1) L’art. 1 e l’art. 10 della legge 46/06 sull’inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento
Entrata in vigore il 9 marzo 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 40 del 22 febbraio 2006, la legge n. 46, in breve c.d. Legge Pecorella, ha destato svariati dibattiti e polemiche soprattutto in relazione alla previsione sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. Infatti, mentre prima della riforma l’articolo 593 c.p.p stabiliva che “1. salvo quanto previsto dagli articoli 443, 448, comma 2, 469, il Pm e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna o di proscioglimento. 2. L’imputato non può appellare contro la sentenza di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto. 3. Sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e le sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa”, in base all’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 si prevede che “l’articolo 593 del codice di procedura penale è sostituito dal seguente: 1. salvo quanto previsto dagli articoli 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680, il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna. 2. L’imputato e il pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di proscioglimento nelle ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva. Qualora il giudice, in via preliminare, non disponga la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale dichiara con ordinanza l’inammissibilità dell’appello. Entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento le parti possono proporre ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado. 3. Sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda”.
Inoltre, in base all’art. 10, primo e secondo comma, della legge n. 46/06, si riteneva che “1. la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima. 2. L’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall’imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile”.
Per meglio comprendere la ratio interna della riforma, è necessario rifarsi al tipico modello accusatorio di origine anglosassone, ed in particolare al principio di presunzione di innocenza dell’imputato; l’intera riforma è infatti ispirata al principio per cui, qualora il pubblico ministero non riesca a vincerla in primo grado, tale presunzione diviene assoluta. In effetti, dunque, i principi ispiratori della riforma derivano dall’esperienza del diritto internazionale (si pensi ad esempio all’art. 14 comma 5 del Patto internazionale), nonché dalla tradizione normativa della maggior parte dei paesi di origine common law. Solo a titolo esemplificativo e senza alcuna presunzione di completezza ma solo per meglio comprendere i principi – guida della riforma, basti ricordare che nell’ordinamento processuale penale inglese vige da sempre il principio della intangibilità del giudicato assolutorio di primo grado. Ciò significa che le sentenze assolutorie chiudono definitivamente la vicenda processuale, per cui di conseguenza al pubblico ministero non viene riconosciuto il diritto di impugnare le sentenze che assolvono l’imputato nel giudizio ordinario. L’impugnazione è una prerogativa del condannato (par. 108-110 Magistrates’ Court Ac,t 1980) che può contestare sia il merito della decisione (“convinction”, cioè l’affermazione di colpevolezza, anche in caso di confessione) sia la entità della pena inflitta (“sentence”),con riferimento ai provvedimenti di condanna emessi da entrambi gli organi giurisdizionali di primo grado (la Magistrates’ Court e la Crown Court). Nell’ipotesi in cui venga contestato un provvedimento emesso dalla Crown Court, l’appello viene considerato ammissibile soltanto a fronte del requisito – recentemente codificato (1995) – della “safety of the convinction”, cioè solo se “la condanna è ingiusta”. In conclusione, coerentemente con i principi del modello accusatorio inglese si consente una seconda chance soltanto in caso di condanna, garantendo la celebrazione di un nuovo e completo giudizio nel contraddittorio delle parti. La sentenza di assoluzione, invece, chiude definitivamente il processo. Tornando, poi, ai principi ispiratori della riforma, lo stesso on. Pecorella ha avuto modo di sottolineare in uno dei numerosi dibattiti antecedenti all’entrata in vigore della riforma, il legame sussistente tra la presunzione di innocenza e la necessità che essa, se superata, lo sia in maniera particolarmente pregnante (espressione tradotta dall’angloamericano “beyond any reasonable doubt”, ossia “al di là di ogni ragionevole dubbio”). In questo modo, quando non si riesca a superare tale presunzione già nel primo grado, si inibisce la possibilità di raggiungere tale prova nei gradi successivi, perché si tratterebbe comunque di una “prova” non abbastanza forte e pregnante, data la sua difficoltà di superare la presunzione di innocenza iniziale.
2) I dubbi di compatibilità del nuovo dettato con il principio di parità delle armi ai sensi dell’art. 111 Cost.
