Nota di commento:
********************, La satira zona di confine, in www.studiolegalelaw.it, 11/2007.
Massima:
1. La satira è configurabile come diritto soggettivo di rilevanza costituzionale; tale diritto rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. che tutela la libertà dei messaggi del pensiero.
2. Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura. Ne è espressione anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica. 3. La satira è riproduzione ironica e non cronaca di un fatto; essa esprime un giudizio che necessariamente assume connotazioni soggettive ed opinabili, sottraendosi ad una dimostrazione di veridicità.
4. Mentre l’aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità offensiva della reputazione, dell’onore e del prestigio, diversamente deve dirsi in caso di apparente attendibilità di tali fatti (nella specie, la Suprema Corte ha accolto la lettura interpretativa della corte di merito, sostenendo che la vignetta, oggetto del giudizio, fosse priva di qualsiasi connotazione paradossale – in grado di rendere percepibile al lettore che l’autore non fa sul serio – e che l’effetto che ne promanava fosse macabro e orripilante, dal momento che il soggetto della vignetta venivapresentato “come apportatore di morte”).
Testo:
Corte di cassazione
Sezione III Civile
Sentenza 11 ottobre 2007, n. 23314
(dep. 8 novembre 2007)
Svolgimento del processo
G.C., all’epoca dei fatti procuratore della Repubblica presso il tribunale (OMISSIS), conveniva G.F., R.B., la s.p.a. A.M. editore innanzi al tribunale di Milano per sentirli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e morali in lire 500.000.000 o nella diversa somma equitativamente fissata dal giudice.
Deduceva che nel numero (OMISSIS) del settimanale "Panorama" edito dalla A.M., di cui era direttore responsabile il B., era apparsa una vignetta del F. raffigurante uno scheletro con un ciuffo di capelli bianchi a forma di falce ed una sciarpa rossa che teneva in una mano la pistola e nell’altra la bilancia simbolo della giustizia; sosteneva che la vignetta era riferibile a lui e con evidente allusione gli attribuiva la responsabilità del suicidio del dr. L. avvenuto in occasione del suo interrogatorio da parte di un "pool" della procura della Repubblica presso il tribunale (OMISSIS) da lui guidato.
I convenuti contestavano l’interpretazione fornita dall’attore ed invocavano, comunque, l’esimente del diritto di satira e più in generale di manifestazione artistica. Il tribunale accoglieva la domanda, condannando i convenuti in solido al pagamento di lire 50.000.000 a titolo di danno morale e di lire 10.000.000 a titolo di riparazione pecuniaria. La corte di appello di Milano con sentenza resa il 23.10.2002 rigettava i gravami del B., della M. e del F. con la seguente motivazione.
Secondo gli appellanti il disegno non è evocativo della persona del C. né del suicidio del L., avendo una mera valenza simbolica; senonché la riferibilità al C. persino per il lettore meno attento si desume dal fatto che a) lo scheletro, simbolo della morte, indossa tocco, toga ed una sciarpa rossa; b) sul tocco vi è una stella e ne esce una falce formata da un ciuffo di capelli bianchi (elemento caratterizzante della iconografia relativa al C.), c) la figura effigiata non impugna la pistola, ma la tiene sul palmo della mano nel gesto di offrirla; non può condividersi la tesi della valenza simbolica del disegno in relazione ai temi della militanza politica della magistratura, della giustizia, del giustizialismo, della violenza, essendo soverchiante la valenza dell’orribile comportamento evocato di un singolo magistrato in una specifica vicenda; contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale, vanno delineati i caratteri della satira, essendo compito dell’interprete individuare i concetti metagiuridici cui rinvia l’ordinamento; la satira consiste in una critica mordace di aspetti, ceti, gruppi, personaggi della vita contemporanea esercitata il più delle volte nei confronti di uomini di potere; si esercita a mezzo dei "registri" del sarcasmo, del grottesco, dell’iperbole, del paradosso, secondo un ordine ed una scelta che non rispondono a regole codificate, ma sono inevitabilmente dirette a produrre l’effetto comico nei suoi diversi aspetti; tale effetto è elemento costitutivo del genere, "rappresentandone il necessario scarto rispetto al procedere rettilineo di una oggettiva narrazione e di una equilibrata valutazione di persone e