Le funzioni di garanzia e le modalità di accesso alla Corte costituzionale. Uno studio d’insieme.

Sgueo Gianluca 29/03/07
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1.1 Introduzione: il sistema italiano di giustizia costituzionale tra attività giurisdizionale e funzioni di garanzia – 1.2 Segue. I vizi sanzionabili – 1.3 Segue. La difficile tracciabilità tra giudizio di legittimità e giudizio di merito – 1.4 Segue. La tipologia di atti sanzionabili dal sindacato della Corte – 2.1 Le modalità di accesso alla Corte costituzionale e i soggetti abilitati ad assumere l’iniziativa processuale – 2.2 Segue. Le situazioni giuridiche soggettive tutelate – 3. Lo svolgimento del giudizio – 4.1 Gli effetti della giustizia costituzionale sull’ordinamento giuridico interno – 4.2 La Corte e la famiglia – 4.3 La Corte e i diritti civili – 4.4 La Corte e l’istituto referendario – 5. Conclusioni
 
 
1.1 Introduzione: il sistema italiano di giustizia costituzionale tra attività giurisdizionale e funzioni di garanzia
In questo articolo lo studio sulla Corte inizia un percorso articolato che che si propone di studiare questo organo alla luce, in particolare, della tipologia di garanzie offerte, della legittimazione ad adirla e degli effetti che le pronunce giurisdizionali producono sull’ordinamento[1].
Prima di affrontare il tema centrale, quello della legittimazione dei soggetti che possono adire la Corte, e dei poteri che a questi concede l’ordinamento, è bene svolgere qualche ulteriore riflessione sul sistema italiano di giustizia costituzionale, in particolare sulle funzioni di garanzia.
L’obiettivo è quello di dare le coordinate inerenti la tipologia di vizi che la Corte può sanzionare, poiché si tratta di concetti essenziali per chiarire quali soggetti siano legittimati ad agire e quali siano le conseguenze dell’attività della Corte.
 
1.2 Segue. I vizi sanzionabili
I vizi di legittimità costituzionale che possono affliggere una legge sono due: vizi formali e vizi materiali[2]. Si ha “vizio formale” quando la legge è approvata dal Parlamento violando una delle norme sul procedimento di formazione delle leggi contenute nella Costituzione o secondo un procedimento diverso da quello prescritto[3].
La stessa Corte costituzionale, con le sentenze n. 9 del 1959, n. 78 del 1984, e n. 154 del 1985, ha affermato la sua competenza a controllare la legittimità formale della legge che risulti viziata per violazione delle norme costituzionali sul procedimento, escludendo invece che il controllo possa estendersi anche all’osservanza delle norme sul procedimento contenute nei regolamenti parlamentari[4].
Si ha invece “vizio materiale” in due circostanze specifiche: quando la norma contenuta in una legge ordinaria o in un atto ad essa equiparato è in contrasto con una norma costituzionale o con un principio costituzionale (anche se implicito). Oppure, quando l’organo che ha emanato la legge non era competente secondo la ripartizione delle competenze legislative effettuata dalla Costituzione[5].
Nel corso degli anni peraltro la giurisprudenza della Corte ha consolidato alcuni criteri che valgono come indici espressi dell’esistenza di un eccesso di potere. Si tratta in particolare di tre criteri. Anzitutto, quello dell’assoluta illogicità, incoerenza o arbitrarietà della motivazione della legge o anche della palese contraddittorietà rispetto ai presupposti[6]. Poi, della irragionevolezza delle statuizioni legislative rispetto alla realizzazione concreta del fine. Infine, della incongruità fra i mezzi ed i fini che la legge intende perseguire[7].
Tutti i criteri che la Corte ha enunciato possono essere ricondotti a quello che distingue, in generale, il vizio di eccesso di potere (inteso come attinente alla razionalità dell’atto rispetto al fine) quale vizio attinente alla legittimità dell’atto: vale a dire al criterio per il quale un atto giuridico è viziato di eccesso di potere quando è emanato per un fine diverso da quello previsto dallo schema normativo o non è idoneo a perseguire il fine stesso ovvero ancora non è intimamente coerente.
Ad esempio, con la sentenza n. 171 del 1996, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990, che disciplina lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in quanto, per la mancata previsione di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione dal lavoro degli avvocati e dei procuratori legali, la legge stessa presentava una incongruenza tra i fini perseguiti (tutela dei diritti della persona) e strumenti operativi inidonei a perseguirli.
 
1.3 Segue. La difficile tracciabilità tra giudizio di legittimità e giudizio di merito
Il problema, semmai, risiede nella difficoltà, in casi come questo, di tracciare il confine tra il giudizio di legittimità e quello di merito, che, si ricorda, è precluso alla Corte. Infatti, quest’ultima è chiamata a giudicare la legittimità di una legge assumendo come canoni di valutazione criteri classici quali la ragionevolezza, il senso comune, la coscienza sociale, il diritto vivente, il buon uso del potere legislativo, o anche i valori etico-culturali che presiedono ad un dato settore.
Ebbene, tenendo anche conto che alcune disposizioni costituzionali contengono concetti indeterminati, oppure sono formulate in modo molto generico, o, ancora, indicano fini generalissimi che il legislatore, previa loro specificazione, dovrebbe perseguire, appare difficile racchiudere il giudizio di legittimità senza invadere la sfera della discrezionalità, evitando che il giudizio sulla conformità delle leggi alla Costituzione si trasformi in un giudizio sull’opportunità delle stesse[8]. La soluzione, nel comune accordo dei costituzionalisti, deve essere individuata nella capacità di auto-limitazione di cui la Corte deve dotarsi.
 
