Profili dell’atto di destinazione

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1-Atto di destinazione e separazione patrimoniale: il rapporto fra il principio dell’autonomia privata e la norma dell’art. 2740 c.c. 2.- La nuova norma dell’art. 2645 ter c.c.: negozio di destinazione, effetto di destinazione, separazione per atto di destinazione. La struttura e la forma dell’atto di destinazione. 3.- Lo scrutinio degli interessi meritevoli di tutela 4.- La trascrizione dell’ atto costitutivo del vincolo di destinazione. Segue: il problema della natura obbligatoria o reale del vincolo di destinazione. 5- La gestione del patrimonio destinato: il rapporto tra atto di destinazione e trust. 5.1- Segue. Gli strumenti giuridici per l’attuazione della destinazione. 6.- I conflitti circolatori.

1-Atto di destinazione e separazione patrimoniale: il rapporto fra il principio dell’autonomia privata e la norma dell’art. 2740 c.c.

L’art. 2645 ter c.c., rubricato come “ Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche” e collocato nel libro VI in materia di pubblicità quale disposizione sulla trascrizione, prevede la possibilità di trascrivere gli atti in forma pubblica con cui, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, i beni immobili ed i beni mobili registrati sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela, al fine di rendere opponibile a terzi il vincolo di destinazione.

Gli elementi previsti dalla nuova norma sono dunque un soggetto disponente, i beni oggetto della destinazione, i soggetti beneficiari, una finalità meritevole di tutela, la creazione di un vincolo di destinazione e la sua opponibilità in forza della trascrizione. La disciplina prevede, altresì, che per la realizzazione dell’interesse della destinazione può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso.

La nuova norma sembra aver dato vita ad una nuova fattispecie e precisamente quella dell’atto di destinazione di cui individua – è da discutersi se in modo completo e soddisfacente o meno- gli elementi e cioè i soggetti, l’oggetto, la funzione, la forma, la durata.

Si è creata, in altri termini, una figura generale di destinazione, favorendo in tal modo il passaggio da un sistema di tipicità dei vincoli di destinazione ad un sistema aperto.

Viene da chiedersi se si possa parlare di un’ulteriore eccezione al sistema della responsabilità generale del debitore o se, invece, questa figura non sia in grado di scardinare la regola di cui al primo comma dell’art. 2740 c.c., per cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni, che è alla base di tale sistema .1

Il nodo problematico è dunque quello del rapporto fra autonomia privata e norma: fermo restando che la separazione del patrimonio è ammessa solo nelle ipotesi normative, come precisa il secondo comma dell’art. 2740 c.c. affermando che le limitazioni di responsabilità sono ammesse solo nei casi stabiliti dalla legge, non si può ignorare che al loro interno, e quella dell’art. 2645 ter è la più significativa, si trovi sempre un maggiore spazio concesso all’autonomia privata.

Destinazione e separazione non sono situazioni necessariamente congiunte ed indistinguibili poiché la separazione di beni del patrimonio può configurarsi anche in assenza di una destinazione ( si pensi alle garanzie reali) e la destinazione di beni non sempre comporta una separazione ( come nel caso di pertinenze, servitù ecc).

Naturalmente la destinazione del patrimonio ad uno scopo, intesa come autonoma categoria giuridica, implica pur sempre un fenomeno di separazione patrimoniale con conseguente incidenza sulle regole che governano il patrimonio, sia sulle regole di responsabilità patrimoniale che sulle regole inerenti la circolazione dei beni.

Occorre brevemente ricordare che le riflessioni sul patrimonio separato originano dal concetto di destinazione.

In realtà l’elaborazione della categoria dei patrimoni destinati è nata dalla necessità di astrarre il regime giuridico dei beni dalle regole della titolarità ed appartenenza all’interno di sistemi che non avevano altri soggetti di diritto se non le persone fisiche.

Di qui il patrimonio destinato come patrimonio senza titolare o come patrimonio personificato. 2

Oggi il sistema di riferimento è cambiato: il sistema ha risolto il problema della concettualizzazione della persona giuridica e sono state introdotte molteplici figure di patrimoni separati di fonte normativa. La destinazione di un patrimonio ad uno scopo può realizzarsi indifferentemente o attraverso la creazione di un nuovo soggetto di diritto (fondazione, associazione riconosciuta, società di capitali) o attraverso la frammentazione del patrimonio di un soggetto, persona fisica o giuridica, creando in tal ultimo caso le c.d. destinazioni non personificate tra cui il fondo patrimoniale, i patrimoni destinati ad uno scopo previsti dalla riforma societaria ed ora il patrimonio separato derivante da un atto negoziale di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c.

Invero solo nelle destinazioni non personificate si realizza la creazione di un patrimonio separato appartenente ad un medesimo titolare, in quanto il patrimonio separato non serve alla creazione di una persona giuridica o di un nuovo soggetto di diritto.