Un ostacolo all’entrata in vigore della riforma era invece costituito dalla polemica, dai toni non sempre pacati, sulla presunta incostituzionalità del nuovo regime, soprattutto alla luce del principio di parità delle armi, garantito alle parti processuali dall’art. 111 Cost.. In effetti, le preoccupazioni che già anticipavano l’entrata in vigore della legge e che l’avevano sempre accompagnata durante tutti i lavori preparatori, si sono poi realmente ritorte contro di essa, grazie alla tempestiva e rapida censura di costituzionalità, pronunciata prontamente dalla Corte sull’incompatibilità dell’art. 1 e dell’art. 10 della legge Pecorella con diversi principi costituzionali, tra cui anche l’art. 111 Cost. Ad ogni modo, per meglio comprendere il dibattito che aveva accompagnato la formazione della legge e le motivazioni che avevano portato il legislatore a non accogliere i previdenti dubbi di incostituzionalità, occorre precisare che in effetti il principio di parità delle parti non trova la propria sede naturale nel processo penale, poiché al suo interno si realizza già una evidente posizione privilegiata della pubblica accusa.Il concetto di “giusto equilibrio” non comporta necessariamente il riconoscimento di eguali poteri tra le parti processuali davanti ad un giudice terzo ed imparziale, ma l’“égalité des armes” implica l’obbligo di offrire ad ogni parte la concreta possibilità di esporre la propria difesa in parità di condizioni rispetto all’avversario. L’invocazione della norma costituzionale che ha cristallizzato le garanzie del “proces equitable” non comporta sempre e necessariamente una identità assoluta e simmetrica di strumenti, ma piuttosto un insieme di regole generali da modulare in ragione della intrinseca diversità delle funzioni processuali. Ad ogni modo, nonostante questa interpretazione “elastica” e flessibile del principio di cui all’art. 111 Cost., la privazione del pubblico ministero del diritto ad un secondo grado di giudizio, posto che non può presentare appello avverso le sentenze di assoluzione, suscita inevitabilmente numerosi dubbi di compatibilità costituzionale, nonostante la lettura ampia appena formulata del principio di parità delle parti, non inteso cioè come rigida e formale simmetria di poteri e facoltà, ma piuttosto come uno strumento di adeguamento sostanziale ai casi concreti ed alle varie situazioni processuali.
3) L’applicazione pratica del disposto normativo tra accese polemiche ed incertezze di conformità al dettato costituzionale
La promulgazione della nuova legge in materia di impugnazioni ha riacceso, inoltre, i riflettori sulla patologica lunghezza del processo penale italiano; malessere per il quale, nel contesto europeo, l’Italia si presenta ancora come “vigilata speciale” del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, in più occasioni infatti tale si è occupato di sollecitare il nostro paese affinché aderisse con maggior rigore alle Convenzioni europee in tema di ragionevole durata del processo . In definitiva, l’insegnamento profuso dalla giurisprudenza di Strasburgo rammenta che ogni singolo Stato contraente è tenuto a predisporre la propria organizzazione processuale in modo tale da consentire ad ogni Tribunale di celebrare il processo in tempi ragionevoli, vale a dire nei tempi strettamente necessari per compiere le attività funzionali al perseguimento dello scopo tipico del processo (inteso come verifica della fondatezza dell’accusa elevata contro il singolo). Alla luce di una simile interpretazione, vengono considerati "non ragionevoli" i tempi morti, cioè tutti quegli intervalli tra un’attività processuale e l’altra non giustificabili in base ad oggettive esigenze del processo e cioè non necessarie per l’accertamento del reato in tutti i suoi elementi tipici. La nuova legge in tema di appellabilità del pubblico ministero indubbiamente contribuisce ad accelerare certi “tempi” processuali, eliminando il necessario passaggio dal doppio grado di giudizio nel caso di sentenze di proscioglimento. In un’ottica positiva, non vi sono allora dubbi che la cd. legge Pecorella si inserisca, in questo senso, in un tentativo del nostro legislatore di adeguare e razionalizzare l’ordinamento giuridico interno alla luce anche delle direttive e degli insegnamenti recepiti a livello europeo. In realtà, tuttavia, come vedremo meglio in seguito, la stessa Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della legge, ha espressamente chiarito che l’adesione del nuovo testo normativo al principio della ragionevole durata del processo, sebbene rappresenti una scelta significativa ed importante soprattutto alla luce dell’impegno dell’Italia nei confronti della Comunità Europea, non è di per sé sufficiente a salvarlo dalla censura di incostituzionalità, alla luce dell’esistenza e del necessario contemperamento anche con altri principi costituzionali, quali ad esempio quello di cui all’art. 111 Cost.
