Nella maggior parte degli uomini, l’amore per la giustizia
non è altro che il timore di patire l’ingiustizia.
François De La Rochefoucauld (1613-1680)
Quando si parla di mobbing si fa spesso riferimento a comportamenti che non presentano caratteri di reale originalità sociale e che possono essere facilmente ricondotti nell’alveo di norme giuridiche vigenti: si pensi ad esempio al caso della dequalificazione professionale del lavoratore che trova specifica tutela nell’art. 2103 del codice civile, ovvero al caso delle ingiurie che è sanzionato penalmente dall’art. 594 del codice penale.
La questione, però, si complica notevolmente quando il mobbing si manifesta attraverso comportamenti, per così dire, atipici non riconducibili di per sé ad alcuna regolamentazione giuridica specifica. Si pensi alle ipotesi di intensificazione dei litigi o dissidi con colleghi, al silenzio dei colleghi al momento dell’entrata nella stanza del lavoratore discriminato o al silenzio per risposta alle sue domande, all’esclusione della vittima da feste aziendali o altre attività sociali, alle ilarità suscitate nei colleghi per l’abbigliamento, il modo di fare o di parlare, ecc (
).
Occorre poi specificare che la vera novità non riguarda il fenomeno in sé della sofferenza della condizione umana del lavoro ma concerne, semmai, il progredire della giuridica rilevanza di tale sofferenza(
) . Nella schiavitù non vi può essere mobbing in senso giuridico perché non v’è persona ma soltanto proprietà della persona. Nel contratto di lavoro agli albori della civiltà industriale non vi può essere mobbing in senso giuridico perché, secondo l’ideologia del tempo, la persona è formalmente libera e la si assume non implicata nel puro scambio salario contro prestazione, salve le ipotesi eclatanti di rilievo penale.
Nell’età post industriale, con la terziarizzazione dei settori d’impiego, si accresce il ruolo del capitale umano nell’organizzazione del lavoro e la relazione interpersonale datore-lavoratore e lavoratori tra di loro diventa il teatro elettivo dei conflitti provocati dalla condizione lavorativa. Ne consegue che, pur rimanendo in parte fruibili le tutele già acquisite dai sindacati nel corso degli anni, prenda piede una ricerca spasmodica di nuovi rimedi più flessibili e adeguati ad un ventaglio estremamente personalizzato di comportamenti lesivi, tra i quali spicca la responsabilità civile quale strumento di tutela ritenuto più idoneo a conquistare territori sempre più ampi, al limite dell’insondabilità, del nucleo centrale del mobbing.
Lo sforzo in atto nel dibattito scientifico attuale è anche quello di definire i contorni sociologici del fenomeno quale necessaria premessa per una tipizzazione che circoscriva vere e proprie strategie di persecuzione ed esclusione del lavoratore, sia ai fini del varo di una disciplina
ad hoc in sede legislativa, sia ai fini di un utilizzo uniforme dei dati normativi disponibili da parte della giurisprudenza (
)
La questione dell’inquadramento giuridico del mobbing si è posta da qualche anno all’attenzione dei giudici del lavoro che, a partire dalla sentenza del Tribunale di Torino del novembre 1999(
), hanno iniziato a far uso del termine per designare una serie composita di condotte, poste in essere direttamente dal datore di lavoro o a lui imputabili, ritenute vietate in quanto produttrici di danni alla salute e/o alla dignità del lavoratore stesso. E tutte le sentenze riconducono le fattispecie sottoposte alla loro attenzione alla violazione dell’art. 2087 c.c., la norma che – fondando, secondo la tesi oggi maggiormente condivisa, un autonomo e primario obbligo di sicurezza, specificando, secondo altri, con riferimento al contratto di lavoro, gli obblighi di protezione desumibili in generale dall’art. 1175 c.c. – prescrive al datore di lavoro di «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (
).
