1. Introduzione
La disciplina delle incompatibilità e del cumulo di incarichi ed impieghi negli enti locali interessa almeno tre questioni distinte.
In primo luogo, l’impianto costituzionale ed i riflessi sulle fonti di regolazione della materia in esame e le differenze con il comparto privato.
In secondo luogo, la previsione di un regime di cumulabilità differenziato dal punto di vista oggettivo e soggettivo, che affianca incompatibilità assolute ad incompatibilità relative, superabili previo specifico procedimento autorizzatorio.
In terzo luogo, un ben delineato regime sanzionatorio, che ha punti di contatto con l’esercizio del potere disciplinare e con l’irrogazione delle relative sanzioni.
Il presente lavoro riguarda gli enti locali territoriali. Stante la medesimezza del regime normativo, i suoi contenuti sono adattabili a tutti i rapporti di lavoro privatizzati, con gli opportuni adattamenti desunti dai contratti collettivi di comparto.
2. La normativa vigente
L’incompatibilità e il cumulo di impieghi e di incarichi nel pubblico impiego sono normate in modo composito ed articolato. La disciplina che le riguarda, infatti, è distribuita fra fonti primarie, fonti secondarie e contrattazione collettiva nazionale di comparto, sia pure in modo residuale.
In primo luogo, le fonti primarie. Al loro esame deve essere premessa una notazione preliminare: le fattispecie in esame attraversano i confini del rapporto di pubblico impiego depubblicizzato, perché comuni sia ad esso, sia a quello estraneo alla privatizzazione.
La materia in esame, infatti, è stata specificatamente sottratta alla regolamentazione pattizia dalla legge di delegazione 23/10/1992 n. 421, il cui art. 2, comma 1, lett. c), num. 7 l’ha sottoposta a riserva di legge per preservare i principî di buon andamento della pubblica amministrazione e di esclusività della prestazione del pubblico dipendente – entrambi costituzionalmente previsti, rispettivamente, degli artt. 97, comma 1 e 98, comma 1 Cost. – e per attuarli in modo omogeneo per tutti i comparti del pubblico impiego.
La disciplina dell’incompatibilità non era estranea all’ordinamento del pubblico impiego nella vigenza del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, il cui art. 63 prevede tuttora un regime sanzionatorio particolarmente severo, che può sfociare nella pronuncia di decadenza dall’impiego previa diffida alla cessazione della situazione contra ius.
Attualmente la fattispecie è regolamentata dall’art. 1, commi da 56 a 65 della Legge 23/12/1996 n. 662 e dall’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. Di non secondaria importanza è anche il suo successivo art. 55, che contiene disposizioni in materia di responsabilità disciplinare. Come sarà mostrato nel § 11, infatti, la violazione delle norme de quibus configura il presupposto per l’attivazione di procedimenti disciplinari, che possono avere ad esito l’adozione di misure espulsive del dipendente.
In secondo luogo, le fonti secondarie.
La normativa primaria che interessa le fattispecie in esame è stata dettagliata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica, con le circolari esplicative 12/2/1997 n. 3, 18/7/1997 n. 6 e 18/1/2003 n. 182, che definiscono il rapporto di esclusività della prestazione lavorativa del pubblico dipendente e le modalità della verifica del conflitto di interessi in astratto piuttosto che in concreto.
Fra le fonti sub primarie vanno annoverati anche i regolamenti interni dell’ente, i quali, devono indicare ex art. 53, comma 5 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, “criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione”.
In terzo luogo, la contrattazione collettiva nazionale del comparto contrattuale.
Sebbene la materia delle incompatibilità e del cumulo di impieghi e degli incarichi sia assoggettata ad una riserva di regolazione ex lege, la contrattazione collettiva nazionale di comparto è tuttaltro che ininfluente. La violazione del dovere di esclusività, infatti, può essere ricondotta ai commi 7, lett. i) o 8, lett. f) dell’art. 25 del c.c.n.l. 6/7/1995, cosi come modificati dal c.c.n.l. 22/1/2004.
La contrattazione collettiva nazionale di comparto, inoltre, rileva in subiecta materia in relazione all’art. 2, comma 2 del codice di comportamento allegato al c.c.n.l. 22/1/2004, secondo il quale “il dipendente mantiene una posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni, anche solo apparenti, di conflitto di interessi. Egli non svolge alcuna attività che contrasti con il corretto adempimento dei compiti d’ufficio e si impegna ad evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o all’immagine della pubblica amministrazione”.
3. La rilevanza costituzionale della materia dell’incompatibilità nel pubblico impiego e le differenze con l’impiego privato
La disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego è una diretta derivazione del dovere di esclusività della prestazione lavorativa del pubblico dipendente.
Essa è, a sua volta, una diretta conseguenza dell’indisponibilità degli interessi pubblici che connotano l’azione della pubblica amministrazione, anche nel momento in cui essa organizza i fattori aziendali necessarî per la realizzazione del programma di governo.
Il dovere di esclusività della prestazione lavorativa del pubblico dipendente, infatti, garantisce l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, la quale non è disponibile per alcuna delle parti del rapporto di pubblico impiego.
Non per il datore di lavoro, perché deve garantire che tutta l’attività degli ufficî sia espletata non solo nel rispetto dei canoni aziendali dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità, ma anche condotta in modo da evitare il concretizzarsi di conflitti di interesse, alla cui configurazione può concorrere lo svolgimento di attività esterne da parte dei suoi dipendenti.
Non per il pubblico dipendente, poiché esso deve riserbare in linea di principio tutte le proprie energie lavorative ad esclusivo vantaggio dell’ente da cui dipende, non dissipandole con l’esercizio di attività concomitanti che lo distolgano dal dovere di collaborazione, tenendo conto che le sue prestazioni sono funzionalizzata al pubblico interesse e non ad interessi particolari.
La sintesi fra i due principî costituzionali fonda non meno di tre corollarî.
In primo luogo, il divieto di svolgimento di attività in conflitto di interessi, talché al pubblico dipendente è preclusa la possibilità di svolgere attività concomitanti ulteriori rispetto al proprio rapporto di impiego che collidano in modo anche solo potenziale con il contenuto concreto delle sue prestazioni lavorative. Esse sono determinate in base alla categoria di inquadramento, al profilo professionale posseduto, al contenuto del contratto individuale di lavoro, ed a tutto ciò che concorre alla determinazione dell’oggetto del rapporto di impiego nei limiti della sua esigibilità secondo l’art. 3, comma 2 del c.c.n.l. 31/3/1999.
