Principio costituzionale del pubblico concorso e utilizzo in chiave premiale del rapporto di lavoro a termine.

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Sempre più spesso la flessibilità del lavoro viene ad essere intesa quale sinonimo di impiego precario[1].
A tale equivalenza però non corrisponde un’equazione da intendersi in termini assoluti e  immutabili.
La precarietà del lavoro è sicuramente un male ( taluni[2], efficacemente, hanno parlato di                              “ maledizione dell’incertezza ” ), così come – pure sotto il profilo sociale – sicuramente non può essere attribuita una valenza positiva all’inefficienza ed inefficacia che attualmente sovente connotano l’azione amministrativa pubblica ed a cui l’avvento della flessibilità – anche nell’ambito del lavoro pubblico – ha teso ad ovviare[3], generando, tuttavia, secondo molti soltanto appunto precarietà.
Sono questi i temi e i problemi che il lavoro – anche pubblico – flessibile, così come allo stato concepito e regolamentato, pone sul tappeto.
Temi, problemi e, in definitiva, argomenti-istanze sociali di tutto rispetto ed indiscussa attualità.
Della necessità di efficienza e modernizzazione della P.A. costituiscono segnali inequivocabili, ad esempio, l’affermarsi dell’analisi per costi e benefici nella nuova “ scatola degli attrezzi ” dell’amministrazione pubblica, nonché la sempre maggiore attenzione prestata alle politiche di budgeting nell’ambito dell’agire pubblico[4].  
Ugualmente ispirato, dal punto di vista pragmatico, ad una logica di tutela aziendale appare l’impianto di diritto pubblico che trova il suo fondamento nel principio, ex art. 97/3 Cost., del pubblico concorso per l’accesso ai ruoli fissi della P.A. e che prevede l’inammissibilità della conversione in indeterminato del pubblico impiego a termine attraverso il divieto di cui all’art. 36/2 del D.Lgs. n. 165 del 2001[5] ( ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Consulta con la sentenza n. 89 del 2003 e compatibile con il diritto comunitario dalla Corte di Giustizia con due recenti decisioni del settembre 2006 ).
Pare potersi affermare, senza enfasi, che si assiste al passaggio ad una nuova epoca : dalla tutela del solo lavoratore a quella “ anche ” della pubblica amministrazione, datore di lavoro.
Se questi sono i temi, attesa la loro rilevanza sia sociale che tecnico-giuridica, si impone una rimodulazione del lavoro flessibile in termini tali da rendere lo stesso capace di adempiere in modo più efficace alle sue originarie finalità e, nel contempo, eliminarne o, comunque, attenuarne le relative distorsioni soprattutto sul piano della precarietà.
A tal fine pare improcrastinabile procedere ad un nuovo bilanciamento degli interessi in gioco; intraprendendo una strada che consenta di rendere effettivamente incentivante il lavoro pubblico temporaneo per entrambe le parti da tale tipologia di pubblico impiego interessate.
Questo nell’ambito di un percorso di stabilizzazione meritocratica-premiale che possa consentire al lavoro pubblico a termine di passare da una connotazione – anche a livello di percezione sociale[6] – in termini di mero lavoro precario ad un’altra con caratteristiche di possibile password al fine di contemperare l’esigenza di un impiego stabile con quella di efficienza del sistema che, anche nell’ambito dell’azione amministrativa pubblica, è sempre più avvertita.
Diversi sono gli scenari e i meccanismi al riguardo ipotizzabili.
Possibili configurazioni premiali del lavoro pubblico a tempo determinato potrebbero essere la previsione in via generale nell’ambito dei concorsi per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della P.A. del servizio precedentemente prestato a termine quale titolo di preferenza “ a parità di merito ”, a prescindere dall’eventuale ottenimento dell’attestazione di lodevole servizio, invece, allo stato richiesta.
Ancora, in proposito, si potrebbe pensare all’esonero dalle eventuali prove preselettive previste per l’accesso a tali ruoli fissi dei lavoratori con una precedente – anche dal punto di vista temporale, significativa – esperienza di pubblico impiego a termine.
Inoltre, si potrebbe procedere alla previsione, sempre in via normativa, di una preselezione per soli titoli nell’ambito dei quali valutare adeguatamente il precedente servizio prestato presso la P.A; oppure a prevedere l’obbligo di indire i concorsi per posti a tempo indeterminato non solo per esami, ma anche necessariamente per titoli tra i quali valutare il precedente servizio a termine presso l’amministrazione pubblica.
Peraltro tali meccanismi incentivanti non si pongono tra loro in termini di alternatività, sicché se ne potrebbe anche auspicare un utilizzo in maniera cumulativa, sia pure ovviamente nel rispetto del criterio della compatibilità.
Dunque, si potrebbe procedere ad una nuova regolamentazione dei concorsi pubblici che consenta di “ premiare ” precedenti esperienze di lavoro a termine all’interno di un sistema incentivante[7], piuttosto che nell’ambito di un meccanismo di “ sanatorie generalizzate ” che, seppur indubbiamente recepiscono le istanze sociali in tema di lavoro stabile, non altrettanto effettuano con riferimento a quelle – parimenti provenienti dalla società – di efficienza ( anche e soprattutto sotto il profilo della formazione e, quindi, pure efficacia ) dell’agire amministrativo pubblico.
Tale scenario pare proporsi come una strategia da porre in essere necessariamente, attesa l’attuale disciplina del lavoro pubblico, la quale non pare in grado di affrontare seriamente sia le istanze sociali di efficienza della P.A. che quelle di lavoro stabile, ignorando, peraltro, le sue stesse potenzialità in materia di formazione “ sul campo ” delle risorse umane pubbliche e, pertanto, in ultima analisi, anche di razionalizzazione della spesa pubblica.
Ripensare ( in questi termini ) il lavoro pubblico ” a termine, del resto, non potrebbe che contribuire a consentire maggiori possibilità di ingresso nell’amministrazione pubblica alla meritocrazia e una più adeguata attenzione a quella “ motivazione ” del lavoratore che i più autorevoli studi di scienza dell’amministrazione[8] individuano, in negativo, come concausa delle inefficienze delle organizzazioni burocratico-formali, ad iniziare da quelle della P.A..
La futura auspicata legislazione – in questi termini – sul lavoro a termine pubblico verrebbe, altresì, a porsi quale meccanismo di feedback riguardo all’efficienza del pubblico impiego, soddisfacendo così, nel contempo, anche un’altra delle esigenze che il “ cambio di mentalità ” registratosi nella coscienza sociale circa l’importanza del buon funzionamento della macchina statale ha comportato : quella del controllo, anche sotto il profilo sostanziale dei risultati, dell’azione amministrativa pubblica.
Flessibilità e precarietà non paiono – così intese – le due necessarie facce della stessa medaglia.
 