1.4 Segue. La tipologia di atti sanzionabili dal sindacato della Corte
Bisogna poi specificare che i vizi appena enunciati attengono certamente gli atti di legge, ma anche gli atti aventi forza di legge[9]. Dal sindacato restano pertanto escluse sia le sentenze sia gli atti meramente amministrativi. Ma anche, tra gli atti aventi forza di legge, quelli che non sono fonti primarie[10], come ad esempio i regolamenti.
La ragione di questa esclusione è il frutto di una precisa scelta del legislatore costituente, perché, in linea di principio, anche i regolamenti potrebbero essere assoggettati al sindacato di costituzionalità.
Ciò peraltro avviene negli ordinamenti costituzionali di altri paesi. Ad esempio, è frutto di espressa previsione della Costituzione austriaca del 1920, rimessa in vigore nel 1945, per i regolamenti di autorità regionali o federali. Ma anche nella Costituzione francese del 1958 per ciò che riguarda il controllo preventivo dei regolamenti parlamentari. Infine, sia nella Costituzione giapponese del 1946, con riferimento a qualsiasi legge, decreto, regolamento o atto ufficiale e, nella Repubblica federale tedesca, con riguardo ad ogni atto d’imperio che ledano un diritto fondamentale dei cittadini (quindi, in questo caso l’estensione è massima, comprendendo anche le sentenze).
In Italia, invece, la prevalenza della visione restrittiva rispetto a quella estensiva[11] si fondò sulla preferenza per un criterio formale rispetto ad un criterio sostanziale. Fu dettata probabilmente anche da esigenze di certezza, derivanti dalle difficoltà interpretative che sarebbero potute sorgere nell’accertare l’efficacia sostanziale della legge in un regolamento o in altri atti aventi contenuto normativo. Resta comunque il fatto che l’illegittimità di un regolamento possa sempre essere dedotta in sede giurisdizionale ordinaria, sia ordinaria che amministrativa, facendo valere il vizio delle violazione di legge.
Inoltre, tra le leggi, si intendono sindacabili sia quelle ordinarie, sia quelle costituzionali, sottoponibili al sindacato della Corte sia sotto il profilo della legittimità formale, sia sotto il profilo dell’illegittimità materiale, se si ammette l’esistenza di alcuni limiti al potere di revisione costituzionale.
Sempre con riferimento alla propria funzione la Corte ha poi escluso che possano essere oggetto del suo sindacato gli atti della Comunità europea perché, sebbene siano da considerarsi atti aventi forza di legge in ogni Paese della Comunità, essi non sono, per l’autonomia che distingue l’ordinamento dei singoli Stati da quello della comunità, atti aventi forza di legge dello Stato.
In definitiva, dunque, in cosa consiste il controllo giurisdizionale della Corte? Sicuramente la risposta va cercata nella preferenza accordata dall’ordinamento ad un sistema che affidi ad un Tribunale specializzato, il più possibile svincolato dagli organi di indirizzo politico e addirittura abilitato a contraddire lo stesso legislatore imponendogli il rispetto della Costituzione, l’assicurazione dei principi in questa contenuti[12]. Se questa è la funzione di garanzia, la sua esplicazione concreta non può che pretendere i dovuti chiarimenti con riguardo alle modalità con le quali i soggetti privati possono adire la Corte stessa.
 