In secondo luogo, il divieto per il pubblico dipendente di trarre utilità dirette o indirette dal proprio status, con la conseguenza che gli è precluso spendersi nella vita sociale come tale per di garantirsi opportunità che altrimenti gli sarebbero precluse. È evidente che un tale modo di atteggiarsi arreca disonore alla pubblica amministrazione di appartenenza, ledendone il prestigio e danneggiandone l’immagine e quindi incrinandone il buon andamento.
In terzo luogo, la necessità che lo svolgimento di attività concomitanti sia assoggettata ad una specifica autorizzazione, esplicazione di poteri pubblicistici, proprio perché nel relativo apprezzamento sono coinvolti valori a rilevanza costituzionale, che la pubblica amministrazione deve preservare mantenendo una posizione di primazia che le deriva dalla sua funzione e dall’assoggettamento della relativa azione al principio di legalità.
Da ciò si desume che il principio di esclusività ex art. 98, comma 1 Cost. è funzionale a garantire il migliore standard professionale possibile, ad evitare l’insorgenza di conflitti di interesse fra pubblica amministrazione e terzi ed a tutelare il suo prestigio e l’imparzialità della sua azione.
Proprio per queste ragioni, la disciplina delle incompatibilità è oggi interamente demandata alla regolamentazione ex lege, sia per l’impiego depubblicizzato, sia per quello in regime di diritto pubblico.
Per il primo, opera l’art. 2, comma 1, lett. c), n. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421, secondo il quale “sono regolate con legge, ovvero, sulla base della Legge o nell’ambito dei princìpi dalla stessa posti, con atti normativi o amministrativi, (…) la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici” .
Per il secondo continua a trovare applicazione la sola disciplina prevista dagli artt. 60, 61, 62, 63, 64 e 65 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, unitamente all’art. 1, commi 56 e seguenti della Legge 23/12/1996 n. 662.
Come tutte le situazioni che sono espressione di principî generali a rilevanza costituzionale, anche la disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego deve essere contemperata con il principio, anch’esso di rilevanza costituzionale, desumibile dall’art. 3 Cost.. Il principio di ragionevolezza, infatti, rende possibile la ponderazione di opposti interessi tutti meritevoli di tutela, individuando le ipotesi in cui lo svolgimento di attività concomitanti da parte del pubblici dipendenti è lecita perché sostanzialmente inidonea ad arrecare pregiudizio agli interessi tutelati dalle norme di divieto.
Quanto appena evidenziato consente di cogliere le differenze in materia di incompatibilità rispetto rapporto di lavoro alle dipendenze del privato imprenditore.
In questo ámbito, il divieto di svolgimento di attività concomitanti è espressione non dello specifico dovere di esclusività, ma di quello di fedeltà previsto dall’art. 2105 c.c., secondo il quale “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di impresa, o farne uso in modo da potere arrecare ad essa pregiudizio”.
Qui il divieto di svolgimento di attività concomitanti non è affatto assoluto, ma relativo, e da porre in stretta relazione con il divieto di svolgere attività concorrenziali e lesive del rapporto fiduciario che è alla base del contratto di lavoro subordinato nell’accezione indicata dal combinato disposto degli artt. 2086, 2094 e 2114 c.c..
Proprio per questi motivi, al comparto privato è estraneo il divieto generalizzato di svolgere una pluralità di attività lavorative o para-lavorative concomitanti, le quali sono e/o divengono illecite solo quando in conflitto di interessi in concreto.
Le condizioni dell’illecito, pertanto, nulla hanno a che fare con la preservazione del prestigio del datore di lavoro, ma si esauriscono nel divieto – sanzionato fino al limite del licenziamento – di menomare quel nesso fiduciario che deve sempre sussistere fra datore di lavoro e lavoratore, del quale il divieto di attività concorrenziale ed i comportamenti genericamente infedeli sono sintomo, purché accertati in concreto ed ex post.
4. La riserva di legge e l’estraneità alla materia contrattuale
La disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego è assoggettata ad una specifica riserva di regolamentazione mediante fonte legale, ed è quindi sottratta alla contrattualizzazione.
Una tale evenienza è corroborata per tabulas dall’art. 2, comma 1, lett. c), num. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421 e dal successivo art. 11, comma 4 della Legge 15/3/1997 n. 59, sulla base dei quali è stata data attuazione, rispettivamente, alla prima ed alla seconda privatizzazione del rapporto di pubblico impiego.
La ragione della previsione di una riserva di legge, sia pure fondata su uno specifico atto normativo avente forza di legge, deve essere ricercata nell’indisponibilità dei valori costituzionali prima evidenziati.
Essi fondano la specificità dell’interesse della pubblica amministrazione ad assicurarsi integralmente le energie lavorative dei propri dipendenti, l’esigenza di evitare possibili conflitti fra gli interessi della pubblica amministrazione e quelli di altri soggetti, pubblici o privati, per i quali il dipendente dovesse prestare la propria opera, nell’esigenza di inibire la formazione di centri di interesse alternativi rispetto all’ufficio pubblico a cui appartiene il dipendente, nonché le ragioni di indipendenza e prestigio della pubblica amministrazione e, di riflesso, del pubblico dipendente.
Sull’art. 2, comma 1, lett. c) num. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421 si è innestato il successivo art. 11, comma 4 della Legge 15/3/1997 n. 59, ponendo lo specifico problema della sua possibile abrogazione.
A ben vedere, la disposizione della legge delega che fonda la cosiddetta “seconda privatizzazione” non ha determinato alcuna menomazione dell’originaria riserva prevista dal citato art. 2, comma 1, lett. c) num. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421. La prima, infatti, si è limitata a confermarne i contenuti, prevedendo solo nuovi criterî direttivi di delega in modo da attuare il “principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni”, senza toccare testualmente il regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi.