vicende, come ben presente ad una tradizione millenaria espressasi con l’oraziano: quid vetat ridentem dicere verum?"; in considerazione dell’utilità sociale e politica la satira ha una soglia più larga rispetto alle altre esimenti; la pubblicazione che si presenta come satirica deve, tuttavia, presentare gli elementi costitutivi del genere; la difesa del F. identifica nel comico e nell’umoristico gli elementi esenziali della satira; il disegno "de quo" tutto è tranne che comico ed umoristico; esso è inoltre privo di qualsiasi connotato paradossale sì da rendere percepibile con chiarezza che l’autore "non fa sul serio"; l’effetto che ne promana è "semplicemente plumbeo, macabro, orripilante nella sua indiscutibile violenza accusatoria verso il C., presentato come vero apportatore di morte soprattutto nel chiarissimo gesto di offerta della pistola"; si deve, pertanto, escludere che ricorra l’esimente del diritto di satira; egualmente dicasi dell’esimente del diritto di critica, dal momento che il messaggio portato dal disegno è inscindibilmente connesso con l’attribuzione di un fatto determinato lesivo del patrimonio morale dell’uomo prima ancora che del magistrato (l’avere con la propria condotta faziosa ed arbitraria in qualche modo "condotto" a morte il L.); qualora, come nella specie, sia accertata l’esistenza del reato di diffamazione, il danno morale "sub specie" di lesione della reputazione è "in re ipsa" e nessuna prova (del resto impossibile) deve dare l’attore della risonanza negativa della pubblicazione nell’opinione pubblica.
Avverso tale sentenza la A. M. ha proposto ricorso per cassazione sostenuto da due motivi; il F. ed il B. hanno proposto ricorso incidentale, affidandone l’accoglimento, il primo, a quattro motivi ed il secondo a tre; l’intimato ha resistito con controricorso; la A. M. editore ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. I ricorsi sono proposti contro la medesima sentenza ed a norma dell’art. 335 c.p.c. vanno riuniti.
2. Il ricorso del B. non contiene l’esposizione sommaria dei fatti di causa e tanto ne comporta l’inammissibilità alla luce del principio che per il coordinato disposto degli artt. 366, comma 1, 371, comma 3, c.p.c. il ricorso incidentale, al pari di quello principale ed a differenza del controricorso, deve esporre i fatti di causa separatamente dai motivi in modo che non si debba ricorrere ad altre fonti processuali e, se non li espone, è inammissibile, salvo che, diversamente dalla specie, sia possibile desumerli con chiarezza e completezza dai motivi (ex plurimis Cass. 22.6.2005, n. 13401; Cass. 11.10.2005, n. 19756; Cass. 27.7.205, n. 15672).
3. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia falsa applicazione degli artt. 595 c.p., 11 L. 47/1948, 2043 c.c., insufficiente motivazione circa punto decisivo della controversia; la corte di merito – si sostiene – ha esaminato le difese dell’autore della vignetta e non pure quelle dell’editore che concernono l’esorbitanza del giudizio dai limiti oggettivi del testo iconografico, la referenzialità puramente tematica anche se riferibile alla cronaca del suicidio, l’innocuità della rappresentazione sul piano esegetico; la vignetta, insieme di segni con una consistenza logico – tematica, offre elementi equivoci ed insufficienti nel senso dell’identificazione del personaggio raffigurato e del riferimento alla tragica vicenda del suicidio del dr. L.; l’evocazione e, comunque, limitata all’argomento e l’interpretazione non si può spingere oltre il limite di questo, accreditando una ricostruzione della vicenda che conduca alla responsabilità del suicidio per istigazione; la pistola nelle mani del personaggio raffigurato può fare pensare alla relazione tra l’interrogatorio ed il suicidio, ma è certamente esorbitante attribuire al personaggio alcuna responsabilità per il suicidio; la corte è censurabile per avere superato l’aspetto tematico della vignetta, immaginando uno svolgimento narrativo (l’epilogo del suicidio), e per avere attribuito la responsabilità per istigazione nel quadro di tale svolgimento; basta la riconduzione dell’interpretazione nei limiti oggettivi del disegno per escludere qualunque lesione della reputazione; si aggiunga l’inquadramento nella satira in funzione non già dell’esimente, bensì di un limite esegetico; la sintesi visiva degli elementi raffigurati, inquadrata tra le "mascalzonate" dell’autore, presenta carattere satirico, sollecitando il vaglio critico ed inducendo scetticismo.