La giurisprudenza ha quindi recepito la presenza del fenomeno nella realtà lavorativa italiana solo nel 1999, quando è stato descritto come la situazione in cui «vengono poste in essere nei […]confronti [di un lavoratore] pratiche […] il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva», allo scopo di «isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, espellerlo»(
). La giurisprudenza successiva, pur avvallando questa definizione, spesso ha proceduto a delinearne meglio gli elementi essenziali ed in particolare i soggetti, l’azione mobbizzante, l’aspetto temporale e quello teleologico. In una delle più recenti sentenze sull’argomento(
), il mobbing è stato descritto come «una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità». La giurisprudenza si è poi rivelata unanime nel richiedere all’azione mobbizzante due caratteristiche: che si estrinsechi in una pluralità di condotte e che esse siano idonee a ledere la personalità del lavoratore. Quanto alla pluralità di condotte, sebbene non sempre emerga dalle pronunce giurisprudenziali, appare pacifico che esse possano consistere sia in meri comportamenti (attivi ed omissivi) sia in veri e propri atti giuridici. Le pronunce esaminate hanno considerato in concreto condotte mobbizzanti(
) il demansionamento fino, eventualmente, alla completa inattività(
), in violazione dell’art. 2103 c.c.; il sovra-utilizzo o il sovra-mansionamento(
); il collocamento in postazioni di lavoro inidonee(
); il trasferimento illegittimo(
); il distacco illegittimo(
); la minaccia dell’esercizio del potere disciplinare o l’esercizio illegittimo dello stesso(
); il licenziamento ingiustificato(
); il rifiuto arbitrario di svolgere lavoro straordinario(
); l’esclusione immotivata da benefici(
), incarichi(
) e strumentazione(
); il diniego illogico di concessione delle ferie(
) o la collocazione in ferie coatte(
); il rifiuto immotivato della concessione di permessi(
); la negazione ingiustificata dell’istanza di mobilità(
9; l’abuso di controlli(
); l’immotivato divieto di acceso in alcuni luoghi di lavoro(
); l’assegnazione a turni e mansioni sgradevoli(
); le molestie sessuali(
); le frasi ingiuriose e le aggressioni verbali(
); l’isolamento(
); le critiche continue effettuate in modo umiliante(
).
Da questa panoramica emerge che i giudici hanno preso in esame non solo atti giuridici illegittimi per violazione del dettato legislativo o per abuso di diritto – così come è per il demansionamento, il sovra-utilizzo del dipendente, il collocamento in postazioni di lavoro inadatte, il trasferimento illegittimo, il distacco illegittimo, il licenziamento ingiustificato, la minaccia dell’esercizio del potere disciplinare o l’esercizio illegittimo dello stesso, il rifiuto ingiustificato di svolgere lavoro straordinario, il rifiuto immotivato di concedere le ferie o la collocazione in ferie coatte, il rifiuto ingiustificato della concessione di permessi, il rifiuto immotivato dell’istanza di mobilità, l’abuso di controlli, l’esclusione ingiustificata da benefici, incarichi e strumentazione, l’immotivato divieto di accesso in alcuni luoghi di lavoro – e i comportamenti propriamente illeciti – così come le molestie, le frasi ingiuriose – ma anche atti e comportamenti giuridicamente irrilevanti – così è per l’isolamento, l’assegnazione a turni e mansioni sgradevoli, le critiche continue ed effettuate in modo umiliante, le aggressioni verbali (
). Perché si realizzi la fattispecie mobbing, condotte pur giuridicamente neutre devono apparire idonee a ledere la personalità del lavoratore(
).
Per quanto riguarda l’aspetto teleologico, infatti, le finalità richieste all’unanimità dalla giurisprudenza ai fini della realizzazione della fattispecie sono due, di cui la prima, ovvero intaccare l’equilibrio psichico del lavoratore mobbizzato menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso, così da procurare una catastrofe emotiva, risulta strumentale alla seconda, consistente nell’isolare il lavoratore dall’ambiente di lavoro quando non addirittura espellerlo. La palese difficoltà nel riuscire a cogliere questa intenzionalità ha indotto la giurisprudenza dominante a ricavarla da un’analisi oggettiva dell’aspetto comportamentale o di quello temporale quando non da una valutazione di entrambi.