2. Le Modalità di accesso alla giustizia costituzionale e soggetti abilitati ad assumere l’iniziativa processuale
In virtù delle considerazioni che si sono appena svolte sull’attività giurisdizionale della Corte e sull’esercizio delle funzioni di garanzia, bisogna approfondire le problematiche legate alle modalità attraverso le quali è possibile accedere al sistema di giustizia costituzionale. In particolare, è utile analizzare quali soggetti, entro quali limiti e secondo quali modalità, sono abilitati ad adire il giudice delle leggi[13].
In via preliminare, deve essere chiaro a chi spetta il potere di iniziativa. Tale potere viene attribuito, seppur nel rispetto di limiti diversi, a tre diverse categorie di soggetti[14]. All’autorità giudiziaria, in via incidentale, per rendere possibile un controllo di costituzionalità generale. Lo stabilisce l’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948, laddove prevede che la questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge può essere rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso del giudizio (previa valutazione di non manifesta infondatezza da parte del giudice)[15].
Allo Stato, per tutelare in via preventiva, con ricorso proposto contro la delibazione della legge regionale e prima della promulgazione, la sfera di competenza del Parlamento, la compagine dell’organizzazione e la coerenza del sistema normativo in relazione alla pluralità di legislatori operanti nell’ordinamento.
Alle Regioni ed alle due province autonome di Trento e di Bolzano per tutelare, entro un termine perentorio dalla pubblicazione della legge che si assume illegittima, le rispettive sfere di potestà legislativa.
La prima considerazione che emerge da questa tripartizione è che questa interdipendenza tra l’attività di soggetti legittimati a chiedere la dichiarazione di illegittimità della legge, i principi ispiratori dell’ordinamento costituzionale e la garanzia del funzionamento del sistema, non consentono di parificare i soggetti del giudizio di legittimità costituzionale alle parti del giudizio ordinario.
Ciò, in ragione di alcune considerazioni. Parte, significa anzitutto soggetto interessato alla pronuncia del giudice. È noto infatti che nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, anche se nessuna delle parti nel giudizio a quo ha interesse alla dichiarazione di illegittimità della legge, la questione deve ugualmente essere sottoposta all’esame della Corte perché l’ordinanza di rinvio rappresenta l’adempimento di un dovere di ufficio del giudice.
Né viene in rilievo il problema della legittimazione, almeno nei termini consueti, perché possono costituirsi dinanzi alla Corte tutti coloro che siano stati parte nel giudizio a quo e per il solo fatto storico di essere stati tali. Inoltre, le parti di un qualunque procedimento giurisdizionale sono normalmente titolari di poteri di iniziativa, al contrario, nel giudizio incidentale, l’iniziativa spetta al giudice a quo e le parti possono presentare soltanto delle deduzioni nel processo dinanzi alla Corte.
Alle condizioni appena esposte, o ci si limita ad una definizione meramente formale, intendendo per parti del giudizio di legittimità costituzionale i soggetti del rapporto processuale diversi dal giudice[16], oppure, tenendo presente, da un lato, le norme che regolano l’iniziativa per la dichiarazione di illegittimità delle leggi e, dall’altro, le norme che regolano la partecipazione al giudizio innanzi alla Corte costituzionale, si possono distintamente definire le parti nel giudizio promosso in via incidentale e, rispettivamente, nel giudizio in via principale.
Dunque, alla stregua delle osservazioni formulate, le situazioni dei soggetti nelle due forme di giudizio è riassumibile in due distinte posizioni. Nel giudizio incidentale le parti del giudizio a quo sono soltanto soggetti di un contraddittorio facoltativo, i quali si inseriscono nel processo costituzionale, promosso e circoscritto con l’ordinanza di rinvio, per concorrere con le loro deduzioni a formare il convincimento della Corte in ordine alla questione proposta[17].
Nel giudizio in via principale, invece, parti sono i soggetti di potestà legislativa, i quali chiedono, a difesa degli ordinamenti giuridici che, rispettivamente, riassumono e personificano, l’attuazione di una determinata norma costituzionale con l’eliminazione dell’atto legislativo ad essa contrario; nonché i soggetti autori dell’atto impugnato che si oppongo alla richiesta dichiarazione di illegittimità. Essi, va aggiunto, non sono abilitati ad agire o a resistere perché giuridicamente capaci e interessati alla controversia. Al contrario, in tanto possono difendere i loro interessi in quanto sono titolari dell’iniziativa o destinatari dell’iniziativa altrui e nei limiti in cui sono, rispettivamente, titolari e destinatari.
Non hanno l’iniziativa né possono resistervi perché parti interessate ma svolgono nel processo l’attività riservata alle parti perché titolari dell’iniziativa diretta a provocare la dichiarazione di illegittimità della legge, e, rispettivamente, del potere di opporsi all’iniziativa stessa[18].
 
Appurato in questo termini il concetto di parte e di iniziativa endo-processuale, risulta evidente che, a sua volta, l’iniziativa del giudice è del tutto indipendente dal comportamento tenuto dai soggetti di potestà legislativa all’atto della deliberazione della legge, nel senso che l’acquiescenza del soggetto leso non impedisce al giudice di rinviare all’esame della Corte la legge che ritenga viziata per invasione, lesione o eccesso di competenza. Ciò proprio perché non può essere la volontà delle parti che appaiono come i diretti interessati a paralizzare l’iniziativa costituzionale di un altro organo, qual’è appunto il giudice, e tanto meno a spostare le sfere di competenza degli organi legislativi statali e regionali.
 
2.2 Segue. Le situazioni giuridiche soggettive tutelare
Un secondo, rilevante, aspetto, attiene alla legittimazione ed alle situazioni soggettive che vengono tutelate. Se per legittimazione intendiamo l’identità della persona dell’attore con la persona a cui la legge concede l’azione[19], e la identità della persona del convenuto con la persona contro cui la legge concede l’azione[20], nei confronti dello Stato il problema della legittimazione non assume autonomo rilievo.
Ciò perché qualunque legge deliberata da organi diversi dal Parlamento nazionale può essere impugnata da parte del Governo dello Stato, per motivi di legittimità, dinanzi alla Corte costituzionale e, per motivi di merito, dinanzi al Parlamento. Qualunque atto legislativo non statale può cioè essere impugnato dallo Stato per qualsiasi motivo perché allo Stato spetta di garantire l’integrità dell’ordinamento costituzionale tanto se siano immediatamente in gioco interessi riferibili all’intera comunità nazionale, quanto se un gruppo minore operi in danno di altro gruppo minore che non reagisca direttamente.
Qualche specificazione ulteriore merita invece la questione della legittimazione attiva delle Regioni e delle Province autonome. Ogni Regione ha il potere di impugnare la legge dello Stato o di altra Regione che invada la sua sfera di competenza, ma per determinare a quale Regione spetti in concreto l’iniziativa per l’impugnazione di una determinata legge dello Stato o di altra Regione, non sarà sufficiente, da solo, l’accertamento del fatto che il ricorso è stato proposto da una delle Regioni elencate dall’art. 131 della Costituzione[21].
Si dovrà stabilire anche, e soprattutto, se la Regione ricorrente abbia agito nella propria sfera di competenza. Ed è esattamente a questo proposito che viene in rilievo il problema della legittimazione a ricorrere, distinto dall’altro della capacità speciale dei soggetti di potestà legislativa. Tutte le Regioni possono impugnare le leggi statali o regionali ma, tra esse, può agire, di volta in volta, quella che abbia subito una lesione nella propria sfera di potestà.
Ciascuno inoltre può invocare non l’attuazione di una qualsiasi norma costituzionale, bensì di quella volontà di legge che tuteli effettivamente la relativa sfera di potestà. Preesiste, cioè, al ricorso uno specifico rapporto tra il soggetto ricorrente e la norma di cui si denuncia la violazione da parte dell’altro soggetto che ha deliberato la legge impugnata.
Per ciò che riguarda poi la legittimazione passiva, essa è determinata per le Regioni e per le due Province autonome dalla provenienza dell’atto legislativo impugnato. Lo Stato invece non solo può resistere alla impugnazione delle leggi statali, ma anche i ricorsi delle singole Regioni o di una delle Province autonome di Trento e di Bolzano contro la legge di altra regione o di altra provincia, devono essere notificati al Presidente del consiglio dei Ministri oltre che al Presidente dalla Giunta regionale o provinciale. Entrambi i Presidenti possono poi costituirsi in giudizio per i rispettivi enti, presentando deduzioni. La partecipazione dello Stato al giudizio in via principale, in veste sia di soggetto che instaura il giudizio sia di partecipante al contraddittorio, dipende cioè dalla sua qualità di ente sovrano titolare del potere di potestà legislativa[22].
 
