1. – La seconda parte dell’art. 1421 c.c., come è noto, consente al giudice di rilevare d’ufficio la nullità negoziale, purché acquisito agli atti del processo.
Interrogatasi sulla ratio dell’art. 1421 c.c., la dottrina ne ha posto in luce la natura di disposizione “di chiusura” del sistema sulla patologia negoziale, diretta com’è alla tutela di «. . . precisi interessi di carattere generale, alla cui salvaguardia l’ordinamento giuridico presiede non solo riconoscendo a chiunque vi abbia interesse la legittimazione attiva a far valere il vizio in giudizio, bensì, in ultima istanza, tramite l’affidamento ai giudici del potere (dovere) d’intervenire» (Di Ciommo, La rilevabilità d’ufficio delle nullità negoziali tra artificiosi limiti processuali ed incertezze giurisprudenziali, in Foro It., 2006, I, 2110).
Analogamente, Cass. 4 novembre 2004 n. 21095 ha stabilito che il potere conferito al giudice dall’art. 1421 c.c. si giustifica «in ragione della tutela di valori fondamentali dell’ordinamento giuridico».
Dal suo canto, la giurisprudenza maggioritaria (che si è occupata della norma in relazione alla nullità dei contratti (ma il discorso può per analogia estendersi anche agli atti unilaterali quale il testamento olografo), ritiene che la norma dell’art. 1421 c.c., pur autorizzando il giudice alla declaratoria ufficiosa della nullità del negozio, non configuri eccezioni al principio dell’onere e della disponibilità della prova, affermando la piena rilevabilità giudiziale del vizio solo se essa sia legittimamente acquisita agli atti del processo.
In termini, Cass. 28 gennaio 2004 n. 11772: «La rilevabilità d’ufficio della nullità di un contratto prevista dall’art. 1421 c.c. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d’ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare ex actis, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall’onere probatorio gravante su di essa».
Analogamente, Cass. 6 agosto 2002n. 11772: «Nella controversia promossa per far valere diritti che presuppongono la validità del contratto o di una clausola di esso, la nullità dell’uno o dell’altra è rilevabile d’ufficio se sono acquisiti al processo elementi idonei a porla in evidenza, in considerazione del potere – dovere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione» (conff., tra le moltissime, Cass. 25 ottobre 1996, n. 10530, idd., 19 marzo 1996 n. 2294, 15 febbraio 1996 n. 1157, 7 luglio 1988 n. 4469, 23 aprile 1981 n. 2413).
In chiusura, come è stato autorevolmente detto, accertati dal giudice i presupposti della nullità, compete a lui il potere di disapplicazione ufficiosa del negozio (Bianca, Diritto civile, Il contratto, vol. 4, Milano 1993, 390, nota 51).
Non può, se tutto quanto detto è vero, tacersi della recente e rivoluzionaria applicazione del rilievo ufficioso della nullità in capo al giudice non solo nel caso in cui sia proposta azione di esatto adempimento di un contratto (opinione tradizionale ed inveterata), ma altresì nei casi di azione di risoluzione, annullamento o rescissione, e ciò al precipuo scopo di togliere iussu iudicis efficacia giuridica ad un negozio la cui nullità risulti, sia pur solo incidentalmente, nel processo.
Cfr., Cass. 22 marzo 2005 n. 6170 (in Foro it., 2006, I, 2108): «A norma dell’art. 1421 c.c., il giudice deve rilevare d’ufficio le nullità negoziali, non solo se sia stata proposta azione di esatto adempimento, ma anche se sia stata proposta azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione, procedendo ad un accertamento incidentale relativo ad una pregiudiziale in senso logico – giuridico, idoneo a divenire giudicato» (conff., ex plurimis, Cass. 2 aprile 1997 n. 2858, idd., 28 gennaio 1986 n. 550, 18 luglio 1994 n. 6710).
2. – Spostando il discorso al tema più generale della legittimazione, in capo alla parte, ad agire di nullità di un negozio, Cass., sez. lav., 7 gennaio 2002, n. 88, in linea con la sua giurisprudenza, richiede in capo al proponente l’azione «. . . di provare la sussistenza di un proprio concreto interesse ad agire, ovvero, della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica, mediante la dimostrazione che la situazione di incertezza esistente produce un danno giuridicamente rilevante e che la pronunzia richiesta sia rilevante ai fini della decisione della lite (conff., ex multis, Cass., sez. lav., 7 gennaio 2002, n. 88, Cass. 11 gennaio 2001, n. 338, idd., 27 luglio 1994 n. 7017, 1 luglio 1993, n. 7197, 12 luglio 1991, n. 7717; tra la giurisprudenza di merito, App. Milano 18 aprile 2001).