Ciò consente di concludere che la normativa sopravvenuta non ha indotto effetti abrogativi sulla prima, determinando solamente uno specifico problema di coordinamento. La normativa delegata adottata in sua attuazione, infatti, non esplica alcun effetto innovativo sul regime delle incompatibilità, con la conseguenza che alle “misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro […] assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” sono estranei gli atti con i quali il datore di lavoro interviene per rilasciare o negare l’autorizzazione allo svolgimento di attività concomitanti.
La conclusione è ulteriormente corroborata dalla constatazione che le norme delle due leggi delega ora in esame hanno oggetti differenti, talché fra di esse non può essere configurato alcun nesso di interferenza caducatoria per carenza del relativo presupposto.
Da ciò deriva che l’assenso o la negazione all’esercizio di attività concomitanti ha natura giuridica provvedimentale a contenuto autorizzatorio, e non già privatistico, talché ha ad oggetto un atto amministrativo a contenuto permissivo attraverso il quale viene rimosso un limite all’esercizio di un’attività, sempre che non si versi in una situazione di esclusione assoluta secondo quanto desunto dall’art. 60, comma 1 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3.
La rilevanza pubblicistica della normativa in materia di incompatibilità e cumulo di impieghi ed incarichi permea il testo dell’art. 53, comma 5 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. Esso, infatti, prevede la necessaria predeterminazione di criterî oggettivi e predeterminati “che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione” a supporto del conferimento di incarichi operato direttamente dall’amministrazione, e dell’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da una pubblica amministrazione diversa da quella di appartenenza, ovvero da soggetti privati.
5. La disciplina legislativa applicabile agli enti locali
Il regime delle incompatibilità per il personale degli enti locali era originariamente delineato dall’art. 241 del R.D. 3/3/1934 n. 383, in termini pressoché assoluti, escludendo la possibilità di svolgere attività concomitanti con il rapporto di pubblico impiego, prescrivendo che “salvo che la legge disponga altrimenti, l’ufficio di […] impiegato e salariato dei comuni, delle province e dei consorzi è incompatibile con ogni altro ufficio retribuito a carico dello Stato o di altro ente” fermo restando che “qualora ricorrano speciali motivi […] il Prefetto [… può …] sentita l’amministrazione interessata, può autorizzare […] gli impiegati e i salariati dei comuni, delle province e dei consorzi a prestare opera retribuita presso istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza o di altri enti pubblici locali”.
Tale disciplina era completata dalla previsione secondo cui“ […] gli impiegati e i salariati devono astenersi inoltre da ogni occupazione o attività che, a giudizio del Prefetto […] non sia ritenuta conciliabile con l’osservanza dei doveri d’ufficio o col decoro dell’amministrazione stessa”.
La conseguenza di questo regime dai contenuti particolarmente severi era che, accertato lo svolgimento di un’attività non conciliabile con l’osservanza dei doveri d’ufficio o col decoro dell’ente, quest’ultimo aveva il dovere di dichiarare ex abrupto la decadenza dall’impiego per incompatibilità iuris et de iure, non essendo tenuto a – né avendo il potere di – compiere indagini di specie sulla conciliabilità in concreto delle attività concomitanti svolte con gli specifici doveri impiegatizî. In particolare, non era affatto richiesto verificare se l’attività concomitante fosse tale da comportare l’inadempienza dei doveri di ufficio, essendo direttamente ciò presunto dalla legge.
L’art. 241 del R.D. 3/8/1934 n. 383 è stato abrogato dall’art. 64 della Legge 8/6/1990 n. 142, il cui art. 51, comma 9 ha rinviato al D.P.R. 10/1/1957 n. 3 per la regolamentazione degli istituti della responsabilità in generale ed a quella disciplinare in particolare, rendendo possibile applicare ai dipendenti dei comuni e delle province i suoi artt. 60 e seguenti, 3, mitigando il previgente regime pressoché assoluto delle incompatibilità.
L’evoluzione della normativa è stata completata con l’abrogazione dell’art. 51 della Legge 8/6/1990 n. 142 ad opera dall’art. 74, comma 1 del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29, con la conseguenza che anche per i dipendenti dei comuni e delle province il regime delle incompatibilità e del cumulo di incarichi ed impieghi è disciplinato dall’art. 1, commi 56 e seguenti dalla Legge 23/12/1996 n. 662 e dall’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
6. Le varie ipotesi di incompatibilità e la loro rilevanza in termini assoluti e relativi
La normativa in materia di incompatibilità e cumulo di incarichi ed impieghi enuclea una varietà di situazioni possibili, suddivisibili per l’intensità del vincolo che esprimono dal punto di vista sia oggettivo, sia soggettivo.
Essa prevede divieti a contenuto sia assoluto, sia relativo e quindi superabili mediante autorizzazione all’esercizio dell’attività concomitante previa verifica dell’assenza di conflitto di interessi, da effettuare in astratto e non in concreto.
Il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi deriva dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, secondo il quale “l‘impiegato non può esercitare il commercio, l’industria ne alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”.
La norma è richiamata dall’art. 53, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, la quale prevede che “resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilita’ dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3”, nonché dall’art. 1, comma 56 della Legge 23/12/1996 n. 662.
Il regime di incompatibilità appena delineato tiene conto del nesso di funzionalizzazione che sussiste fra le energie lavorative del dipendente e la loro adibizione all’attività di ufficio e conduce a rafforzare l’orientamento interpretativo che individua nell’intensità dell’attività collateralmente svolta uno specifico índice rivelatore dell’incompatibilità. Essa, pertanto, sussiste quando l’attività collaterale è caratterizzata da elementi qualificanti di natura quantitativa quali la sua protrazione nel tempo, il suo grado di complessità, la non episodicità, la sua stabilità, la sua ripetitività, la professionalità richiesta per il suo svolgimento e la sua remuneratività.
Da ciò si desume che tendenzialmente non sussiste incompatibilità assoluta quando l’attività concomitante è sporadica, occasionale e comunque gratuita.
Ai fini dell’esclusione dell’incompatibilità, per contro, non è sufficiente che il dipendente abbia correttamente assolto ai proprî doveri di ufficio, in quanto il regime de quo mira, da un lato, a preservare le energie lavorative del dipendente nei termini appena visti, e, dall’altro, ad assicurare un utile quanto indisponibile baluardo nei confronti di specifici valori costituzionali a garanzia del prestigio della pubblica amministrazione e della correttezza del suo operato.