3. Lo svolgimento del giudizio
Lo svolgimento del giudizio segue ovviamente un diverso andamento a seconda che si tratti di giudizio incidentale o principale. Il più frequente ed importante, quello incidentale, si distingue in tre fasi. Nella prima fase si ha la proposizione della questione, ad opera di una delle parti o del giudice stesso[23]. Nella seconda fase l giudice emette un’ordinanza con cui delibera la fondatezza e decide sulla rilevanza della questione. Nella terza fase, infine, interviene il giudizio della Corte stessa, la quale rileva nuovamente la fondatezza della questione e successivamente si pronuncia sulla costituzionalità dell’atto[24].
 
4.1 Gli effetti della giustizia costituzionale sull’ordinamento giuridico
La tematica delle garanzie, prima, e quella delle modalità tramite le quali attivarle, dopo, sono, giunti a questo punto della trattazione, sostanzialmente risolte. Resta però aperto un ultimo problema, tutt’altro che irrilevante. Si tratta delle questioni che si originano dall’applicazione di quello stesso sistema di garanzia, ossia, in altre parole, delle conseguenze dei ricorsi che, a vario titolo, giungono all’attenzione della Corte.
La domanda è: qual è il grado di influenza che la giurisprudenza costituzionale (o, se si preferisce, che il sistema di giustizia costituzionale) esercita sull’ordinamento italiano? La risposta che si intende offrire passa attraverso lo studio di macro-settori dell’ordinamento che sono stati progressivamente incisi e modificati dall’attività della giurisprudenza costituzionale. Tra i tanti di cui si può parlare, si sono scelti i tre che paiono più significativi: la famiglia, i diritti civili, e la materia dei referendum.
 
4.2 La Corte e la famiglia
Per quanto riguarda il primo dei tre settori, quello della famiglia, l’attività giurisprudenziale della Corte è stata costante nel tempo. Gli effetti da questa prodotti sono stati, pertanto, estremamente incisivi. In una prima fase, la Corte ha cercato di ridurre al minimo l’inconveniente derivante dalle lacune dell’ordinamento giuridico, prevalentemente attraverso sentenze che cancellavano disposizioni di legge contrastanti con i nuovi principi costituzionali[25].
Gli esempi più evidenti, in materia, sono costituiti dalle sentenze in tema di rapporto coniugale, con riguardo ai numerosi aspetti che lo riguardavano. Tra i tanti, in particolare rileva quello inerente il reato di adulterio della moglie, che la Corte modificò venendo a garantire l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi[26]. Molto importante è poi l’interpretazione che la Corte ha offerto in tema di divorzio ed aborto. Riguardo alla prima delle due tematiche, con la sentenza n. 169 del 1971, la Corte faceva salva la legittimità costituzionale del divorzio, difendendo in tal modo l’autonomia dello Stato italiano dalla Chiesa, e la piena competenza del primo a decidere in materia matrimoniale[27].
In tema di aborto poi, è grazie alla Corte che il legislatore ha intrapreso ed ultimato il cammino che ha portato a depenalizzarlo, o meglio, a renderlo punibile solamente a determinate condizioni. In particolare, la sentenza n. 127 del 1975 riconobbe che la tutela del concepito ha fondamento costituzionale, compito dello Stato è pertanto quello di proteggere il nascituro. Tuttavia, tra la tutela di quest’ultimo e quella della madre, è questa a prevalere, perché non esiste equivalenza fra la tutela di un diritto alla vita di chi è già in vita e quello dell’embrione[28].
 
4.3 La Corte e i diritti civili
Per quanto riguarda la tutela dei diritti civili, l’attività della Corte ha segnato la rottura rispetto al vecchio ordinamento fascista, in gran parte ancora in vigore dopo l’approvazione della Costituzione, favorendo la progressiva ma costante affermazione del nucleo dei diritti e delle libertà affermate da quest’ultima. In particolare, in occasione della celebrazione del dodicesimo anniversario della Corte, nel 1968, l’allora Presidente Aldo Sandulli affermò che la Corte “tutela le libertà che costituiscono il cardine essenziale di ogni società democratica, ed anzi di ogni società civile, tra le quali si colloca al primo posto la libertà della persona fisica da ogni forma di restrizione e di coazione”.
 