Sulla base della riforma ad ogni modo non veniva escluso tout court il potere impugnativo del pubblico ministero nei confronti di tutte le sentenze di proscioglimento, residuando comunque un potere di appellare tali pronunce nel caso previsto dall’articolo 603, comma 2, del c.p.p. – ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado – e sempre che tali prove risultino decisive. Durante uno dei numerosi dibattiti tenuti dallo stesso On. Pecorella, si è avuto modo di evidenziare che l’appellabilità del P.m. dovrebbe essere limitata solo al caso di una cd. “prova nuova”, e cioè solo nell’ipotesi di una prova “inesistente in precedenza”, escludendo pertanto tutte le prove che sebbene già esistenti in precedenza emergano solo successivamente. Per quanto riguarda il requisito della decisività, invece, ricorre allorquando, in presenza di tale prova, il giudizio di primo grado si sarebbe svolto diversamente. In tali casi, in cui al P.m. è eccezionalmente riconosciuto il potere impugnativo, saranno ammissibili anche i cd. “motivi nuovi” o “aggiunti”, a condizione però che siano collegati a detta prova nuova, oppure relativi ad una seconda, o comunque ulteriore, prova nuova.
Qualche perplessità finale, tuttavia, emerge dall’esame delle regole di diritto transitorio che pur adottando una opzione giuridicamente ineccepibile, consentendo la immediata applicazione della legge più favorevole al reo, provocano di fatto degli importanti effetti retroattivi sulle procedure giudiziarie in corso.
4) I dubbi di costituzionalità si ripercuotono sul piano applicativo: i giudici di merito sollevano le prime questioni di compatibilità di fronte alla Consulta
I riflessi del dibattito politico – giuridico che aveva accompagnato la formazione e la successiva entrata in vigore della legge Pecorella non sono tardati a ripercuotersi sul piano più strettamente applicativo, destando tra gli operatori del diritto numerose preoccupazioni e dubbi di costituzionalità. Infatti già dopo pochi mesi dall’entrata in vigore della discussa riforma, la Corte d’appello di Roma e la Corte d’appello di Milano avevano occasione di sollevare di fronte alla Corte costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 10 della legge 46/2006 (“modifiche al c.p.p., in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento”), nella parte in cui, rispettivamente, escludevano che il P.m. potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento (articolo 1); e prevedevano che l’appello proposto dal P.m., avverso una di dette sentenze, anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge, venisse dichiarato inammissibile, se non nel caso previsto dall’articolo 603, comma 2, del c.p.p e sempre che tali prove risultino decisive (articolo 10). Le Corti d’appello rilevavano come, nelle more del gravame, la legge 46/2006 fosse entrata in vigore, sostituendo l’art. 593 c.p.c. e modificando il regime di appellabilità delle sentenze di proscioglimento, generando alcuni dubbi di compatibilità costituzionale. Ad avviso dei giudici a quibus, in particolare l’art. 1 della legge censurata, insieme con l’art. 10 che applica il principio della retroattività della norma più favorevole, violerebbe diversi precetti costituzionali.
- Essa risulterebbe lesiva, anzitutto, del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost.: consentire, infatti, all’imputato di proporre appello nei confronti delle sentenze di condanna senza concedere al P.m. lo speculare potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento, se non in ipotesi marginali, significherebbe porre l’imputato in “una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti della collettività”;
Infatti, se pure il potere impugnazione del P.m. non costituisse estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale ai sensi dell’art. 112 Cost., una simile asimmetria tra accusa e difesa in relazione al potere impugnativo sarebbe compatibile con il principio di parità delle parti solo ove contenuta entro i limiti della ragionevolezza, in rapporto ad esigenze di tutela di interessi di rilievo costituzionale (come, ad esempio, è avvenuto nei confronti delle sentenze di condanna pronunciate a seguito di giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 443, comma 3, e 595 c.p.p., in cui è stata ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità l’esistenza di principi anche di valore costituzionale in grado di escludere il potere impugnativo del pubblico ministero). In una simile ottica, anche la Corte costituzionale ha avuto modo affermare in più occasioni la compatibilità con il principio di parità delle parti della norma che escludeva l’appello del Pm avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, anche nella sola forma dell’appello incidentale, salvo si trattasse di sentenza modificativa del titolo del reato (articoli 443, comma 3, e 595 Cpp). Una simile giustificazione non potrebbe, tuttavia, valere nei confronti anche nei confronti del giudizio ordinario, non ricorrendo le medesime motivazioni sussistenti per il cd. rito alternativo.
Come già accennato in precedenza, le stesse Corti di merito hanno richiamato l’attenzione sul necessario contemperamento dei vari principi costituzionali in gioco, sottolineando l’esigenza di non sottovalutare il principio di uguaglianza (in chiave sostanziale) o di parità delle armi (in chiave processuale) per favorire al contrario altri principi, come quello della ragionevole durata processuale che, per quanto rilevanti, si pongono pur sempre su di un piano differente.
- La norma censurata si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 24 Cost., non consentendo al pubblico ministero di tutelare adeguatamente i diritti della collettività, e ciò anche quando l’assoluzione risulti determinata da un errore nella ricostruzione del fatto o nell’interpretazione di norme giuridiche.