Il problema che la nuova disposizione dell’art. 2645 ter c.c. solleva è, al fondo, quello del rapporto tra destinazione di un patrimonio ad uno scopo e separazione patrimoniale, problema che, per la loro stessa disciplina, non si pone per le figure normative di patrimoni separati già presenti nel nostro sistema e che rientrano nella limitazione di responsabilità patrimoniale di fonte legale consentita dal secondo comma dell’art. 2740.

Prima della nuova disciplina, introdotta dall’art. 2645 ter c.c., la problematicità della relazione tra atto negoziale di destinazione e separazione era stata affrontata e risolta in vario modo.

Qualcuno, allargando ulteriormente la sfera dell’autonomia privata, è arrivato ad ipotizzare l’esistenza di un negozio atipico di destinazione, ex art. 1322 c.c., contraddistinto da una atipicità non solo della causa ma anche degli effetti in cui la separazione sarebbe solo un effetto ricollegabile all’atto, una conseguenza effettuale ulteriore dell’atto, non esauriente la causa , ma una sorta di effetto secondario della stessa. 3

In altro modo si è voluta fondare la legittimità dell’atto di destinazione sul regime di opponibilità degli atti dispositivi ai creditori, desumibile dal combinato disposto degli artt. 1707, 2914 e 2915 c.c. per cui il principio espresso nell’art. 2740 c.c,. in tema di limitazione della responsabilità patrimoniale, consentirebbe di rendere opponibile alle condizioni indicate dalla legge l’autoregolamento di privati interessi.4

Il nodo del rapporto fra atto di destinazione e separazione è stato poi diversamente interpretato da chi ha considerato la separazione patrimoniale, che consegue all’atto di destinazione, come forma di limitazione del patrimonio e non di responsabilità ed il cui rimedio, offerto dall’ordinamento, sarebbe l’azione revocatoria.5 Di conseguenza solo agli atti che comportano una limitazione di responsabilità del soggetto si applicherebbe l’art. 2740 c.c. con la conseguente sanzione di nullità per illiceità, mentre per gli atti che incidono direttamente sul patrimonio il rimedio sarebbe l’azione revocatoria.

Non può farsi a meno di notare, però, che non è chiaro come possa distinguersi un atto che comporti la separazione di alcuni beni dal restante patrimonio cioè una limitazione del patrimonio, e che solo indirettamente incida sulla responsabilità del soggetto, da un atto che incida direttamente, limitandola, sulla responsabilità del soggetto.

Non sono mancate le teorie che hanno cercato di risolvere il problema del rapporto tra atto negoziale di destinazione e separazione non affrontandolo direttamente, ma limitandosi, con una affermazione di principio, a svalutare l’importanza del principio di responsabilità patrimoniale6. Non è mancato chi ha voluto mettere in luce i vantaggi economici che derivano dalla specializzazione delle responsabilità, con considerazioni di indubbia utilità culturale ma di scarso rilievo giuridico, dato che in ogni caso rimane da sciogliere il nodo del rapporto fra norma del 2740 c.c. ed autonomia privata7.

A questo proposito non deve dimenticarsi che l’art. 2740 c.c., sebbene depotenziato dalla moltiplicazione delle figure di articolazione del patrimonio, è ancora in vigore nel nostro ordinamento. L’idea che non sia un principio, ma soltanto una regola residuale risulta enfatica. D’altro canto, ciò non escluderebbe che si resti nell’ambito della nominatività ogni qual volta occorra individuare i presupposti per poter procedere ad una articolazione del patrimonio.

Ed è proprio in questo quadro che si inserisce la disposizione dell’art. 2645 ter c.c.

2.- La nuova norma dell’art. 2645 ter c.c.: negozio di destinazione, effetto di destinazione, separazione per atto di destinazione. La struttura e la forma dell’atto di destinazione.

Come anticipato, la nuova norma, complice la sua rubricazione e collocazione sistematica, sembrerebbe limitarsi a disciplinare la trascrizione dell’atto di destinazione di beni immobili e mobili registrati.

In realtà c’è da discutere se il suo ruolo sia semplicemente quello di disciplinare il profilo dell’opponibilità a terzi e quindi della separazione o piuttosto quello di delineare un particolare tipo di effetto o, ancor di più, di delineare una nuova figura negoziale.

Qualcuno ha ritenuto che la nuova norma si limiterebbe ad introdurre nell’ordinamento un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione, accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio che potrebbe essere tipico.8 La motivazione addotta a sostegno di questa tesi è che la destinazione è un effetto del negozio e non un nuovo tipo di atto che si configurerebbe altrimenti come atto atipico ad effetti reali e di cui la nuova norma non indica i caratteri essenziali.