4.4 La Corte e l’istituto referendario
Infine, per quanto riguarda la materia referendaria, l’attività della Corte è stata assolutamente determinante per definire il concreto funzionamento dell’istituto. La giurisprudenza costituzionale infatti, nonostante l’opposizione di vivaci resistenze e polemiche, ha condizionato notevolmente la vita politica nazionale, dando attuazione ad uno degli istituti più controversi in ambito costituzionale, e più direttamente connessi con i principi democratici che presiedono allo svolgimento della vita istituzionale[29].
 
5. Conclusioni
Tutto sommato, dunque, gli esempi riportati offrono una risposta univoca alla domanda posta. Sicuramente le influenze esercitate dalla Corte costituzionale sull’ordinamento sono notevoli. Esse, non sono hanno determinato l’abbattimento di quegli istituti giuridici in aperto contrasto con la Costituzione. Hanno anche garantito l’evoluzione dell’ordinamento stesso, e l’accoglimento, in seno ad esso, dei principi propri di ogni altro ordinamento giuridico moderno.
Il risultato, ancora una volta, è un chiarimento del concetto di garanzia costituzionale. Questa, direttamente, consente di tutelare le posizioni di quei soggetti che sentano di essere stati lesi in una propria posizione tutelata da una norma giuridica. In senso lato però, individua la capacità di garantire l’ammodernamento di un ordinamento che, senza tali possibilità, sarebbe destinato alla scomparsa.
 
 
 
 
 
 