Tra i casi di mobbing più frequenti si ha poi l’abuso nell’esercizio dei propri poteri da parte del datore di lavoro. A questo proposito, un’azienda è stata riconosciuta responsabile dell’aggravamento dello stato depressivo patologico di una lavoratrice, per la reiterata richiesta di quotidiane visite mediche di controllo, in spregio delle certificazioni che riconfermavano la diagnosi e la prognosi di durata della malattia(
). Alcuni giudici hanno valutato contrario agli obblighi di correttezza e di buona fede l’asfissiante controllo dell’operato del dipendente mediante richieste continue dei dati sulla produttività del servizio cui era addetto(
) o attraverso i molteplici rapporti sul comportamento tenuto dal lavoratore effettuati da un suo superiore(
). Un giudice ha ravvisato nell’irrogazione plurima di sanzioni disciplinari, in un arco di tempo ravvicinato, una pratica vessatoria idonea a recare pregiudizio al lavoratore(
). In molti casi la collocazione del prestatore di lavoro in spazi angusti o in locali isolati, dai quali è ostacolato il contatto con il resto dell’ambiente aziendale, per lunghi periodi, è stata considerata espressione dell’abuso del potere organizzativo in capo al datore di lavoro(
).
In queste situazioni, infatti, la liceità della situazione iniziale, ovvero l’esercizio di un potere riconosciuto dall’ordinamento, viene meno quando il potere è utilizzato con modalità prevaricatorie o persecutorie, con il risultato di produrre effetti deviati rispetto a quelli per cui è riconosciuto. Nella reiterazione e nella perduranza dell’abuso risiede la connotazione della condotta come mobbing(
).
Per quanto riguarda poi la tutela penale del fenomeno, una pronuncia della corte di Cassazione in materia afferma che «il mobbing può essere inteso non solo come attività persecutoria diretta ad indurre il lavoratore a rinunciare ad un incarico e posta in essere attraverso violenze morali e persecuzioni e sindromi ansiose, ma anche come la lesione diretta dell’integrità fisica del soggetto, attraverso percosse, molestie e maltrattamenti»(
).
In mancanza di una fattispecie incriminante specifica, l’eventuale opzione a favore di una strategia di prevenzione e repressione del mobbing attuata attraverso lo strumento penale presuppone una verifica preliminare di natura politico-criminale(
). Esemplare in tal senso la lezione di metodo offerto alcuni decenni or sono, allorché si è posto l’interrogativo circa la meritevolezza e il bisogno di tutela penale del diritto al rispetto della vita privata, preludendo alla successiva introduzione nel tessuto codicistico del delitto di Interferenze illecite nella vita privata, sanzionato dall’art. 615-
bis c.p.(
). Occorre a questo punto specificare che, a parere di influenti giuristi, è lecito ricorrere alla tutela penale solo nel presupposto dell’inefficacia delle altre forme di tutela. Emblematico è a questo riguardo lo Schema di testo unificato per i disegni di legge n. 122 e connessi in materia di tutela dei lavoratori dal fenomeno mobbing, che raccoglie le diverse proposte di legge già avanzate in materia, presentato il 2 febbraio 2005 dal Comitato ristretto della Commissione Lavoro del Senato. Nonostante il carattere evidentemente provvisorio del testo, è interessante notare come la tutela dei lavoratori di fronte al mobbing sia per il momento attuata solamente in chiave civilistica.
Nella giurisprudenza delle corti di merito e di legittimità, quindi, non pare essersi ancora formato un vero e proprio orientamento circa la rilevanza penale del mobbing.
In particolare, due sentenze trattano espressamente il fenomeno in prospettiva penalistica. Nella prima(
), le fattispecie accertate sono state la tentata violenza privata (art. 610 c.p.) e la minaccia (art. 612 c.p.); nella seconda sentenza(
), i giudici hanno riconosciuto nel fatto contestato gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (art. 572 c.p.), oltre che quelli della violenza privata.