L’incompatibilità all’esercizio di attività collaterali interessa non meno di quattro situazioni.
In primo luogo, la titolarità di un altro impiego, ossia di un secondo rapporto di lavoro subordinato, sia esso pubblico o privato.
Nel caso in cui la seconda attività lavorativa sostanzi un rapporto di pubblico impiego, la situazione in cui il dipendente viene a trovarsi è talmente grave da comportare la decadenza dall’impiego originario. Secondo l’art. 65 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, infatti, “gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali. I capi di ufficio […] sono tenuti, sotto la loro personale responsabilità, a riferire [..] i casi di cumulo di impieghi riguardante il dipendente personale. L’assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall’impiego precedente, salva la concessione del trattamento di quiescenza eventualmente spettante […]”.
Si è in presenza di incompatibilità solo quando il secondo impiego abbia i caratteri della stabilità e della continuità, talché essa non v’è quando il rapporto lavorativo subordinato non si protrae nel tempo ed è comunque episodico, ovvero quando esso, indipendentemente dalla sua forma, è contenuto nel tempo.
Il riferimento testuale al lavoro subordinato parrebbe escludere che sussista incompatibilità assoluta nello svolgimento di rapporti di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 2222 c.c., soprattutto quando ha ad oggetto prestazioni di durata. Lo svolgimento di prestazioni saltuarie ed occasionali e di collaborazioni coordinate e continuative, pertanto, non sarebbe incompatibile in termini assoluti, talché esse sarebbero esercitabili qualora autorizzate perché non in conflitto di interessi, sempre che il loro contenuto non sia riconducibile ad attività libero-professionali.
La disposizione deve essere letta in combinato disposto con l’art. 1, comma 58 bis della Legge 23/12/1996 n. 662, secondo la quale “i dipendenti degli enti locali possono svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza”. La norma, che mira a garantire il funzionamento degli enti locali e come tale è lex specialis, esprime una deroga al principio generale enunciato dal successivo comma 60, secondo cui “al di fuori dei casi previsti al comma 56, al personale è fatto divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza e l’autorizzazione sia stata concessa”. Ciò significa che il dipendente comunale a tempo pieno può svolgere attività di lavoro autonomo solo e soltanto se i regolamenti interni dell’ente locale non lo escludono espressamente, sempre che sia circoscritto entro convenienti limiti di tempo, non dia luogo ad una prestazione di durata sine die, non comporti interferenza con l’orario di servizio, il suo contenuto non sia in conflitto di interessi con il rapporto di lavoro in essere con l’amministrazione di appartenenza, ed essa lo abbia espressamente autorizzato.
In materia di cumulo di impieghi negli enti locali talvolta è lo stesso legislatore a prevedere specifici ámbiti di fattibilità.
Ciò si è verificato con l’art. 1, comma 557 della Legge 23/12/2004 n. 311, secondo cui “i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell’attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali, purchè autorizzati dall’amministrazione di provenienza”.
La norma esprime una deroga al principio dell’unicità del rapporto di pubblico impiego, sancito dall’art. 53, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e degli artt. 60 e seguenti del D.P.R. 10/1/1957 n. 3. Essa necessita di un raccordo con quanto previsto dall’art. 92, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, secondo il quale i dipendenti degli enti locali possono svolgere attività lavorativa a favore di altri enti locali solo se sono titolari di un rapporto di lavoro a tempo parziale.
Tale nuova fattispecie prevede comunque la necessità di una specifica autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza. Ciò significa che quest’ultima può accordarla solo per quelle attività che non arrechino pregiudizio alle sue attività e che non interferiscano con i suoi cómpiti istituzionali.
In secondo luogo, la titolarità di cariche sociali in società caratterizzate dallo scopo di lucro in astratto.
Ciò si configura quando il pubblico dipendente assume la legale rappresentanza di società costituite ai sensi dell’art. 2247 c.c., siano esse società commerciali ai sensi dell’art. 2195, piuttosto che agricole ex art. 2135 c.c.. Le cariche sociali che rilevano ai presenti fini sono quelle che si desumono dallo statuto e dall’atto costitutivo della società, e che sono riportate per tabulas sulle visure camerali.
V’è incompatibilità quando l’attività concomitante è quella di amministratore di società per azioni, a responsabilità limitata o in accomandita per azioni, talché per le ultime la qualifica di socio accomandatario configura ex se attività contra ius. Essa sussiste parimenti per il socio accomandatario di società in accomandita semplice e di società in nome collettivo. Per contro, non dà luogo ad incompatibilità la qualifica di socio quando essa non è accompagnata dall’assunzione della legale rappresentanza della società, come accade per il socio accomandante della società in accomandita semplice.
In tutti questi casi, non è consentita l’effettuazione di alcun apprezzamento sull’intensità e sulla continuatività dell’attività concomitante, poiché il divieto di cumulo è fondato sull’opportunità di evitare le disfunzioni e gli inconvenienti che deriverebbero alla pubblica amministrazione di appartenenza dalla circostanza che il proprio dipendente si dedichi ad attività imprenditoriali, formando centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, caratterizzati da un’attività continuativa e professionale alla quale potrebbe essere di supporto e vantaggio proprio lo status di pubblico dipendente. In questa situazione, infatti, il pubblico dipendente finirebbe con trarre un vantaggio personale dal proprio ufficio, arrecando disdoro e pregiudizio all’immagine dell’amministrazione di appartenenza, compromettendone la credibilità.
Non incompatibile è l’assunzione di cariche sociali in società caratterizzate da finalità mutualistiche, quali le società cooperative ai sensi dell’art. 18 della Legge 31/1/1992 n. 59. In questi casi, l’assunzione di cariche sociali non è preclusa in sé e per sé, ma diviene lecita a séguito di autorizzazione, che può essere rilasciata solo quando non sussista interferenza fra lo scopo sociale della cooperativa e il contenuto della prestazione lavorativa poziore.
In terzo luogo, l’esercizio di attività commerciali o industriali.
