Qualora si verifichi un sinistro su una strada pubblica, può ritenersi responsabile la P.A., in qualità di proprietaria o gestore della stessa? È un interrogativo ricorrente eppure non propriamente risolto dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
In realtà, la vexata quaestio riguarda l’applicabilità dell’art.2051 c.c., la forma di responsabilità prevista sotto la rubrica “Danno cagionato da cose in custodia”, alla P.A..
Rappresenta da lungo tempo un nodo inestricabile, a causa della ritrosia che parte degli operatori del diritto manifestano verso l’eliminazione di ogni residuo privilegio in capo al soggetto pubblico.
L’evoluzione giurisprudenziale e normativa dimostrano come, in realtà, il rapporto tra privati cittadini e P.A. è ormai mutato e da improntare, secondo un’ esigenza pienamente avvertita nell’attuale coscienza sociale, ad una sostanziale parità, non tanto quando la P.A. agisce ex auctoritate principis, – e dunque, avvalendosi dei propri poteri a tutela di interessi della collettività – ma, in particolare, quando opera sul piano dei comuni rapporti della vita di relazione, ovvero iure privatorum.
Lungo il proprio cammino in tale settore, la giurisprudenza, per diverso tempo, ha sostenuto l’applicabilità dell’art.2043 c.c., ma il neminem laedere era contraddistinto dalla figura dell’insidia o trabocchetto, ovvero da una situazione di oggettiva non visibilità e soggettiva imprevedibilità.
La ragione della ritrosia all’utilizzo della responsabilità da custodia nei confronti della P.A. va rintracciata nella natura di responsabilità oggettiva- tradizionalmente intesa- che si attribuisce alla responsabilità ex art.2051c.c., soprattutto riguardo beni dotati di notevole estensione. Laddove, infatti, si configuri la responsabilità da custodia come una delle ipotesi in cui il rischio che si producano eventi dannosi è socialmente accettato, ma che esigenze di giustizia sociale impongono di addossare a chi esercita quella data attività o utilizza quella cosa, si arriverebbe alla soluzione diametralmente opposta perché il soggetto (la P.A.) sarebbe chiamato a rispondere semplicemente in base alla relazione che lo lega alla cosa. Il danno verrebbe imputato sulla base della sola dimostrazione, da parte del danneggiato, del nesso di derivazione causale senza alcuna rilevanza per la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza .
Così si arriva, però, ad un altro eccesso se non correttamente intesa la responsabilità e le sue limitazioni: da un privilegio assoluto della P.A. che ha visto inermi i cittadini per diversi anni ad una difficile posizione della P.A. condannata a pagare sempre e comunque, salvo il sopraggiungere di un fattore che attiene al profilo causale dell’evento e non ad un comportamento del responsabile: il caso fortuito.
In una delle ultime sentenze in materia, la Suprema Corte registra la presenza di diversi orientamenti giurisprudenziali ai quali è bene aggiungere altrettanti filoni dottrinali.
Dunque, un’inestricata matassa di fili che però è importante sciogliere in un settore, come quello della responsabilità extracontrattuale e della circolazione stradale, in cui, in effetti, data l’estensione dei beni demaniali e l’utilizzo quotidiano che ne fanno i cittadini, rende inevitabili le relative controversie per i conseguenti danni.
Lo scopo qui è quello di dare conto dello stato del diritto, almeno dal punto di vista giurisprudenziale, prendendo, essenzialmente, come punti di riferimento, le ultime sentenze della Cassazione in materia, quali la n.3651/2006 e la n.15383/2006.
La prima di esse, simile ad un trattato, riporta ben 300( circa!) riferimenti giurispudenziali relativi all’applicabilità delle regole del diritto privato alla P.A. che agisce iure privatorum e alla responsabilità per omessa e insufficiente manutenzione.