D’altra parte, si sono avute numerose sentenze in cui, pur senza conferire al mobbing un rilievo esplicito e soprattutto unitario, la giurisprudenza ha ammesso la rilevanza penale delle singole condotte vessatore come l’ingiuria (art. 594 c.p.) e la diffamazione (art. 595 c.p.); la violenza sessuale commessa con abuso d’autorità (art. 609-
bis c.p.); le già menzionate ipotesi di violenza privata e minaccia nonché la contravvenzione di molestia morale o disturbo alle persone (art. 660 c.p.). Occorre inoltre notare che le fattispecie interessate appartengono al Titolo XII, Libro II c.p., dedicato ai delitti contro la persona, fatta eccezione per il reato di maltrattamenti, collocato tra i delitti contro la famiglia, e il reato di molestie alla persona, ricompresso tra le contravvenzioni contro l’ordine pubblico(
). Tale reato è il tipico illecito abituale proprio, in cui è presente l’elemento del dolo. D’altra parte, il reato di maltrattamenti, di cui all’art 572 c.p. si presta a fungere da cornice per il fenomeno mobbing. Tra le molteplici condotte vessatorie sanzionate tramite l’applicazione di questa norma si possono integrare anche le c.d. di natura omissiva, così da coinvolgere nella responsabilità penale
ex art. cpv. c.p. anche i titolari di una posizione di garanzia avente ad oggetto il dovere di impedire condotte illegittime poste in essere da terzi, il che potrebbe consentire di applicare la fattispecie anche ai casi di mobbing orizzontale con estensione della responsabilità ai vertici dell’impresa.
A differenza del reato di maltrattamenti, le fattispecie di ingiuria e diffamazione, violenza privata e minaccia possono costituire del mobbing solo un’immagine parziale, in quanto isolano segmenti della complessiva pratica vessatoria(
) . Tali fattispecie offrono però un presidio solo parziale contro le condotte da mobbing.
E’ necessario a questo punto specificare che il mobbing finora denunciato nelle aule giudiziarie italiane è, a quanto consta, quasi esclusivamente di tipo verticale e solo raramente di tipo orizzontale. Proprio per questo motivo tutti i ricorsi cui le pronunce esaminate hanno dato risposta hanno chiamato in causa il datore di lavoro o in via esclusiva o insieme all’autore materiale del mobbing, quando persona diversa dal datore di lavoro, adducendo nel primo caso (cioè in quello del
bossing) la violazione, alternativamente o cumulativamente, degli artt. 2087 e 2043 c.c., e nel secondo caso (ossia in quello di mobbing verticale od orizzontale) la violazione, ancora alternativamente o cumulativamente, degli artt. 2087, 2043, 1228 e 2049 c.c. Come noto, a seconda che la fattispecie sia considerata quale violazione dell’una o dell’altra norma codicistica muta la ripartizione dell’onere della prova. Infatti se il mobbing viene considerato quale violazione dell’art. 2087 c.c. e dunque si invoca una responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di protezione del lavoratore, spetta al datore di lavoro l’onere di provare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare la sicurezza e la dignità del lavoratore, mentre incombe sul prestatore di lavoro l’onere di dimostrare la sussistenza del mobbing, nonché il nesso di causalità, per alcuni, tra il danno e il comportamento datoriale(
), per altri, tra il danno e l’espletamento della prestazione lavorativa(
). Il pregio della distribuzione dell’onere della prova così delineata consiste nella sua piena compatibilità con gli indirizzi giurisprudenziali formatisi sul fenomeno i quali addossano al lavoratore mobbizzato la prova dell’avvenuto compimento di una serie duratura di episodi sul posto di lavoro – eventualmente collegati tra loro da un’unica matrice di natura teleologica – che siano fonte di lesioni alla sua sfera personale e patrimoniale(
). Si tratterà, quindi, per il lavoratore di dimostrare gli elementi che caratterizzano di norma la condotta dei mobbers – quali la durata, la reiterazione, la direzionalità, la pretestuosità – nonché il collegamento di casualità giuridica con le conseguenze dannose(
). Come già detto, al datore di lavoro spetterà poi di provare che gli elementi di fatto addotti non costituiscono, singolarmente considerati, altrettante violazioni dell’obbligo di protezione e, in ogni caso, che tali episodi non sono collegati tra loro da un finalismo orientato a vessare, discriminare ed accerchiare il lavoratore; o, ancora, che,
ex art. 1218 c.c., l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile (es.
factum principis).