Il contenuto dell’attività non deve essere inteso testualmente, poiché sono rilevanti ai fini de quibus tutte le attività imprenditoriali esercitate ex artt. 2082, 2083, 2135 e 2195 c.c.. Anche in questo caso, l’incompatibilità assoluta si configura solo in presenza di attività continuative e remunerate.
In quarto luogo, l’esercizio della libera professione o, piú generalmente, di attività libero-professionali.
Sono queste le attività di lavoro autonomo secondo la definizione dell’art. 2222 c.c., caratterizzate da un contenuto intellettuale ai sensi del successivo art. 2230, per le quali è prevista l’iscrizione ad albi o l’appartenenza ad ordini professionali.
Il loro svolgimento concomitante è possibile a partire dal gennaio 1997, ossia dopo che l’art. 1, comma 56 della Legge 23/12/1996 n. 662 ne ha consentito l’esercizio a condizione che il pubblico dipendente sia parte di un rapporto di lavoro con prestazioni che non eccedono la metà del debito orario.
La normativa de qua, pertanto, ha indebolito il tradizionale regime di incompatibilità assoluta, osservato dal punto di vista della pubblica amministrazione, fra pubblico impiego ed esercizio della libera professione, a condizione che il dipendente sia parte di un contratto part-time a contenuto temporalmente qualificato.
7. Il part time e l’attenuazione del dovere di esclusività
Il part-time rileva ai presenti fini perché idoneo ad indebolire il dovere di esclusività a carico del pubblico dipendente, ogni qualvolta questi intenda svolgere attività per la quale vige una situazione di incompatibilità assoluta.
Il riferimento al part-time è oggi contenuto nell’art. 1, comma 56 della Legge 23/12/1996 n. 662 e nell’art. 53, commi 1 e 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, nonché nell’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000.
Esso era già disciplinato dall’art. 7, comma 2 della Legge 29/12/1998 n. 554 e dall’art. 6, comma 2 del D.P.C.M. 17/3/1999 n. 117, ma non era operante con la medesima pregnanza prevista dalla normativa sopravvenuta.
Scopo della normativa sul part time è la facilitazione e l’incentivazione del passaggio dal contratto a tempo pieno al contratto a tempo parziale, rendendolo piú vantaggioso rispetto al previgente assetto normativo, perché cumulabile con una seconda attività lavorativa, di tipo subordinato, autonomo o libero-professionale.
Tutto ciò ha determinato il definitivo venir meno di un ostacolo a priori fondato sulla considerazione che il cumulo di attività lavorative non consentirebbe al pubblico dipendente di dedicare la parte preponderante delle proprie energie lavorative al disimpegno dei proprî cómpiti di ufficio, con conseguenziale detrimento del buon andamento dell’attività amministrativa.
In questo modo, il divieto generalizzato previsto dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3 di esercitare “il commercio, l’industria ne alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”, è espressione di un principio generale dell’ordinamento, ragionevolmente derogato ex art. 3 Cost. quando la prestazione lavorativa non eccede la metà del debito orario normalmente previsto.
La riduzione quantitativa della prestazione nei limiti suddetti è condizione necessaria, ma non sufficiente a rendere lecito l’esercizio di un’attività concomitante altrimenti tassativamente vietata.
L’attività concomitante, infatti, sebbene riconducibile ad una delle fattispecie ex art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, deve avere un contenuto tale da non configurare conflitto di interessi in relazione al suo contenuto.
Detto in altri termini, il dovere di esclusività che incombe sul pubblico dipendente è tendenzialmente assoluto, ma può essere ragionevolmente derogato solo se la prestazione lavorativa è ridotta, sempre che il contenuto dell’attività concomitante non sia incompatibile e quindi non arrechi nocumento al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa ovvero il suo prestigio.
La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale con prestazione lavorativa dimidiata può essere chiesta per lo svolgimento di attività concomitanti, cosí come può accadere che un dipendente che si trovi già in tale situazione intenda svolgere attività concomitante.
In entrambi i casi, sul dipendente incombe l’obbligo di indicare il contenuto dell’attività concomitante.
Nel primo caso, l’accertamento della situazione di conflitto di interessi deve indurre a non dare corso alla richiesta trasformazione del rapporto lavorativo. Opina in questo senso l’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000, i cui commi 7 e 9 prevedono, rispettivamente che “i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale, qualora la prestazione lavorativa non sia superiore al 50% di quella a tempo pieno, nel rispetto delle vigenti norme sulle incompatibilità, possono svolgere un'altra attività lavorativa e professionale, subordinata o autonoma, anche mediante l'iscrizione ad albi professionali” e che “nel caso di verificata sussistenza di un conflitto di interessi tra l'attività esterna del dipendente - sia subordinata che autonoma – e la specifica attività di servizio, l'ente nega la trasformazione del rapporto a tempo parziale”.
Una situazione analoga si verifica in modo simmetrico anche nel caso in cui il dipendente operi già a tempo parziale, ed in tale condizione intenda avviare un’attività concomitante.
Ciò si desume dall’art. 1, comma 58 della Legge 23/12/1996 n. 662, il quale prevede espressamente che “il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all’amministrazione nella quale presta servizio, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa”.
Sul dipendente incombe l’obbligo di fornire indicazioni non generiche sul contenuto delle attività ulteriori che intende esercitare, ponendo l’amministrazione nella concreta e piena condizione di effettuare il proprio apprezzamento sulla sussistenza o meno di conflitto di interessi, e quindi di autorizzare o negare la possibilità di svolgere tale seconda attività.
L’apprezzamento del conflitto di interessi deve essere effettuato in astratto e non in concreto. Ciò significa che l’ente locale di appartenenza deve limitarsi a comparare il contenuto dell’attività concomitante indicata dal proprio dipendente con le funzioni che ad esso sono proprie in ragione della loro specifica attribuzione. Ne deriva la necessità di compiere un apprezzamento cui è proprio un giudizio ex ante, indipendentemente dalle modalità di svolgimento dell’attività concomitante.
Solo in questo modo, infatti, è possibile preservare il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa e quindi evitare che il dipendente tragga vantaggî dallo svolgimento di attività esterne e concomitanti in ragione del proprio status.
Da ciò segue che un’attività potenzialmente in grado di confliggere con il contenuto delle prestazioni lavorative è sicuramente in conflitto di interessi, talché non ne può essere autorizzato lo svolgimento; essa, se comunque esercitata, deve essere repressa in via disciplinare fino a giungere al licenziamento per giusta causa nei casi piú gravi.