                                                                                    
                                                                                                 Sergio Salvatore Manca
                                                                           Contenzioso Lavoro, Sapienza-Università di Roma
 


[1] A tale conclusione giungeva già A. ACCORNERO in Era il secolo del lavoro, Bologna, 1997.
[2] A. VALLEBONA nella relazione dal titolo Evoluzione del diritto del lavoro e crimini contro i giuslavoristi, esposta al Convegno su Il ruolo del sindacato nel nuovo diritto del lavoro tenutosi presso il CNEL il 26 marzo 2002.
[3] In proposito, si può leggere U. POTI ( a cura di ), Lavoro pubblico e Flessibilità, Catanzaro, 2002.
[4] Cenni ad entrambi i fenomeni si possono reperire in M. ALAM., Public sector performance: perception versus reality, Helsinky, 1994.
[5] In materia, si può vedere, peraltro a titolo meramente esemplificativo, L. DE ANGELIS, Il contratto a termine con le pubbliche amministrazioni: aspetti peculiari, in Rivista critica di diritto del lavoro, n. 4/2002.
[6] Su cui cfr. L. GALLINO, Il costo umano della flessibilità, Bari, 2001.
[7] La consapevolezza della cui importanza è sempre maggiormente avvertita : vedi, ad esempio, P. ROMEI, L’incentivo alla produttività nel pubblico impiego in Studi organizzativi, n. 2/1985.
[8] Già A. MASLOW IN Motivazione e personalità ( traduzione italiana , Roma, 1973 ) concentrava su questo aspetto l’attenzione delle sue ricerche.

Manca Sergio Salvatore

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