[1] Il prossimo capitolo, invece, tenterà di studiare il funzionamento della Corte dall’interno. Soffermandosi in particolare sulla composizione della stessa e le prerogative procedurali che la distinguono.
[2] In generale, si veda Virga P., Il diritto costituzionale, Milano, 1979, pag. 531: “Poiché la legge è un atto giuridico sottoposto a limiti formali e materiali – al pari di ogni altro atto emanato nell’esercizio di una potestà giuridica – saranno ad essa applicabili i principi generali in tema di invalidità degli atti giuridici. L’atto legislativo è, al pari dell’atto amministrativo, un atto munito di forza esecutoria e quindi la invalidità di esso si sostanzia nella regola dell’annullabilità e cioè la legge, sebbene invalida, continua ad esplicare i suoi effetti, finché la Corte costituzionale non la annulli. Tuttavia, nell’ipotesi che la leggi presenti deficienze tali da non potere neanche essere considerata esistente come atto legislativo e non abbia neanche la apparenza di legge, non si ha annullabilità, bensì addirittura inesistenza della legge”.
Anche Cuocolo F., Principi di diritto costituzionale, Milano, 1999, pag. 792: “I vizi da cui possono essere affetti gli atti impugnati possono essere formali o materiali e, secondo un indirizzo prevalente, possono inquadrarsi nella nota tripartizione (elaborata con riferimento agli atti amministrativi) dell’incompetenza, della violazione di legge e dell’eccesso di potere”.
[3] Cfr. Martines T., Diritto costituzionale, Milano, 2003, pag. 309, il quale ne riporta un esempio: “Ad esempio, poiché l’art. 72, comma 1, Cost., dispone che ogni disegno di legge presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale, qualora una Camera approvasse una proposta di legge senza che questa sia stata preventivamente sottoposta all’esame della commissione legislativa competente per materia o votasse una proposta di legge senza che prima questa sia approvata articolo per articolo, la legge sarebbe formalmente viziata. Allo stesso modo, se le Camere approvassero una legge elettorale o di delegazione con il procedimento decentrato e non con il procedimento ordinario (espressamente richiesto per tali leggi dall’art. 72, comma IV, Cost.), la legge sarebbe formalmente viziata”.
[4] Sembra invece che si possa escludere, aggiunge Martines T., Diritto costituzionale, Milano, 2003, pagg. 303 ss., che il sindacato di costituzionalità possa essere svolto su leggi inesistenti, ossia su parvenze di leggi, quali quelle che manchino di un requisito essenziale inerente alla loro perfezione. L’esempio che viene riportato è quello di un progetto di legge approvato da un solo ramo del Parlamento. In questi casi, infatti, il controllo può essere svolto direttamente dal giudice che è demandato ad applicare le leggi stesse.
[5] Anche qui sono ipotizzabili diversi esempi. Come esempio del primo tipo di vizio materiale si può ipotizzare il caso di una legge che autorizzi la limitazione della libertà di corrispondenza senza richiedere il preventivo intervento dell’autorità giudiziaria. Oppure, il caso in cui una legge, in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, escluda dall’accesso ai pubblici uffici gli appartenenti ad una minoranza linguistica. Esempi del secondo caso invece possono essere quelli in cui una legge statale invada la sfera di competenza riservata dalla Costituzione o dagli Statuti regionali alle Regioni, o quando la legge di una Regione disciplini una materia non rientrante fra quelle sulla quali può legiferare. Oppure, ancora, quando una legge regionale invada una sfera di competenza riservata allo Stato o di un’altra Regione. Infine, lo Stato può impugnare innanzi alla Corte una legge provinciale per violazione della costituzione, dello statuto regionale o del principio di parità fra gruppi linguistici.
[6] Ed anzi, aggiunge De Vergottini G., Diritto costituzionale, Padova, 2004, pag. 600: “L’attribuzione maggiormente qualificante la Corte è quella relativa alla verifica di compatibilità rispetto alla costituzione delle leggi del parlamento, cui si sono aggiunti come naturale appendice, a causa delle caratteristiche della forma di governo, gli atti normativi del governo con forza di legge e le leggi regionali”.
Sul punto anche Virga P., Il diritto costituzionale, Milano, 1979, pagg. 532 ss., che distingue però tra due sole categorie, quella dell’incompetenza vera e propria e quella, generale, della violazione della legge, ossia della violazione di norme costituzionali che regolano il procedimento amministrativo.
[7] A queste materie tradizionali, aggiunge De Vergottini G., Diritto costituzionale, Padova, 2004, pag. 603, in ragione del: “concorso di una serie di cause (tra le quali la riforma in senso cd. federalista, il sempre più alto grado di consolidamento della integrazione europea, soprattutto sotto il profilo del sistema delle fonti, nonché il ricorso, vieppiù diffuso, alla normazione regolamentare, sia dell’esecutivo, sia delle autorità amministrative indipendenti), nei tempi più recenti si è registrato un notevole incremento di quelli che potrebbero definirsi le funzioni arbitrali della Corte costituzionale (giudizio in via principale, conflitto tra enti costituzionali, conflitto tra poteri dello Stato). Il fenomeno è tanto significativo da aver costituito oggetto di specifico rilievo da parte del Presidente della corte nell’ambito della conferenza stampa del 2003”.
[8] La dottrina, in merito, è più o meno concorde nel ritenere che la soluzione debba ravvisarsi in una forma di auto-limitazione che la Corte deve imporre a sé stessa, nel senso che saranno gli stessi giudici costituzionali a dover porre a fondamento delle loro valutazioni criteri e canoni obiettivamente ricavabili dalle norme costituzionali, evitando che ciò possa giungere ad interferire con le scelte operate dal legislatore.
[9] È esplicativa in tal senso la lettura del primo comma dell’art. 134, che, nello specificare le materie sulle quali la Corte è chiamata a giudicare, fa riferimento anzitutto agli atti di legge ed agli atti aventi forza di legge. La norma va letta in combinato disposto con gli artt. 76 e 77, che regolano a loro volta l’esercizio di potere normativo. In particolare l’art. 77 chiarisce che il Governo, pur se con l’autorizzazione delle camere, può emanare atti che abbiano valore di legge ordinaria. Inoltre, in casi straordinari di necessità e di urgenza, può adottare sotto la sua responsabilità i provvedimenti provvisori con forza di legge, presentandoli poi alle Camere per la conversione. Appare allora chiaro che l’espressione “atti aventi forza di legge” suole indicare prevalentemente i decreti legge ed i decreti legislativi.