8. Il conferimento di incarichi da parte della pubblica amministrazione
Oltre alle attività indicate nel § 6 il dipendente può essere interessato al conferimento di incarichi, sia dalla propria, sia da altra amministrazione.
Tralasciando gli incarichi interni, per i quali vale il regime di conferimento previsto dall’art. 53, commi 2 e 5 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, anche gli incarichi attribuiti da amministrazioni differenti da quelle di appartenenza pongono specifici problemi connessi al regime delle incompatibilità e della loro autorizzabilità.
Secondo quanto previsto dal successivo comma 5, infatti, “l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza […] sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione”.
Gli incarichi de quibus sono solo quelli retribuiti, occasionali o continuativi, che non sono ricompresi nei cómpiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso, talché in presenza di gratuità non v’è problema di incompatibilità e di autorizzabilità in quanto a libera esecuzione.
L’ordinamento, pertanto, risolve il problema dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione sotto il profilo del dovere di esclusività operando una scelta di campo, e quindi ritenendo che tali valori possano essere incrinati solo in presenza di incarichi comunque retribuiti.
La scelta del legislatore è completata dalla previsione di un’anagrafe delle prestazioni, che riguarda le rilevazioni e le comunicazioni dei soli incarichi onerosi nei termini previsti dall’art. 53, commi 11, 12, 13, 14, e 16, cui si aggiunge uno specifico regime sanzionatorio previsto dal comma 15, secondo il quale “le amministrazioni che omettono gli adempimenti di cui ai commi da 11 a 14 non possono conferire nuovi incarichi fino a quando non adempiono”.
L’orientamento del legislatore manifesta tutti i suoi limiti, in quanto il conflitto di interessi è in realtà fondato non tanto sulla remunerazione dell’incarico, quanto sul suo contenuto, ossia sulle specifiche prestazioni che al dipendente sono richieste e commissionate.
La previsione della remunerazione, infatti, può essere certamente un utile incentivo alla ricerca di incarichi a latere da parte del pubblico dipendente, che possono essere compatibili o incompatibili in relazione al loro contenuto. Ma ben può sussistere un incarico gratuito il cui contenuto si ponga in grave contrasto con i doveri di servizio, arrecando disdoro e pregiudizio al prestigio dall’amministrazione di appartenenza.
L’esclusione dall’ámbito delle incompatibilità e del conflitto di interessi delle prestazioni gratuite, tuttavia, impone che debba essere prestata attenzione ai soli incarichi retribuiti, sui quali è costruito il sistema delle eccezioni di cui all’art. 53, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
Ciò consente di concludere che se tutti gli incarichi onerosi sono soggetti ad autorizzazione, essa non è necessaria quando la remunerazione derivi: “a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; c) dalla partecipazione a convegni e seminari; d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; f-bis) da attivita’ di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione”.
In tutti questi casi, sul dipendente non incombe alcun obbligo di segnalazione all’amministrazione di appartenenza, né ad essa residuano poteri inibitorî di sorta. È, pertanto, infondato ritenere che il dipendente debba comunque informare il datore di lavoro sullo svolgimento di tali incarichi, perché il regime eccettuativo ex lege condita non attiva obblighi additivi secondo il principio di buona fede in senso oggettivo ex artt. 1374 e 1375 c.c..
9. L’autorizzazione all’esercizio di attività concomitanti
Come è stato evidenziato nel § 2, il regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi ed incarichi è disciplinato dagli artt. 1, commi 56 e seguenti della Legge 23/12/1996 n. 662 e dall’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
Tale regime è interessato dalla specifica riserva di legge che discende dall’art. 2, comma 1, lett. c), num. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421, ed il cui fondamento deriva direttamente dal combinato disposto degli artt. 97, comma 1 e 98, comma 1 Cost..
La conseguenza di ciò è che il regime autorizzatorio previsto dalla normativa vigente ha natura giuridica di diritto pubblico, e piú specificatamente provvedimentale. L’assenso o il diniego allo svolgimento di attività concomitanti, pertanto, viene reso nell’ámbito di un procedimento amministrativo, che culmina con l’adozione di un vero e proprio provvedimento, del quale condivide gli aspetti, primo fra tutti l’obbligo di motivazione, soprattutto quando di contenuto negativo, inibitorio o ablativo.
Il particolare regime autorizzatorio allo svolgimento di attività concomitanti supporta l’esercizio di attività di gestione del rapporto di impiego non effettuata con i poteri del privato datore di lavoro come prevede in via generale l’art. 5, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e, per gli enti locali territoriali, l’art. 89, comma 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.
La natura pubblicistica e non iure privatorum dell’attività autorizzatoria all’esercizio di attività concomitanti non esplica effetti sull’individuazione del giudice avente giurisdizione, escludendone l’attrazione nella sfera di competenza del giudice amministrativo. Trova applicazione nel caso di specie l’art. 63, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, il quale devolve al giudice ordinario “tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2”, a prescindere dalla natura giuridica degli atti gestorî.
Il regime autorizzatorio all’esercizio di attività concomitanti opera sia in presenza di attività per le quali l’incompatibilità è meramente relativa, sia per le attività in regime di incompatibilità assoluta svolte in concomitanza con la trasformazione del rapporto lavorativo da tempo pieno a tempo parziale.
Il loro svolgimento in assenza di autorizzazione determina l’attivazione del percorso procedurale delineato dall’art. 63 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, che prevede la diffida a cessare dalla situazione di incompatibilità e la decadenza dall’impiego qualora la situazione contra ius non sia cessata entro 15 giorni dall’intimazione, fatta sempre salva l’azione disciplinare nell’ipotesi in cui il dipendente vi abbia ottemperato.
Non ha rilevanza la forma del rapporto esterno, ma assume valore la previa verifica dell’assenza di una situazione potenziale di conflitto, che, ai presenti fini, deve essere valuta in astratto e non in concreto, proprio per preservare il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, con la conseguenza che, l’amministrazione dovrà verificare che non si configurino situazioni di conflitto con le attività svolte nell’ámbito del rapporto di impiego pubblico e che non si vengano a determinare vantaggî di sorta dall’esercizio delle attività ulteriori sfruttando la qualità di dipendente.