4. Con il primo motivo del ricorso del F. si deduce insufficienza o contraddittorietà della motivazione in ordine al significato della vignetta; si censura la corte di merito per avere apoditticamente ritenuto "vane" le considerazioni secondo le quali una lettura lesiva della reputazione del C. è riduttiva della vignetta, il cui senso è molto più ampio, dovendosi ad essa riconoscere una valenza simbolica sui temi della giustizia, del giustizialismo e della violenza, e per avere, da un lato, dimostrato di essere consapevole delle polemiche suscitate a livello politico, istituzionale e dell’informazione dal tragico gesto del dr. L. e, dall’altro, escluso la valenza simbolica della vignetta.
5. Con il secondo motivo dello stesso ricorso si lamenta violazione ed erronea applicazione delle norme relative al diritto di satira; la corte di merito ha ritenuto che occorre il comico perché vi sia satira, ma non ha esplicitato il concetto di comico, come avrebbe dovuto per assolvere l’obbligo motivazionale; ove, poi, si ritenesse che la corte ha inteso il comico nel senso di divertente e tale da suscitare il riso, l’errore si ripercuoterebbe sul concetto di satira, rendendolo così inadeguato che si dovrebbe negare il carattere satirico delle vignette che hanno riguardato episodi devastanti come il crollo delle torri gemelle o la morte di militari italiani in Iraq; carattere che è stato, invece, unanimemente riconosciuto; per raggiungere il proprio scopo (attaccare e criticare i diversi aspetti della società, di un ambiente, di un individuo) la satira offre spesso al pubblico una chiave di lettura di un determinato fatto di dominio pubblico; in questa ottica l’”animus iocandi” acquista una valenza eventuale e comunque particolare; per "reprimere", "controllare", stigmatizzare" una manifestazione di "potere" può rendersi necessario l’impiego di un insieme non codificato di tecniche particolari intese ad enfatizzare "ironicamente" la drammaticità di un evento; la vignetta di F. si è limitata a rappresentare la situazione paradossale nella quale un atto che doveva essere di giustizia ed applicazione della legge è stato occasione di un drammatico suicidio, lasciando all’osservatore l’interpretazione secondo il proprio libero pensiero; quella della corte territoriale è una delle tante interpretazioni possibili e, peraltro, il rilievo che siccome non fa ridere non è satira non è idoneo a sorreggerla.
6. Con il terzo motivo del ricorso del F. si lamenta violazione e comunque erronea applicazione delle norme relative al diritto di critica; secondo la corte di merito la vignetta attribuisce al dr. C. il fatto, non rispondente al vero, di avere "in qualche modo, con la propria condotta arbitraria e faziosa, condotto a morte il collega, cioè il dr. L."; in effetti la vignetta è un’elaborazione critica e perciò personale di un fatto vero; essa non ha nulla a che vedere con l’informazione e si configura come un’interpretazione, pur se parossistica ed enfatizzata, della realtà; il fatto storico rappresentato è che in occasione e nel corso di un lungo interrogatorio il dr. L. si è ucciso con la propria pistola; partendo da questo fatto si è sviluppato il pensiero critico nella forma espressiva della vignetta; il F. non ha attribuito al dr. C. di avere "condotto a morte" il collega, ma ha stigmatizzato, facendosi portavoce di una critica di larga parte dell’opinione pubblica, che in occasione di un’attività giudiziaria (interrogatorio da parte di magistrati) si sia verificato un fatto così grave; lo svolgimento dell’attività giudiziaria non è il fatto oggetto della valutazione critica, ma l’occasione all’interno della quale si è verificato l’episodio che ha suscitato interrogativi, dubbi, riflessioni critiche; a rendere ancora più evidente che di critica e non di informazione si è trattato è il titolo della rubrica (mascalzonate) nella quale è stata pubblicata la vignetta; in sostanza il suicidio è lo sfondo e, cioè, il contesto nel quale si sviluppa il pensiero critico del vignettista; pensiero che per quanto duro non costituisce aggressione gratuita dell’altrui sfera di onore e reputazione.
