Parte Prima
Il nostro sistema penale vede convivere, forzatamente ed illogicamente, differenti modelli di giustizia penale, spesso ispirati dalle tensioni politiche del momento.
Gli ultimi interventi legislativi del governo uscente hanno riaperto un dibattito sui modelli di sicurezza e sulle più efficaci e corrette modalità di repressione del crimine. Tuttavia il momento elettorale, come in altri casi, non ha consentito un confronto sereno e questa tematica, a dispetto dell’importanza, è stata strumentalizzata dalla maggioranza e dall’opposizione.
IL MODELLO PUNITIVO-RETRIBUTIVO DAL CODICE ZANARDELLI AL CODICE PENALE VIGENTE
La fonte principale del nostro diritto penale è rappresentata dal Codice Penale, noto anche come Codice Rocco, dal nome del Ministro di Grazia e Giustizia che ha ispirato questo testo, approvato con R.D. 19 ottobre 1930 n.1398. È soprendente considerare che in 75 anni questo testo, entrato in vigore il 1 luglio 1931, sia sopravvissuto sostanzialmente immutato sino ai giorni d’oggi.
Il primo codice penale del Regno d’Italia, il Codice Zanardelli, entrato in vigore il 30 giugno 1889 si ispirava sostanzialmente alla Scuola classica che si affermava proprio in quell’epoca (XIX secolo). Questa corrente di pensiero parte dal principio morale della assoluta libertà del volere umano (il c.d. libero arbitrio) per considerare il reato come una cosciente e volontaria violazione delle norme sociali e, in un ottica soggettiva di responsabilità morale del criminale, considera la pena come il corrispettivo per il male commesso dal reo (modello retributivo).
Alla scuola classica della dottrina penalistica, nella stessa epoca (XIX secolo), si contrapponeva la Scuola positiva, che influenzata dalle correnti naturalistiche del pensiero scientifico e filosofico dell’800 si ispirava al principio di causalità, ritenendo la volontà dell’uomo non assolutamente libera, come la giudicava la Scuola classica, bensì vincolata da fattori biologici e sociali.
In questa ottica il reato era considerato in un’ottica oggettiva, che teneva conto delle cause e delle situazioni in cui si manifesta il comportamento socialmente deviante. Per questa ragione, al modello retributivo della Scuola classica, la Scuola positiva contrapponeva un sistema penale basato non sulla responsabilità morale ma sulla pericolosità sociale dell’individuo, sostituendo alla pena, come corrispettivo del male commesso, la misura di sicurezza concepita come difesa dellla società contro le cause della criminalità.
Il vigente Codice Rocco opera una sintesi dei due sistemi o, più correttamente, recepisce un indirizzo intermedio tra la Scuola classica e la Scuola positiva, ed infatti si parla di sistema bipartito o del doppio binario.
Il nostro sistema penale, infatti, si ispira al principio della responsabilità morale del reo al quale, in un’ottica retributiva, è comminata la pena come castigo per il male commesso (SISTEMA PUNITIVO-RETRIBUTIVO).
A quest’impostazione, nel nostro sistema penale è affiancata una concezione oggettiva del reato, con un sistema di misure di sicurezza volte a proteggere la società dai soggetti socialmente pericolosi.
L’ATTUAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI NEL CAMPO PENALE
La Costituzione repubblicana, entrata in vigore dopo circa 17 anni dal Codice Rocco (1 gennaio 1948), da un lato sono stati istituzionalizzati i principi garantistici di legalità ed irretroattività della legge penale, già previsti con molta lungimiranza nel Codice Penale, d’altra parte sono state introdotte grandi innovazioni nel campo penale imponendo il principio della libertà d’espressione (duramente repressa dal Codice Rocco), della materialità ed offensività del reato, personalità della responsabilità penale ed inoltre la funzione rieducatrice ed umanizzante della pena.
Si deve rilevare però che l’idea punitiva della pena è sempre stata molto forte nella nostra società, basti considerare che solo in tempi molto recenti si sono depenalizzate molte violazioni minori, mentre sino a tutti gli anni ’50 la sanzione tipica dell’illecito di diritto pubblico era esclusivamente la sanzione penale, con tutto il carico procedurale e la sproporzione tra violazione e punizione che spesso comportava.
Sino alla fine degli anni ’60 erano punite con la sanzione penale della multa e dell’ammenda e, in alcuni casi addirittura con l’arresto, anche le violazioni in materia di circolazione stradale e di regolamenti locali (depenalizzate con la legge 3 maggio 1967 n.317 "Modificazioni al sistema sanzionatorio delle norme in tema di circolazione stradale e delle norme dei regolamenti locali").