L’autorizzazione allo svolgimento di attività concomitanti deve essere resa preventivamente al loro inizio. In questo senso si esprimono i commi 7 e 8 dell’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, che fanno esplicito riferimento alla sua “previetà”. Nel medesimo senso opina anche l’art. 1, comma 58 bis della Legge 23/12/1996 n. 662, secondo il quale “i dipendenti degli enti locali possono svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza”.
L’art. 53, comma 10 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 disciplina il contenuto del procedimento autorizzatorio, individuando i soggetti titolari del potere di impulso, disciplinando i tempi per la sua conclusione e prevedendo specifiche forme di silenzio-assenso per la qualificazione dell’inezia protratta dalla pubblica amministrazione di appartenenza del dipendente interessato al rilascio.
L’autorizzazione deve essere richiesta all’amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati, che intendono conferire gli incarichi o gli impieghi. In questi casi, l’autorizzazione può essere richiesta direttamente anche dal dipendente in predicato di conferimento alla propria amministrazione di appartenenza. Nell’ipotesi di attività professionale autonomamente svolte dal dipendente è pacifico che sia quest’ultimo a doversi attivare direttamente con la propria amministrazione.
Quest’ultima deve comunque pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla sua ricezione, a pena del formarsi del silenzio-assenso, salvo il caso del diniego entro tale temine, da pronunciarsi con provvedimento a contenuto inibitorio assistito da congrua e pertinente motivazione.
È appena il caso di rilevare che la motivazione deve sviluppare le ragioni dell’incompatibilità e del conflitto di interessi rilevati, talché non può affatto fare riferimento a generiche esigenze organizzative o di servizio, anche perché esse non possono essere addotte per intuitive ragioni logiche, a pena di grave illegittimità per eccesso di potere, a sua volta fondamento di ben altre conseguenze sul piano dogmatico. Gli incarichi de quibus, infatti,si svolgono al di fuori dell’orario di servizio e che chi li svolge non può far riverberare conseguenze sull’organizzazione del proprio datore di lavoro.
La previetà ex lege dell’autorizzazione all’esercizio di attività concomitanti pone il problema dell’ammissibilità dell’autorizzabilità ex post, soprattutto in relazione alla gravità delle conseguenze che l’ordinamento connette al loro esercizio in via di fatto.
La questione può essere risolta osservando che il regime autorizzatorio in esame ha natura giuridica provvedimentale e che è principio generale dell’ordinamento che le autorizzazioni, possono essere rilasciate anche in sanatoria, determinando il pieno consolidamento degli effetti loro proprî con efficacia ex tunc e quindi con effetti pienamente sananti.
A ciò si aggiunge che se la funzione dell’autorizzazione è quella di rimuovere un ostacolo all’esercizio di un’attività, e se il particolare regime procedimentale previsto dall’art. 53, comma 10 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 prevede la formazione di un silenzio-assenzo nel caso in cui il dirigente sia rimasto inerte, un’autorizzazione in sanatoria deve ritenersi piú che valida a fortori, perché un apprezzamento sull’assenza di conflitto di interessi è stato comunque storicamente svolto.
In questi casi, infatti, il dirigente che gestisce il rapporto di lavoro svolge comunque una verifica sull’assenza di conflitto di interessi comportandosi come avrebbe fatto in condizioni di previetà. Da ciò discende che i poteri di apprezzamento in suo possesso sono identici a quelli di spettanza in tale ultima circostanza e che quindi non sono recuperabili ex post situazioni non assentibili ab origine.
L’effetto ex tunc del provvedimento autorizzatorio adottato in sanatoria determina il totale consolidamento della liceità dell’attività comunque svolta dal pubblico dipendente, escludendo la sua responsabilità disciplinare, cosí come pure quella del funzionario che ha adottato l’atto di conferimento dell’incarico in assenza o in pendenza di autorizzazione da parte dell’ente di provenienza del dipendente incaricato.
10. Le conseguenze del mancato rispetto del regime autorizzatorio
Il mancato rispetto del regime autorizzatorio in materia determina conseguenze particolarmente gravi in una pluralità di ámbiti, che devono essere tenuti distinti per evitare contaminazioni concettuali ed operative.
In primo luogo, conseguenze carico del dipendente che svolge attività concomitanti comunque remunerate non previamente autorizzate, che deve essere diffidato a cessarne lo svolgimento, salva l’attivazione del procedimento disciplinare per grave violazione dei doveri di servizio.
La mancata ottemperanza alla diffida comporta la dichiarazione di decadenza dall’impiego poziore per accertamento costitutivo, nell’ámbito di un ben delineato procedimento amministrativo, che deve essere attivato d’ufficio ai sensi della legge 6/8/1990 n. 241 ed assistito dalle garanzie che essa prevede.
Quanto al compenso previsto per lo svolgimento dell’incarico non previamente autorizzato, l’art. 53, comma 7 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 ne prevede la devoluzione in relazione alle “prestazioni eventualmente svolte” a cura dell’ente erogante o, qualora questo non vi provveda, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
Nel caso in cui il conferimento dell’incarico sia stato disposto da un soggetto privato, trova applicazione lo speciale regime delineato dall’art. 6 del D.L. 28/3/1997 n. 79 convertito nella Legge 28/2/1997 n. 140, in forza del quale, ferma la mancata spettanza del corrispettivo da parte del pubblico dipendente non autorizzato, è prevista una sanzione a favore del Ministero dell’economia pari al doppio dell’importo del compenso pattuito, oltre all’esborso delle somme comunque dovute per sanzioni tributarie e/o contributive.
In secondo luogo, conseguenze a carico del funzionario che abbia conferito incarichi a dipendenti di soggetti terzi al proprio ente, pubblici dipendenti o meno, per il quale si concretizza un’ipotesi di responsabilità disciplinare per grave violazione dei doveri di ufficio, la cui sanzione edittale deve essere ricercata nell’art. 25, comma 4, lett.g) del c.c.n.l. 6/7/1995 cosí come modificato dal c.c.n.l. 22/1/2004.