[10] Per tutti i chiarimenti necessari sul concetto di fonte primaria e secondaria si rimanda alla lettura di Paladin L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, pag. 20: “In sostanza, il discorso sulle fonti va progressivamente svolto su tre piani distinti. Il primo attiene alle fonti legali, specificamente abilitate a produrre diritto oggettivo; il secondo considera il momento interpretativo e applicativo dei testi normativi, tramite il quale accade – senza soluzione di continuità – che le vere e proprie norme giuridiche vengano incessantemente estratte dalle disposizioni costituzionali, legislative, regolamentari; mentre il terzo riguarda le rotture e i superamenti della disciplina concernente le fonti legali, riscontrabili nei casi-limite in cui la produzione normativa, extra ordinem riesce ad avere successo, invece di risultare bloccata, disapplicata o annullata nelle forme previste dall’ordinamento…per definizione, le fonti legali sono dunque gli atti e i fatti dai quali viene posto e continuamente rinnovato un certo ordinamento giuridico…”.
[11] Tale orientamento, esposto in particolare da Mortati, avrebbe voluto assoggettare al sindacato anche i regolamenti quando, derogando alla legge, ne acquisivano la stessa efficacia sostanziale.
[12] Rileva De Vergottini G., Diritto costituzionale, Padova, 2004, pag. 605 che: “l’accettazione di tale forma di controllo non è stata facile, in quanto i tribunali costituzionali formati attraverso procedimenti non elettivi e irresponsabili verso il corpo elettorale, privi perciò di legittimitazione politica popolare, sono stati visti come inconciliabili con una tradizionale concezione della sovranità popolare. Per ammetterli si è dovuto riconoscere non solo la astratta superiorità della costituzione, ma la preminenza sul ruolo dell’organo politico elettivo-rappresentativo di quello di un organo tecnico cui la costituzione affida la delicatissima attribuzione di verificare il rispetto del principio di costituzionalità da parte del primo”.
In merito anche Cuocolo F., Principi di diritto costituzionale, Milano, 1999, pag. 788: “La Corte costituzionale nel nostro ordinamento è organo di garanzia e, in quanto tale, esercita un controllo, in forma giurisdizionale, su taluni atti dello Stato e delle Regioni e giudica sui comportamenti, penalmente rilevanti, del Presidente della Repubblica, nei limiti stabiliti dalla Costituzione”.
[13] Si tralasciano volontariamente le, pur interessanti, questioni di portata non direttamente pratica che solleva D’orazio G., Soggetto privato e processo costituzionale italiano, Torino, 1992, pag. 5: “…l’idea – oggi largamente accolta nei diversi ordinamenti, nonostante la diversità delle forme di Stato e di governo – di un processo, di un’attività regolata da norme giuridiche, per quanto elastiche, volta al fine di imporre limiti non più esclusivamente politici (cioè, in sostanza, autolimiti), bensì giuridici, stabiliti (almeno secondo la ratio del nuovo ordine concettuale) non in virtù di una mera contingente forza politica, sia pure tradotta in leggi ordinarie, ma (quanto meno, anche) in nome di un precostituito e sovraordinato ordine normativo. Tale idea veniva, in tal modo, a collocarsi su un piano non più filosofico e politico e giusnaturalistico, chè, nella logica razionalità della sua più recente enunciazione ed elencazione, era in sé nuova e, nel suo genere, veramente rivoluzionaria rispetto alle teorie ed alle dottrine tradizionali dello Stato e delle sue funzioni, nonché dei suoi rapporti con i cittadini”.
[14] Cfr. Martines T., Diritto costituzionale, Milano, 2003, pag. 312: “L’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti equiparati può farsi valere secondo due distinti procedimenti: un primo procedimento in via d’eccezione (o incidentale) ed un secondo in via d’azione (o per impugnazione diretta). Questo secondo procedimento può essere adottato soltanto dallo Stato per impugnare una legge regionale o provinciale o dalla Regione per impugnare una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o una legge di un’altra Regione. Resta pertanto esclusa, nel nostro sistema, l’impugnazione diretta delle leggi e degli atti equiparati, che si ritengano in contrasto con la Costituzione, da parte di chi lamenti che una legge o un atto equiparato abbia leso una sua situazione giuridica soggettiva.
[15] Cfr. Virga P., Il diritto costituzionale, Milano, 1979, pag. 539: “Il giudizio di legittimità costituzionale della legge, salva l’azione in via principale…, non può essere promosso se non in via incidentale nel corso di un giudizio, per la cui definizione la questione di legittimità costituzionale della legge appaia rilevante. Manca quindi nel nostro ordinamento la possibilità per il cittadino o l’autorità amministrativa di sollevare in via principale la questione di incostituzionalità; questa potrà essere dedotta solo nel corso di un giudizio di merito innanzi ad una autorità giurisdizionale, essendo il giudice di merito l’introduttore necessario del giudizio di costituzionalità”.
[16] Così sembra suggerire D’alessio A., Le parti nel giudizio amministrativo, Roma, 1915
[17] Nota dunque Abbamomte G., Il processo costituzionale italiano, Napoli, 1962, pag. 20: “Al giudizio incidentale può, quindi, partecipare qualsiasi soggetto di diritto che sia stato parte nel giudizio a quo senza potere, tuttavia, prendere alcuna iniziativa ; il legislatore si è limitato a stabilire che le parti possono presentare le loro deduzioni appunto perché il legislatore costituzionale aveva riservato l’iniziativa all’autorità giudiziaria”.
A proposito anche De Vergottini G., Diritto costituzionale, Padova, 2004, pag. 615: “L’illegittimità costituzionale si fa valere o in via di eccezione o incidentale, nel corso di un procedimento giurisdizionale in corso, o in via di azione impugnativa o principale…il procedimento in via incidentale assume dunque una considerevole rilevanza non solo per la oggettiva tutela della costituzione ma altresì per la protezione di diritti di cui siano titolari persone fisiche o giuridiche. Chi lamenta la lesione di un proprio diritto da parte di una legge ritenuta adottata in violazione della Costituzione non ha accesso diretto alla corte ma deve sollevare apposita questione nel corso di un giudizio dinanzi a una autorità giurisdizionale. La questione può essere sollevata anche per iniziativa della stessa autorità giurisdizionale”.
[18] V. Abbamomte G., Il processo costituzionale italiano, Napoli, 1962, pag. 20: “Nel giudizio in via principale sono parti i soggetti di potestà legislativa ai quali, in vista della loro particolare qualificazione, è attribuito il potere di iniziativa della legge costituzionale: il legislatore ordinario ha determinato soltanto, nell’ambito dei suddetti enti, gli organi abilitati a deliberare l’impugnazione, a costituirsi in giudizio e a resistervi”.
[19] La cd. “legittimazione attiva”.
[20] La cd. “legittimazione passiva”.
[21] La norma contenuta nell’art. 131 della Costituzione elenca le venti Regioni che compongono il nostro Paese.