Diversamente, se dal fenomeno si fa scaturire una responsabilità extracontrattuale
ex art. 2043 c.c., l’onere probatorio incomberà interamente sul lavoratore che dovrà provare il fatto, il danno alla salute, il rapporto di causalità tra fatto e danno, nonché il dolo o la colpa del datore di lavoro(
).
Questo divario sull’onere probatorio ha indotto una parte della giurisprudenza a dare della fattispecie mobbing la duplice lettura di fattispecie lesiva sia dell’art. 2087 c.c. sia dell’art. 2043 c.c., lasciando così l’attore libero di ricorrere, a seconda della convenienza, all’una o all’altra norma codicistica(
).
La giurisprudenza ha anche affrontato il problema delle conseguenze di una denuncia di mobbing che non risulti, però, adeguatamente provata in giudizio. La sezione lavoro della Suprema Corte in proposito ha ritenuto giustificato il licenziamento
ex art, 2119 c.c. (
) apportando la motivazione che « è esente da vizi logici e sottesa da motivazione congrua e coerente la decisione del giudice di merito in base alla quale accuse non provate di mobbing giustificano il licenziamento
ex art. 2119 c.c. per il venir meno del rapporto fiduciario fra le parti»(
).
Un ulteriore problema si pone con riferimento al decorso del termine di prescrizione, rappresentato dalla individuazione del momento in cui la stessa può ritenersi iniziata. Secondo un primo orientamento, infatti, si tratterebbe di una fattispecie unitaria e, pertanto, la prescrizione comincerebbe a decorrere dalla conclusione dell’ultima lesione cagionata alla vittima. Secondo un’altra tersi, invece, il fenomeno del mobbing si caratterizzerebbe per la reiterazione di più comportamenti. Ciò comporterebbe la necessità di una distinta verifica del termine di prescrizione, attraverso un calcolo che tenga conto di volta in volta dei singoli episodi lesivi contestati (
).
Calogero Fanara
R.Atanasio,
Il mobbing nella giurisprudenza, in
www.guidaallavoro.it/lavoro/redazione/mobbing/Atabasui_Relazione.htm;
Mazzamuto, S. (2004)
Il mobbing, Giuffrè, Milano, p. 2
Mazzamuto, S. (2004) Il mobbing, Giuffrè, Milano, p. 7
Trib. Torino 16 novembre 1999 (ord.) in
RCeP, 2000, 720 ss. e in
RIDL, 2000, II, 102 ss.
Carinci, M.T. (2005)
Il mobbing: alla ricerca della fattispecie, in
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Trib. Torino 16 novembre 1999, cit. in C.T.Bonora, L.Imberti, G.Ludovico, F.Marinelli,
op.cit., p. 117.
Bonora, C.T., Imberti, L., Ludovico, G., Marinelli, F. (2005)
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Trib. Torino, 30 dicembre 1999: Trib. Bari 29 settembre 2000; Trib. Forlì 15 marzo 2001; Trib. Lecce 31 gosto 2001; App. Salerno 17 aprile 2002; Trib. Viterbo 30 aprile 2003; Trib. Tempio Pausania 10 luglio 2003; Trib. Pinerolo 3 marzo 2004; App. Torino 21 aprile 2004; Trib. Agrigento 1 febbraio 2005; Trib. Forlì 10 marzo 2005; Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Trib. Bergamo 20 giugno 2005; Trib La Spezia 1 luglio 2005; Trib. Sassari 2 luglio 2005.
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Trib. Torino 16 novembre 1999; Trib. Triste 10 dicembre 2003; Trib. Bergamo 20 giugno 2005.
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