In terzo luogo, conseguenze sull’attività amministrativa svolta in attuazione dell’incarico non autorizzato, del quale l’art. 53, comma 8 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 prevede la radicale nullità. Secondo la norma in questione, infatti, il conferimento di incarichi “senza la previa autorizzazione […determina la conseguenza che] il relativo provvedimento è nullo di diritto”. La nullità del provvedimento di conferimento riverbera conseguenze sull’attività che in sua attuazione fosse stata svolta. Essa, infatti, è tamquam non esset e quindi non utilmente acquisibile da parte della pubblica amministrazione conferente.
In questo caso, la pubblica amministrazione è comunque tenuta al pagamento all’amministrazione di appartenenza di una somma pari al compenso pattuito con l’incaricato non previamente autorizzato.
Il trasferimento coattivo della somma de qua viene effettuato a titolo sanzionatorio, in quanto ad esso non è correlativa l’acquisizione di alcuna utilità da parte della pubblica amministrazione conferente.
Una tale evenienza configura sicuramente danno erariale per fatto gravemente colposo nel quale è incorso il funzionario che ha disposto il conferimento in assenza di autorizzazione, con conseguenziale accollo risarcitorio a suo carico ed attivazione dell’azione di recupero del tantundem da parte della Corte dei conti.
11. La rilevanza disciplinare della normativa sulle incompatibilità
La violazione della normativa in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi determina conseguenze sul piano disciplinare.
Le condotte contra legem previste in astratto dal legislatore sono almeno tre.
In primo luogo, lo svolgimento dell’attività concomitante con il rapporto di lavoro o l’assunzione dell’incarico o dell’impiego senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione dell’ente di appartenenza, nonché lo svolgimento di un’attività libero-professionale in regime di tempo pieno.
In secondo luogo, la comunicazione mancata o risultata non veritiera dell’attività concomitante svolta dal pubblico dipendente con rapporto lavorativo a tempo parziale a prestazione lavorativa dimezzata.
In terzo luogo, l’avvenuto conferimento di incarico a dipendente di altro ente pubblico senza la previa autorizzazione resa dall’ente di appartenenza dell’incaricato.
Per le prime due fattispecie, l’art. 1, comma 61 della Legge 23/12/1996 n. 662 prevede che al concretizzarsi della fattispecie segua l’adozione del recesso unilaterale dal rapporto di lavoro per giusta causa.
Per la terza fattispecie, per contro, si è in presenza della specificazione ex lege della condotta contra ius, ossia il conferimento di incarico o impiego in assenza di autorizzazione, senza che sia determinata la sanzione in modo unilaterale.
In quest’ultimo caso, è evidente che sul funzionario che ha disposto il conferimento di incarichi in assenza della previa autorizzazione residua responsabilità disciplinare, e che la sanzione deve essere quella piú proporzionata ex art. 2106 c.c.. alla gravità del fatto commesso.
Maggiormente problematiche sono le prime due fattispecie, poiché è direttamente l’art. 1, comma 61 della Legge 23/12/1996 n. 662 a delineare unilateralmente sia il comportamento contra ius, sia l’automatismo espulsivo rappresentato dal recesso per giusta causa.
In relazione a ciò va osservato che l’art. 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 sottrae alla determinazione della contrattazione collettiva nazionale di comparto proprio la materia in esame, prefigurando un’ipotesi di responsabilità disciplinare di fonte legale, nella quale la determinazione del contenuto dell’intera fattispecie contra ius è sottratta alla contrattazione collettiva nazionale di comparto.
Dubbio è se il regime eccettuativo appena delineato coinvolga anche la determinazione della sanzione in concreto da applicare, dal momento che la sua violazione è qualificata ex lege come giusta causa di recesso.
La testi adombrata è infondata poiché finirebbe con l’introdurre un automatismo espulsivo – il recesso dal rapporto di impiego – che non consente alcuna forma di graduazione della misura sanzionatoria, conseguenza del tutto inammissibile perché in contrasto, con il principio di proporzionalità fra condotta antigiuridica e sanzione prevista di cui all’art. 2106 c.c., con il principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost. e con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 14/10/1988 n. 971.
Quanto appena evidenziato, consente di concludere che il regime eccettuativo previsto dal combinato disposto degli artt. 53, comma 1 e 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 interessa la sola delineazione della fattispecie e non anche la determinazione della sanzione da irrogare e la procedura da seguire per addivenirvi.
È quindi chiaro che alla violazione della normativa sulle incompatibilità si applicano tutti i principî e tutte le regole che operano in materia disciplinare: l’obbligo della contestazione degli addebiti, la definizione del procedimento entro termini perentorî e la comminazione della sanzione proporzionata alla gravità in concreto del fatto commesso ed accertato con procedimento interno.
La valutazione della gravità del comportamento deve essere effettuata in contraddittorio con il dipendente contravventore e nel rispetto del principio di proporzionalità e dei criterî generali enunciati dall’art. 25, comma 1 del c.c.n.l. 6/7/1995 nel testo modificato dal c.c.n.l. 22/1/2004. In particolare, l’ufficio disciplinare deve apprezzare l’intensità della violazione del dovere di esclusività, l’estensione del conflitto di interessi concretizzato, il livello di nocumento arrecato al prestigio dell’ente di appartenenza, il grado di deviazione dal buon andamento dell’azione amministrativa, unitamente alla collocazione del dipendente contravventore nell’organizzazione dell’ente.
12. Conclusione
L’analisi del sistema delle incompatibilità e del cumulo di incarichi ed impieghi ha evidenziato l’estrema complessità della materia e la delicatezza dei suoi contenuti.
Essa deve essere considerata con particolare attenzione in relazione sia ai valori costituzionali che la relativa disciplina mira a garantire e proteggere, sia alle conseguenze che dal suo mancato rispetto derivano a carico dei dipendenti coinvolti.
Tutto ciò deve indurre ad interpretazioni particolarmente rigorose per evitare che il rapporto di impiego possa divenire il pretesto per trasformare l’ente pubblico in un “incarichificio”, con conseguente detrimento dell’immagine della pubblica amministrazione che, anche in passati recenti, è stata caratterizzata da comportamenti non condivisibili che sovente hanno rasentato il discredito ed il grottesco.
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Segretario generale e Direttore generale – Comune di Cassina de’******
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