La seconda dà conto dell’esistenza dei diversi orientamenti in materia; da quello tradizionale e maggioritario, che configura la responsabilità risarcitoria ex art.2043c.c. caratterizzata dall’insidia o trabocchetto, figura di elaborazione gurisprudenziale sintomatica dell’attività colposa dell’amministrazione con relativo onere probatorio a carico del danneggiato(Cass.Civ26/05/2004, n. 10132; Cass. 22.4.1999, n. 3991; Cass. 28.7.1997, n. 7062; Cass. 20.8.1997, n. 7742; Cass. 16.6.1998, n. 5989 e molte altre); a quello minoritario, che riconduce la responsabilità della P.A. nel’alveo dell’art.2051c.c. dove il danneggiato deve solo provare l’esistenza del nesso causale tra danno e la res di cui la P.A. è custode e, la quale, per liberarsi, dovrebbe riuscire a provare l’eventuale caso fortuito(Cass. 22.4.1998, n. 4070; Cass. 20.11.1998, n. 11749; Cass. 21.5.1996, n. 4673; Cass. 3 giugno 1982 n. 3392, 27 gennaio 1988 n. 723).ma, altresì, un orientamento intermedio, che configura l’applicazione dell’art.2051 c.c.solo qualora le caratteristiche del bene demaniale consentono un concreto controllo e un’effettiva vigilanza idonea ad evitare la creazione di situazioni di pericolo (Cass. 5.8.2005, n. 16675; Cass. n. 11446 del 2003; Cass. 1.12.2004, n. 22592; Cass. 15/01/2003, n. 488; Cass. 13.1.2003, n. 298; Cass. 23/07/2003, n. 11446).
Importante nell’excursus che ha caratterizzato la materia, è l’intervento dei giudici di legittimità con la sentenza n.156/1999 in cui si legge "la notevole estensione del bene e l’uso generale e diretto da parte del terzi costituiscono meri indici dell’impossibilità del concreto esercizio del potere di controllo e di vigilanza sul bene medesimo;la quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù di un puro e semplice riferimento alla natura demaniale del bene, ma solo a seguito di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità".
La Corte Costituzionale ha tra l’altro considerato la nozione di insidia "come una sorte di figura sintomatica di colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità in esame" .
Un tale intervento doveva far sperare in una sistemzione definitiva della materia, eppure così non è stato!
La Corte Costituzionale ha posto degli importanti punti fermi, come il fatto che ad escludere l’applicazione dell’art.2051 c.c. nei confronti della P.A., non è la natura demaniale del bene, ma le sue specifiche caratteristiche, costituite dalla notevole estensione e dall’uso generale e diretto da parte dei terzi che, rendendo di fatto impossibile il controllo della res, producono la scomparsa del requisito della custodia sul quale si fonda l’applicabilità della medesima norma.
In tale contesto si inserisce l’intervento della Suprema Corte con la sentenza n.3651/06, da giudicare alquanto coraggioso per diverse ragioni: definisce inconsistenti le nozioni di insidia e di trabocchetto e non le pone più come presupposti obbligatori del risarcimento; ricostruisce la responsabilità ex art.2051 c.c. come una forma di responsabilità per colpa presunta.
In Dottrina tale sentenza è stata alquanto criticata e ne sono stati messi in risalto diversi punti contraddittori sin dall’inizio, nella stessa premessa, in cui si afferma che unici presupposti applicativi dell’art.2051 c.c. sono la custodia e la derivazione del danno dalla cosa, ma poi nella motivazione si considera un terzo elemento costituito dalla condotta diligente del custode e che rileva sia sul piano della prova a carico del danneggiato sia sul piano della prova liberatoria posta a carico del custode.
C’è chi sostiene che si sia tentato di aggirare la storica diffidenza verso l’applicazione nei confronti della P.A. di una fattispecie di responsabilità oggettiva, con il più classico degli espedienti: ricostruirla in termini di colpa presunta, anche a costo di ritornare alla stanca ripetizione di obiter dicta che, di fatto, tradiscono la ratio decidendi posta a fondamento della sentenza (Franzoni, Dei fatti illeciti, cit., 597. Cfr. , Cappuccio, La pubblica amministrazione e l’art.2051 c.c., in Nuovo dir., 2000, 697; Lotito, Note minime sul lungo, travagliato e non ancora concluso tragitto della risarcibilità del c.d. danno biologico e sull’applicabilità della disciplina ex art.2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione, ivi, 1999, 729).