7. I motivi, da esaminare in un contesto unitario per l’interdipendenza delle questioni che pongono, non possono ricevere accoglimento.
7.1. Com’è noto, la satira è configurabile come diritto soggettivo di rilevanza costituzionale; tale diritto rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. che tutela la libertà dei messaggi del pensiero.
Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura. Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso. Ne è espressione anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica.
La satira è espressione artistica nella misura in cui opera una rappresentazione simbolica che, in modo particolare la vignetta, propone quale metafora caricaturale.
La peculiarità della satira, che si esprime con il paradosso e la metafora surreale, la sottrae al parametro della verità e la rende eterogenea rispetto alla cronaca; a differenza di questa che, avendo la finalità di fornire informazioni su fatti e persone, è soggetta al vaglio del riscontro storico, la satira assume i connotati dell’inverosimiglianza e dell’iperbole per destare il riso e sferzare il costume.
Insomma, la satira è riproduzione ironica e non cronaca di un fatto; essa esprime un giudizio che necessariamente assume connotazioni soggettive ed opinabili, sottraendosi ad una dimostrazione di veridicità.
Mentre l’aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità offensiva della reputazione, dell’onore e del prestigio, diversamente deve dirsi in caso di apparente attendibilità di tali fatti.
Incompatibile con il parametro della verità, la satira è, però, soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni adoperate rispetto allo scopo di denuncia sociale perseguito. Sul piano della continenza il linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale della satira – in particolare di quella esercitata in forma grafica – è svincolato da forme convenzionali, per cui è inapplicabile il metro della correttezza dell’espressione.
In questo ambito concettuale è stato affermato – soprattutto dalla giurisprudenza penale di questa Corte – che la satira, al pari di ogni altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali della persona, per cui non va riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio (Cass. pen., sez. V, 2.12.1999, n. 2128, *****; Cass. civ. 7.11.2000, n. 14485), più particolarmente è stata esclusa la scriminante nella satira che, trasmodando da un attacco all’immagine pubblica del personaggio, si risolva in un insulto gratuito alla persona in quanto tale (Cass. pen., sez. V, 11.5.2006, n. 23712, G. e altro) o nella rappresentazione caricaturale e ridicolizzante di alcuni magistrati posta in essere allo scopo di denigrare l’attività professionale da loro svolta attraverso l’allusione a condotte lesive del dovere funzionale di imparzialità (Cass. pen., sez. V, 4.6.2001, n. 36348, ******).
7.2. Il diritto di critica si concretizza nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che sarebbe contraddittorio pretendere rigorosamente obiettiva, posto che per sua natura la critica non può che essere fondata su un’interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti.
Per essere legittima e prevalere sul diritto alla reputazione dei singoli il diritto di critica deve essere esercitato entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall’ordinamento positivo. Occorre, cioè, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero costituzionalmente garantito; bilanciamento da ravvisarsi nell’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critiche, che è presupposto da essa ed è perciò fuori di essa, bensì di quella determinata interpretazione del fatto (Cass. 22.1.1996, n. 465; Cass. 25.7.2000, n. 9746).
Nell’esercizio del diritto di critica si possono adoperare espressioni di qualsiasi tipo che si risolvano in lesione dell’altrui reputazione, purché siano funzionali alla manifestazione di dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento altrui; non sono, invece, ammessi apprezzamenti negativi che degradino in gratuita aggressione distruttiva della reputazione, discreditando la vita altrui in qualcuna delle sua manifestazioni essenziali (Cass. 7.11.2000, n. 14485, in motivazione).
7.3. Nelle azioni risarcitorie da diffamazione a mezzo stampa la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti o più in generale delle espressioni grafiche adoperate, l’accertamento in concreto dell’attitudine offensiva di tali espressioni, la valutazione dell’esistenza dell’esimente del diritto di critica o di satira costituiscono accertamento di fatto riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, rimanendo esclusa ogni rivalutazione dei fatti (Cass. 18.10.2005, n. 20137; Cass. 18.10.2005, n. 20139; Cass. 24.1.2000, n. 747). In particolare il giudice di legittimità non deve valutare il fatto dell’alterazione dell’opinione sociale sull’onore di una determinata persona, ma il discorso giustificativo del giudice di merito ovverosia le regole metodologiche del giudizio di fatto che tale giudice ha espresso per giungere alla soluzione adottata.