[22] Peraltro, rileva Abbamomte G., Il processo costituzionale italiano, Napoli, 1962, pag. 26: “I rilievi finora espressi dispensano dal trattenersi sulla natura della situazione soggettiva tutelata con il ricorso in via principale; infatti, trattandosi di fattispecie vincolate per la delimitazione dei soggetti, dell’oggetto, del titolo, del giudice competente, non giova domandarsi se si faccia valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo perché i problemi di competenza e di procedimento che a questa distinzione si collegano sono stati risolti dal costituente. Giova soltanto ribadire che non si è in presenza di una delle manifestazioni del diritto di agire in giudizio bensì di una funzione costituzionale intesa a provocare il controllo della Corte costituzionale sulle leggi dello Stato e delle Regioni per quanto concerne l’osservanza dei limiti posti a garanzia delle autonomie locali, da un lato, e dell’unità della sovranità dello Stato, dall’altro”.
[23] Al riguardo, chiarisce D’orazio G., Soggetto privato e processo costituzionale italiano, Torino, 1992, pag. 57: “Il ruolo del soggetto privato in un sistema di giustizia costituzionale può essere individuato, essenzialmente, sotto tre distinti profili: a) innanzi tutto, ed in via logicamente pregiudiziale, in ordine al riconoscimento stesso di una sua potestà di accesso diretto all’organo di garanzia (nel quadro, eventualmente, di una più ampia articolazione e distribuzione dell’iniziativa processuale anche tra soggetti ed organi pubblici) ; b) inoltre, con riguardo ad una sua (eventuale) facoltà di intervento in un processo costituzionale da altri soggetti (od organi) promosso (determinando, di conseguenza, o un ampliamento del contraddittorio dinanzi al giudice delle leggi o procurando di offrire a quest’ultimo, ab extrerno, un contributo di opinione quale amicus curiae); infine, c) rispetto all’esercizio di facoltà processuali dopo l’eventuale sua costituzione o intervento nel giudizio costituzionale, quando sia ad essi, rispettivamente, legittimato. In ogni caso e complessivamente, l’individuazione di quel ruolo (non soltanto in senso strettamente tecnico-processualistico, ma anche per i suoi riflessi o presupposti politico-istituzionali) è strettamente collegata, in iure condito, alla soluzione del più generale problema della finalità e natura che a quel particolare (tipo di) processo sono assegnate dall’ordinamento (tenendo, peraltro, conto che, nell’ordinamento italiano, tali caratteri non sono identici od omogenei per i diversi tipi di giudizio di competenza della stessa Corte costituzionale, se non sotto l’onnicomprensivo ed unificante – ma, a questo proposito, generico – profilo della garanzia costituzionale e che, pur a parità di qualificazione dommatica, ad es. giurisdizionale, diversa è, comunque, la struttura di tali giudizi”.
[24] V. in merito Virga P., Il diritto costituzionale, Milano, 1979, pag. 542, il quale chiarisce anche che: “nel corso del giudizio, una delle parti o il pubblico ministero o anche lo stesso giudice possono sollevare la questione di legittimità costituzionale, avanzando all’uopo un’istanza con cui indicano le norme che si ritengono incostituzionali, le norme della costituzione e di altre leggi costituzionali che si ritengono violate ed i motivi dell’asserita incostituzionalità…il giudice, dopo aver accertato la sussistenza di tutte le condizioni necessarie per la proposizione della questione di costituzionalità e dopo aver deciso sulle pregiudiziali diverse da quella di costituzionalità, deve compiere un giudizio di delibazione circa la fondatezza dell’istanza…la rilevanza dell’istanza”.
[25] V. Rodotà C., La Corte costituzionale, Roma, 1986, pag. 57: “La Corte non voleva alterare il sistema quando si poteva dare un’interpretazione delle disposizioni impugnate diversa da quella che ne davano i magistrati ordinari: un’interpretazione, cioè, non contrastante con la costituzione. Ma su tale strada c’era l’ostacolo insormontabile – alla stregua del diritto vigente – del geloso e inflessibile attaccamento dei giudici comuni, al di là delle pronunce della Corte e dei consensi da questa riscossi nella dottrina, alle loro interpretazioni. Perciò, in un secondo tempo, ha incominciato a ricorrere sempre più di frequente alle dichiarazioni di incostituzionalità parziali rafforzate attraverso l’espediente di quelle sentenze che il linguaggio tecnico ha definito manipolatorie: sentenze volte a far sopravvivere i testi legislativi ristrutturati in una formulazione sostanzialmente nuova e diversa rispetto a quella originaria”.
[26] Si vedano in particolare le sentenze n. 64 del 1961 e n. 126 del 1968. Con la prima la Corte giudicò perfettamente compatibile con il principio costituzionale dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi l’allora regime penalistico in tema di adulterio, che puniva la moglie con la reclusione ed invece il marito solamente nel caso di concubinato stabile e notorio. Le numerose critiche che suscitò la sentenza portarono, nel 1968, all’adozione di una logica finalmente rispettosa dei diritti della moglie e della donna, dichiarando incostituzionale la norma medesima.
[27] In una sentenza di qualche anno successiva, la n. 175 del 1973, la Corte ribadirà nuovamente lo stesso concetto, all’unanimità. I giudici avvertirono l’esigenza di assicurare la credibilità dell’organo di giustizia costituzionale, ossia la loro stessa credibilità, non modificando una decisione presa appena due anni prima. Respinsero inoltre le forti pressioni politiche ricevute da parte dei partiti vicini alla chiesa cattolica.
[28] Cfr. Rodotà C., La Corte costituzionale, Roma, 1986, pag. 51: “Sei anni dopo, con le sentenze n. 108 e n. 109 del 1981, la Corte respinge le eccezioni di incostituzionalità sollevate contro la legge di depenalizzazione dell’aborto da ben sedici magistrati ordinari. Alcuni contestavano la legge in blocco, bollandola come frutto di una campagna di mistificazione. Altri si limitavano a chiedere alla corte di dichiarare illegittimo il principio di autodeterminazione della donna”.
[29] Al riguardo, sempre Rodotà C., La Corte costituzionale, Roma, 1986, pagg. 68 ss., sostiene che: “La prima e più significativa sentenza è la n. 16 del 1978. Riguarda otto referendum chiesti dal Partito radicale per abrogare il Codice militare di pace, l’ordinamento giudiziario militare, la legge sul finanziamento pubblico ai partiti, il concordato, la legge sui manicomi, novantasette articoli del codice penale, la legge Reale, la Commissione parlamentare inquirente. Questi referendum vengono considerati una mina vagante sulla strada dell’ordinario svolgimento della vita politica e istituzionale. La Corte, giudicando sulla loro ammissibilità, disinnesca la mina. Ma, per farlo, riscrive la disciplina dell’istituto del referendum, colmando le lacune della legge di regolamentazione del 1970. I partiti dapprima sospirano di sollievo per aver evitato il rischio di essere sommersi da un’ondata di qualunquismo. Poi si rendono conto che la Corte ha suddiviso in modo nuovo il potere e se ne è preso un po’ di più, a scapito del Parlamento”.

Sgueo Gianluca

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