Con la più recente delle sentenze in rassegna, la n.15383/06, la Suprema Corte ha affermato che va “ riassorbita la tesi sostenuta da Cass. n. 3651/06, secondo cui il caso fortuito altro non costituirebbe che la presenza di un evento che esclude la colpa del custode, con la conseguenza che anche questa ipotesi di responsabilità sarebbe di tipo soggettivo, con presunzione di colpa a carico del custode, salva la prova liberatoria della mancanza di colpa, cioè, in positivo, della presenza del fortuito. Tale impostazione risente del principio della tradizione romanistica e di una parte della dottrina classica tedesca, secondo cui "nessuna responsabilità sussiste senza colpa", per cui casus = non culpa, mentre la dottrina moderna riconosce pacificamente la presenza di Ipotesi di responsabilità oggettiva, considerandole come approdo delle legislazioni moderne.”
Approfondendo il tema, ha avvertito l’esigenza di chiarire il nodo centrale del problema, costituito dalla natura della responsabilità del custode ricostruendo l’art. 2051 c.c. in termini di responsabilità oggettiva, facendo proprio l’orientamento della dottrina più autorevole, che ha sempre indicato questa soluzione come l’unica conforme alla ratio e alla lettera della norma e sforzandosi di fornire, in un sistema organico, un ragionamento coerente con la struttura oggettiva della fattispecie.
Nella motivazione viene fatto, innanzitutto, un distinguo tra i danni cagionati dalla cosa in custodia e, quindi, il cd. “fatto della cosa”, ricondotti nell’art.2051 c.c., in contrapposizione al fatto dell’uomo attuato per mezzo della cosa che, invece, rientra nel contesto della norma generale di cui all’art 2043c.c..
Si sottolinea, poi, la centralità del nesso causale fra l’evento lesivo e la res, segnalando, altresì, come il rapporto di custodia altro non è se non la relazione di appartenenza che lega il bene al soggetto chiamato a rispondere dei danni da essa prodotti, in altri termini, uno stato di fatto preesistente all’evento, che non introduce in nessun caso uno standard di diligenza dovuto dal custode, né sul piano della prova posta a carico del danneggiato, né su quello della prova liberatoria del fortuito.
Una precisazione importante, che forse chiarisce più di tutte le affermazioni di principio, è quella in cui si rimarca, con sintesi efficace, che il custode negligente, non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente, se la res che si trova nella sua disponibilità ha provocato danni a terzi.
Infine, per quel che concerne il piano della prova liberatoria del fortuito, il percorso argomentativo permette di superare i dubbi e cogliere la coerenza della scelta effettuata da ultimo dalla Suprema Corte.
La fondamentale critica mossa dalla dottrina al tradizionale orientamento colpevolistico consisteva proprio nel lamentare l’incoerenza di un criterio di imputazione che, da un lato, ipotizza una presunzione di colpa a carico del custode e, dall’altro, afferma che tale presunzione può essere vinta solo dal caso fortuito cd. oggettivo, ovvero da un evento che interrompe il nesso causale fra la res e l’evento dannoso. Si è già detto che Cass. n 3651/2006 ha tentato di superare l’impasse, riproponendo una ricostruzione “soggettiva” del fortuito, che apparisse compatibile con un orientamento colpevolistico e compensasse in qualche modo la scomparsa delle nozioni di insidia e trabocchetto.
La Sent. n. 15384/2006 rammenta che “la responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti”. Nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare la sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Tale criterio di imputazione nelle specifiche fattispecie di responsabilità oggettive è fissato dal legislatore con una qualificazione del soggetto, su cui viene fatto ricadere il costo del danno. La ratio di tale accollo del costo del danno non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma.
Nella sentenza si accoglie una nozione di “custodia” come potestà di fatto esercitabile sulla cosa, che si traduce nel potere di controllare la stessa, di modificare eventuali situazioni di pericolo e di escludere terzi dall’ingerenza sulla cosa; e la si configuracome criterio di imputazione della responsabilità oggettiva di cui al 2051 c.c. ed, allo stesso tempo, come limite di applicazione della norma. Se quel potere di fatto e di controllo è in linea di principio escluso, viene meno la stessa ragione d’essere dell’imputazione dei danni al custode e la norma non può trovare applicazione.
Fatta questa premessa, l’obiettivo dell’analisi si sposta sul nesso causale, che si rivela finalmente in tutta la sua centrale importanza. La Suprema Corte sottolinea come è da intendere correttamente uno schema oggettivo di responsabilità, considerando, appunto che esso comporta un cambiamento degli elementi della fattispecie fra i quali deve intercorrere il legame causale.