7.4. Ora la corte di merito, dopo avere dimostrato con argomentazioni ineccepibili sul piano della logica e della rispondenza ai fatti accertati la riferibilità della vignetta al dr. C., ha espresso il giudizio che non ricorrono gli estremi costitutivi delle esimenti del diritto di satira e di quello di critica. Con riferimento alla prima esimente ha osservato che la vignetta è priva di qualsiasi connotazione paradossale "tale da rendere percepibile al lettore che l’autore non fa sul serio" e che l’effetto che ne promana è "macabro, orripilante" nella violenza accusatoria del C. presentato "come apportatore di morte".
Ha cosi espresso un giudizio di fatto basato su un’interpretazione dei contenuti e dei significati della vignetta, al quale inutilmente si tenta di contrapporre in questa sede un’interpretazione diversa, mentre è ancora espressione di un giudizio di fatto l’affermazione che il titolo della rubrica (mascalzonate) non vale ad escludere la verosimiglianza del messaggio trasmesso e per tale via la sua carica offensiva.
Né può assecondarsi lo sforzo dialettico, pur sostenuto con argomentazioni suggestive, di trasferire la valenza del messaggio sul piano più generale della tematica della giustizia attraverso la critica della nozione di comico adottata dalla corte di merito, atteso che non si radica in tale nozione la conclusione alla quale la corte perviene sul significato della vignetta (violenza accusatoria del C. presentato come apportatore di morte).
Con riferimento all’altra esimente la corte di merito ha considerato che il messaggio della vignetta è strettamente connesso con l’attribuzione di un fatto determinato (l’avere in qualche modo condotto a morte il collega) e tale fatto ha una gravissima efficacia lesiva del patrimonio morale del C..
Si tratta di un giudizio di fatto imperniate sull’interpretazione, come tale suscettibile di sindacato in questa sede per vizi di motivazione; vizi che vengono nella specie prospettati attraverso una inammissibile lettura alternativa della vignetta.
8. Con il secondo motivo del ricorso principale ed il quarto motivo del ricorso incidentale del F., da esaminare congiuntamente perché investono il medesimo capo della sentenza impugnata, si denuncia violazione degli artt. 1226 e 2697 c.c., nonché vizi di motivazione; in particolare si lamenta che la corte di merito abbia confermato la condanna al risarcimento del danno morale liquidato in lire 50.000.000 senza tenere conto che 1) rientra nella comune esperienza che le persone investite di cariche pubbliche sono oggetto di valutazioni ingenerose o negative, sicché non ricevono alcun danno dai commenti malevoli e potrebbero addirittura trarne giovamento; 2) le modalità attuative del fatto (disegno) impediscono la percezione immediata dell’effetto; 3) l’inserimento della vignetta nella rubrica "mascalzonate" individua la cornice satirica e paradossale del messaggio trasmesso.
8.1. I motivi non possono essere accolti.
8.2. Qualora, come viene sostenuto nella specie, la sentenza di secondo grado abbia confermato quella di primo, la denuncia in sede di legittimità di un vizio di motivazione su punto decisivo richiede che il punto abbia formato oggetto di censura in grado di appello e che si indichi con quale atto.
8.3. Nella specie con il ricorso principale si muovono direttamente censure alla sentenza di primo grado, mentre le censure contenute nel ricorso incidentale sono indirizzate contro la sentenza di appello, ma non è indicato quali censure sono state mosse alla sentenza di primo grado né l’atto che le contiene.
9. In conclusione, il ricorso principale ed il ricorso incidentale del F. sono rigettati; l’altro ricorso incidentale è inammissibile; per il principio della soccombenza le spese fanno carico ai ricorrenti.
PQM
La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso B.; rigetta gli altri ricorsi, condanna i ricorrenti al pagamento solidale delle spese, liquidate in euro 2100, di cui euro 2000 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
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