Tuttavia nonostante la previsione dell’art.27 della Costituzione, che impone al 3° comma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”, affermando un’idea di SISTEMA PENALE DI TIPO EDUCATIVO-TRATTAMENTALE ancora oggi, tranne rare eccezioni, queste disposizioni sono state fondamentalmente disattese.
LA PRIMA INTRODUZIONE DEL MODELLO EDUCATIVO-TRATTAMENTALE CON L’ORDINAMENTO CARCERARIO
Il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena è stato realmente attuato dopo quasi 30 anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale attraverso la Legge 26 luglio 1975 n. 354 "Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà".
Questa legge costituisce una pietra miliare nel nostro ordinamento, innanzitutto perché è la prima legge organica sull’ordinamento penitenziario, che si sostituisce ad una serie di precedenti regolamenti; peraltro il suo impianto organizzativo ed istituzionale è ancora oggi valido e vigente.
Inoltre l’ordinamento penitenziario introduce nel nostro ordinamento penale e giudiziario, da sempre fortemente ispirato al modello punitivo retributivo, il MODELLO EDUCATIVO-TRATTAMENTALE.
La legge 354/75, divisa in due titoli "Trattamento" e "Organizzazione", è stata concepita per attuare finalmente le previsioni dell’art.27 della Costituzione, prevedendo un sistema ed un’organizzazione della giustizia che, non limitandosi alla sola custodia del detenuto ed al semplice riconoscimento del suo diritto elementare ad un trattamento consono alla sua qualità di persona umana, possa conseguire la finalità Costituzionale della rieducazione del condannato in funzione del recupero sociale.
Anche nelle successive norme regolamentari (previste nel DPR. 431/76) si conferma il superamento della carcerazione come castigo, affermandosi testualmente che "la sicurezza, l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari costituiscono la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento". Quindi la carcerazione e la privazione della libertà in senso lato (anche attraverso le misure di espiazione della pena alternative al carcere) non è il fine della pena, ma il mezzo per tendere al recupero sociale del condannato mediante un trattamento personalizzato che possa responsabilizzarlo ed educarlo.
TRATTAMENTO E RIEDUCAZIONE COME ALTERNATIVA PIU’ EFFICACE DELLA PUNIZIONE E CASTIGO
Premesso che il trattamento si può attuare solamente sui detenuti che stanno scontando una condanna definitiva, in ossequio alla presunzione d’innocenza sino a quando la condanna non sia passata “in giudicato” (Costituzione art.27 comma 2), escludendo quindi i soggetti in custodia cautelare.
La legge 354/75 prevede che il trattamento del condannato sia sempre personalizzato, quindi si prescrive l’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale che possa prevedere anche un percorso carcerario che, comunque, tenga conto delle caratteristiche individuali del soggetto nell’assegnazione dell’istituto e sezione in cui scontare la pena.
I principi di base su cui l’ordinamento penitenziario basa il trattamento sono:
o La partecipazione della comunità esterna al percorso di rieducazione.
o Il superamento dei metodi restrittivi e illiberali nel rapporto con la realtà esterna al Carcere e quindi si è introdotta maggiore facilità nei colloqui e nella corrispondenza e la disponibilità di mezzi d’informazione all’interno dell’Istituto penitenziario (giornali, libri, T.V.).
o Libertà di religione per ogni culto.
o Supporto di personale specializzato (psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, insegnanti).
La Legge 10/10/86 n.663 (Legge Gozzini), ha ribadito e rafforzato il modello educativo-trattamentale, prevedendo misure di espiazione della pena alternative alla detenzione carcerarie, come i Permessi di poter uscire per alcune ore o giorni, non visti solo in funzione punizione premio, ma in funzione della rieducazione e del reinserimento nella comunità
Per ultima la Legge 27/05/98 n.165, la cosiddetta legge Simeoni-Saraceni, ha previsto la possibilità di accesso alle misure alternative al carcere direttamente dallo stato libero senza la preventiva carcerazione, estendendo ulteriormente i principi della legge Gozzini fino a tre anni.
Concretamente il programma di trattamento è redatto da un’equipe che dopo un periodo di osservazione del detenuto predispone un progetto specifico che attraverso una serie d’interventi come supporto psicologico, attività sportiva, interventi di formazione, attività religiosa, risocializzazione (attraverso contatti con il mondo del volontariato ed altro), attività artistica (teatro), impiego all’esterno del carcere (anche per interventi limitati ed episodici), attività lavorativa interna ed esterna, si propone il reinserimento del delinquente nella società.
Il programma di trattamento diviene operativo dopo l’approvazione da parte del magistrato di sorveglianza e, in genere, il percorso trattamentale anticipa in qualche modo o comunque prepara le condizioni per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione carceraria.
Massimiliano MANCINI (già Dirigente di Polizia Locale, Docente e consulente nelle materie giuridiche e criminologiche)
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