In uno schema di colpa presunta, l’evento dannoso deve essere causalmente riconducibile all’inadempimento degli obblighi di vigilanza e di controllo da parte del custode; questo passaggio, importando nella fattispecie la valutazione (sia pure in termini presuntivi) della condotta del custode, ha costituito in passato un ampio margine di discrezionalità riservato al giudice di merito per individuare il soggetto in capo al quale dovevano essere fatti ricadere i costi dell’evento dannoso, pagato tuttavia al duro prezzo di scompensi e contraddizioni interne alla fattispecie.
In uno schema oggettivo di responsabilità, al contrario, il danneggiato deve soltanto dimostrare la riconducibilità dell’evento dannoso alla res e quindi tutto ciò deve tradursi nell’individuazione del cd. “fatto della cosa”, ovvero nella dimostrazione di una partecipazione del bene in custodia al procedimento causale produttivo dell’evento dannoso che non sia degradabile a mera occasione. Ma con quale percorso argomentativo arrivare a ciò?
Un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono inverosimili (cd. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (Cass. 16/12/2004, n. 2343; Cass. 26/03/2004, n. 6071; Cass. 3/12/2002, n. 17152; Cass. 29/07/2004, n. 14488; Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass. 22/10/2003, n. 15789; Cass. 15/01/2003, n. 484).
Nell’analisi dell’art 2051c.c., si è sempre segnalata l’esigenza di passare dalla teoria della condicio sine qua non ad una teoria della causalità più articolata e moderna come la teoria della “causalità adeguata” .
Ed è qui la vera svolta della Corte di Cassazione con la sentenza n.15384/2006 rispetto alla precedente pronunzia: il chiaro riferimento alla teoria della causalità adeguata, per un verso, conferisce forza alla tesi della responsabilità oggettiva e, per altro, rende inutile il tentativo di ricostruire il caso fortuito in senso soggettivo. Su questo sfondo ogni tassello trova, poi, facilmente il suo posto.
Innanzitutto, il requisito della possibilità di controllo della res, che consente di applicare la responsabilità del custode, deve, essere accertato, coerentemente con quanto sopra detto, anche nei confronti della P.A., caso per caso, in termini oggettivi. Peraltro, tutto questo deve avvenire non sulla scorta del semplice riferimento alla natura demaniale del bene oggetto di custodia, ma sulla scorta di indici sintomatici generali, fra i quali si possono individuare la notevole estensione del bene e l’uso generalizzato e diretto di esso da parte dei terzi.
È, inoltre, altrettanto coerente che, con particolare riferimento alle strade, quegli indici sintomatici siano integrati da altri possibili indicatori specifici, quali le caratteristiche della strada, la collocazione della stessa, nonché le dotazioni ed i sistemi di assistenza ad essa connessi
Dunque, viene chiarito quale debba essere il corretto utilizzo della teoria della causalità adeguata nel contesto dell’art 2051 c.c., ma viene precisato anche il ruolo che ha la valutazione del comportamento colposo del danneggiato.
L’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737).
Un corollario di detto principio è la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, il quale nel contempo fa da base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un approdo dei codici moderni.In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui.
La dottrina più recente ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
Infine, nell’ipotesi in cui l’art. 2051c.c., per le limitazioni anzidette, non può trovare applicazione, la tutela del danneggiato resta affidata alla clausola generale di cui all’art 2043 c.c., che deve, però, trovare piena e completa applicazione e non essere limitata negli artificiali confini dell’insidia e trabocchetto, essendo la colpa della P.A. dimostrabile senza limitazione alcuna sia sul piano della colpa specifica che su quello della colpa generica.
Dunque, un vero e proprio balzo in avanti, un chiarimento tanto più atteso perché giunto in un momento nel quale il progressivo sgretolarsi della precedente e sclerotizzata giurisprudenza, sembrava lasciare il posto alla sovrapposizione di soluzioni non sempre coerenti. Comunque, un precedente importante nel segno della chiarezza, del quale la giurisprudenza di merito dovrà tener conto.
Avv. Marianna Pulice, Foro di Cosenza
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento