve essere “assistito” ossia non ci deve essere servizio al tavolo né può snaturare la natura di laboratorio di gastronomia (o più specificamente di panificazione) trasformandolo di fatto in un esercizio di somministrazione.
Da notare è anche il comma 2-ter, anch’esso aggiunto in sede di conversione in legge e sicuramente frutto del confronto con le categorie di settore, con il quale si dispone che entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, il Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali e con il Ministro della salute, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, emana un decreto volto a disciplinare: a) la denominazione di «panificio» da riservare alle imprese che svolgono l’intero ciclo di produzione del pane, dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale; b) la denominazione di «pane fresco» da riservare al pane prodotto secondo un processo di produzione continuo, privo di interruzioni finalizzate al congelamento, alla surgelazione o alla conservazione prolungata delle materie prime, dei prodotti intermedi della panificazione e degli impasti, fatto salvo l’impiego di tecniche di lavorazione finalizzate al solo rallentamento del processo di lievitazione, da porre in vendita entro un termine che tenga conto delle tipologie panarie esistenti a livello territoriale; c) l’adozione della dicitura «pane conservato» con l’indicazione dello stato o del metodo di conservazione utilizzato, delle specifiche modalità di confezionamento e di vendita, nonché delle eventuali modalità di conservazione e di consumo. La norma richiede che si faccia chiarezza sulle varie tipologie di trattamento del pane, alcune emerse in tempi recenti con l’utilizzo di cicli di lavorazione accelerati, anche al fine di rendere consapevole il consumatore sul prodotto che sta acquistando e, più in generale, di tutelare la produzione di pane.
L’articolo 4, comma 3 del decreto in esame conferisce poi, in modo piuttosto scontato, la competenza sulle funzioni di vigilanza ai comuni e alle autorità competenti in materia igienico-sanitaria (AA.SS.LL. e Nuclei Anti Sofisticazione dei Carabinieri in primis) e dispone infine, al comma 4, che le violazioni delle prescrizioni di cui all’articolo sono punite ai sensi dell’articolo 22, commi 1, 2, 5, lettera c), e 7, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114. Trattasi del decreto sul commercio del 1998 che reca sempre il nome del Ministro Bersani. Rimandando in via sanzionatoria all’articolo 22 del d.lgs 114/98 si puniscono le violazioni delle norme dell’articolo oggetto della presente trattazione con la sanzione amministrativa da euro 2582,00 a euro 15.493,00. Autorità competente per la gestione di sanzioni e proventi è il sindaco del comune nel quale le violazioni amministrative hanno avuto luogo. Se rilevanti sono le sanzioni pecuniarie altrettanto quelle accessorie. In caso di particolare gravità o di recidiva è infatti prevista la sospensione discrezionale dell’attività per un periodo non superiore ai venti giorni. Si noti che in tale ambito recidiva si verifica anche in caso di pagamento della sanzione tramite oblazione (ossia pagando il doppio del minimo entro 60 giorni dalla contestazione o notificazione del verbale di illecito amministrativo). La norma dispone ancora che il sindaco ordina la chiusura del panificio nel caso di ulteriore violazione delle prescrizioni in materia igienico – sanitaria avvenuta dopo la sospensione di cui si è appena fatto cenno.
Torino, 10 gennaio 2007
Roberto Gandiglio
dirigente della Divisione Commercio della Città di Torino.
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