- Risulterebbe violato, ancora, l’art. 111 Cost., nella parte in cui impone che ogni processo si svolga “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale”, dato che la disposizione denunciata non permette all’organo pubblico di far valere le sue ragioni con modalità e poteri simmetrici a quelli di cui dispone la difesa. Inibendo l’appello avverso le sentenze di proscioglimento sia alla parte pubblica che all’imputato, infatti, si determinerebbe una parificazione solo su di un piano meramente formale. Nella sostanza, verrebbe ad essere limitato effettivamente soltanto il potere di impugnazione del pubblico ministero, dato che l’imputato non ha interesse a contestare una sentenza di proscioglimento e cioè una pronuncia a lui favorevole (con l’unica eccezione dei casi in cui abbia interesse e possibilità di ottenere una pronuncia a lui “più favorevole”).
Inoltre, alla luce del nuovo art. 576 c.p.p., così come modificato dalla stessa legge 46/2006, le sentenze di proscioglimento potrebbero essere appellate ad opera della parte civile. Ne deriva pertanto un ulteriore profilo di disuguaglianza, venendo il P.m. a trovarsi in una posizione deteriore anche rispetto a tale parte privata.
Tale situazione di disparità fra le parti processuali non potrebbe essere attenuata allo stato di fatto neanche dalla facoltà di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento nel caso previsto dall’art. 603, comma 2, c.p.p., dato che si tratta comunque di ipotesi del tutto residuali.
A sostegno della soluzione normativa censurata, non varrebbe neppure invocare, come era stato invece ampiamente sottolineato in sede di promulgazione da parte dei sostenitori della riforma, il diritto della persona accusata alla rapida definizione del processo a suo carico, in forza del principio di ragionevole durata del medesimo (articolo 111, comma 2, Cost.). Infatti, ad opinione delle Corti che avevano sollevato la questione di costituzionalità, il principio della ragionevole durata del processo non potrebbe essere realizzato tramite il sacrificio del potere costituzionale, di non minore rilievo, della parità delle parti ex art. 111 Cost..
4. Da ultimo, le norme censurate lederebbero anche il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale a carico del pubblico ministero ai sensi dell’art. 112 Cost. In questo senso, la previsione di un secondo grado di giudizio di merito sarebbe connaturato al sistema processuale vigente: con la conseguenza che la sottrazione alla parte pubblica del potere di proporre appello avverso le sentenze assolutorie eluderebbe i vincoli posti dal principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale.
5) La risposta costituzionale di illegittimità e l’attuale assetto normativo
I giudici della Consulta, riuniti i giudizi promossi dalle Corti di Appello di Milano e di Roma ed accolte le censure di incompatibilità costituzionale avanzate, hanno dichiarato l’illegittimità dell’articolo 1, comma secondo, della legge 46/2006 con sentenza della n. 26 del 24 gennaio-6 febbraio 2007 (Presidente Bile – Relatore Flick), nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile.La Corte ha dichiarato, inoltre, l’illegittimità costituzione dell’art. 10, comma 2, della citata legge 46/2006, nella parte in cui prevedeva che l’appello, proposto contro una sentenza di proscioglimento dal P.m., prima della data di entrata in vigore della medesima legge, venisse dichiarato inammissibile.
Per quanto riguarda il merito della decisione, la Corte ha specificato ampiamente i propri criteri di giudizio, delineando tra l’altro utili valutazioni ed interpretazioni dei parametri costituzionali citati.
La premessa di base seguita dalla stessa Corte nel valutare la compatibilità delle disposizioni è stata quella, in primo luogo, di collocare la disciplina delle impugnazioni entro l’ambito applicativo del principio di parità delle armi ex art. 111 Cost., sebbene necessariamente interpretato alla luce delle differenze strutturali tra le due parti processuali. Infatti, la Corte ha mostrato di aderire in pieno alla concezione, già accennata, in base alla quale, anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione e simmetria dei poteri e delle facoltà. Le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali le parti stesse sono portatrici, impediscono di ritenere che il principio di parità debba indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Infatti, il pubblico ministero e l’imputato, a differenza del giudizio civile, non sono solo “due parti”, così come la parte pubblica non può essere definita come l’“accusa”, essendo al contrario nel nostro ordinamento un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi. Alterazioni, quindi, di una perfetta e speculare simmetria, tanto nell’una che nell’altra direzione ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata, sono invece compatibili con il principio di parità, purchè sia rispettato l’equilibrio strutturale delle funzioni.
In questo senso, allora, la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto di impugnare le sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 1 e dell’art. 10 della cd. legge Pecorella.
Daria Perrone
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