Ancora, Cass. 7 ottobre 1968 n. 3127, ritiene esistente l’interesse legittimante ex art. 1421 c.c. «. . . ogni volta che vi sia incertezza obiettiva sull’esistenza di un diritto proprio o sull’inesistenza di un diritto altrui, e in particolare, può costituire base ad ottenere una declaratoria di nullità di atti stipulati da terzi, anche il fatto che l’esistenza di tali atti danneggi o rechi incertezza o pregiudizio a una fondata aspettativa dell’istante . . .».
In sostanza, l’art. 1421 c.c. conferisce a chi agisce in nullità di un atto, un’ampia legittimazione ad agire, ciò perché, come bene è stato detto in dottrina,
«. . . il pregiudizio che l’azione mira a rimuovere è bensì rappresentato, secondo quel che comunemente si afferma dall’intralcio (che il negozio nullo cagiona) alla disponibilità, da parte dell’effettivo titolare, delle situazioni giuridiche che sarebbero trasferite o modificate se l’atto avesse prodotto i suoi effetti. Siffatto pregiudizio è però preso in considerazione dall’ordinamento soltanto se trova origine in un dato rigorosamente oggettivo: ossia se il negozio, benché nullo, rappresenta tuttavia indice di appartenenza delle situazioni giuridiche a coloro che in esso figurano quali aventi causa» (così, Filanti, Nullità, in Enc. Giur. Treccani, XXI, 8 – 9, Roma, 1988).
2.1. – Continuando, ratio dell’art. 1421 c.c. è quella di tenere separati:
a) l’interesse adespota del quivis de populo avente la consistenza di mera iattanza e vanteria, privo di tutela giudiziaria (negandosi, ad es., che quella in parola sia una specie di azione proposta per un fine generale di attuazione della legge, cfr. Cass. 17 marzo 1981, n. 1553);
b) l’interesse concreto ed attuale di chi abbia a trar danno nella sua sfera giuridica dalla persistenza di un atto nullo, che, a differenza del precedente, è provvisto della detta tutela giudiziaria.
Ancora, si rammenta, con la S.C., che la legittimazione ad agire rappresenta solo la proiezione nel processo del diritto sostanziale affermato dalla parte nell’atto di lite, non già di quello effettivo, che solo il giudice del merito potrà affermare o negare:
Cfr. Cass. 5 novembre 2001, n. 13631: «. . . la legittimazione o titolarità dell’azione costituisce una condizione dell’azione stessa che si concretizza, dal lato attivo, nel diritto potestativo d’ottenere dal giudice una decisione di merito e si risolve nel potere di promuovere il giudizio, inteso ad una sentenza dichiarativa o costitutiva o di condanna sul rapporto giuridico sostanziale dedotto ad oggetto di controversia indipendentemente dalla sussistenza o meno dell’effettiva titolarità attiva del rapporto stesso in capo all’attore . . onde, per verificarne la sussistenza, devesi avere riguardo solo a quanto dallo stesso affermato, prescindendosi dalla veridicità o meno di tale affermazione . . .».
In termini, la recente Cass. 16 maggio 2007 n. 11321: «La legitimatio ad causam, intesa come titolarità del potere di promuovere, per la legittimazione attiva, e del dovere di subire, per quella passiva, un giudizio su un rapporto giuridico sostanziale, va distinta dalla titolarità attiva e passiva del rapporto stesso. Per determinare la legittimazione, si deve fare riferimento al rapporto dedotto in giudizio, nel senso che legittimate sono quelle indicate come parti del rapporto sostanziale. Le condizioni di legittimazione, infatti, sono soddisfatte se l’attore, nel chiamare in giudizio il convenuto, afferma che esiste un rapporto sostanziale di cui egli e il convenuto sono rispettivamente il soggetto attivo e quello passivo».
2.2. – Ed ancora:
a) basta alla legittimazione in parola la prova da parte dell’attore della necessità del ricorso al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica mediante la dimostrazione che la situazione di incertezza esistente produce un danno giuridicamente rilevante e che la pronunzia richiesta sia rilevante ai fini della decisione della lite (Cass., sent. n. 88/2002, cit.);
b) l’interesse è legittimante quando vi sia incertezza obiettiva sull’esistenza di un diritto proprio o sull’inesistenza di un diritto altrui, e in particolare, può costituire base ad ottenere una declaratoria di nullità di atti stipulati da terzi, anche il fatto che l’esistenza di tali atti danneggi o rechi incertezza o pregiudizio a una fondata aspettativa dell’istante (Cass., sent. n. 3127/1968, cit.).
I detti orientamenti paiono, in definitiva, rispettosi del principio dell’effettività della tutela giudiziaria, che esige la giustiziabilità di tutti i diritti soggettivi e delle posizioni d’interesse, sempre che non assurgano a mera iattanza e vanteria (interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 24 Cost.).
Giorgio Vanacore
Avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it
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