E’ di tutta evidenza sul piano concettuale, che la destinazione in sé non può essere un effetto giuridico del negozio, perché priva di rilevanza giuridica, ma può esserlo un vincolo di destinazione, di cui può discutersi la natura obbligatoria o reale, e che il problema del vincolo di destinazione, risolto dalla nuova norma, è proprio quello della sua opponibilità a terzi. Ed è proprio questo il problema che vuole risolvere il 2645 ter c.c. con il sistema della trascrizione, salvo voler sostenere che il vincolo di destinazione abbia natura reale e non obbligatoria.

In termini concettuali, non si può sostenere quindi che l’art. 2645 ter ha introdotto un nuovo tipo di effetto.

Ciò che è fondamentale mettere in evidenza è, invece, che la nuova norma, diversamente da quanto affermano coloro che le negano ogni rilievo sostanziale, contiene numerosi elementi della figura negoziale quali la meritevolezza degli interessi, la forma, la durata, l’azione del beneficiario, per cui, seppur collocata nella disciplina della trascrizione, è una norma sostanziale. Si potrà discutere, poi, anche in termini molto critici, sulla collocazione della norma, sulla tecnica legislativa usata, sulle numerose difficoltà esegetiche che essa pone, ma è indubbio che si sia di fronte ad una norma sostanziale.

La genericità della norma sulla struttura dell’atto, in definitiva, può essere letta come un indice dell’imprecisione di tecnica legislativa impiegata e non come un argomento per negare l’autonomia della figura, a meno che non si voglia sostenere che questa “anomalia” non sia legata alla scelta normativa di disciplinare non un singolo atto negoziale ma una categoria, che, come tale, non può essere inserita in una struttura predefinita.

Posizione estrema è quella di chi rinviene nella nuova norma la disciplina della separazione da destinazione patrimoniale innominata e cioè la disciplina di una fattispecie di cui la destinazione è solo un elemento costitutivo e di cui è coelemento necessario la trascrizione.9

Stando a tale ricostruzione, la nuova norma non sarebbe una norma sugli effetti, effetti che la destinazione in sé non sarebbe in grado di produrre, né tantomeno sull’atto, dato che la destinazione non è un negozio dotato di autonoma rilevanza giuridica, ma sulla fattispecie della separazione da destinazione patrimoniale innominata di beni immobili o mobili registrati.

Si sarebbe di fronte, allora, ad una fattispecie della separazione i cui elementi sarebbero la dichiarazione in forma pubblica di destinazione di un bene immobile e la trascrizione, il tutto sorretto da un interesse meritevole.

Inevitabilmente tale tesi rende inutile ogni tentativo ricostruttivo dell’atto di destinazione in sé: la destinazione sarebbe solo un frammento di un procedimento e non avrebbe valore negoziale, non produrrebbe effetti attributivi né obbligatori, né reali.

Invero il problema della struttura del negozio di destinazione nasce, secondo qualcuno, proprio dal dettato normativo che parla testualmente di atto, utilizzando un lessico che non si è esitato a definire inappropriato o comunque troppo generico.

Probabilmente però il lessico non è così inappropriato come si vuole far credere, dato che atto è una figura che non esclude la configurabilità di un negozio unilaterale o bilaterale che sia, inter vivos o mortis causa.

Le soluzioni possibili sono allora due: costituzione per atto unilaterale o costituzione per contratto, soluzioni che possono combinarsi in tre modi diversi e cioè come soluzioni alternative o cumulative.

Qualcuno ritiene sufficiente un atto unilaterale, poiché l’atto di destinazione produce nella sfera del beneficiario un effetto non pregiudizievole che comunque il beneficiario resta libero di rifiutare.

La conclusione trae linfa dal principio per cui l’intangibilità della sfera del terzo è compatibile con atti attributivi di diritti, relativi o assoluti, salva la facoltà di rifiuto del terzo.

Val la pena ricordare che l’art. 1411 c.c. è espressione del principio secondo cui possono prodursi effetti favorevoli, tra cui anche l’attribuzione di un diritto reale, nella sfera giuridico- patrimoniale di un terzo, per il quale è indifferente che la fonte sia un atto unilaterale o bilaterale, salvo il suo rifiuto. L’art. 1333 c.c., lì dove si ricostruisca la proposta con obbligazioni a carico del solo proponente come un negozio unilaterale recettizio soggetto a rifiuto, proporrebbe lo schema di un negozio unilaterale produttivo di effetti sia reali che obbligatori, purchè sorretto da un interesse patrimoniale del promittente e salva la facoltà del destinatario di rifiutare tali effetti, ed è, a sua volta, espressione di un principio generale, valido al di là delle ipotesi tassative previste dall’ordinamento, secondo cui anche con un negozio unilaterale si può incrementare la sfera giuridica altrui, salvo rifiuto. Da qui si trae l’ulteriore conclusione che l’art. 1333 c.c. consente di superare il principio di tipicità della promessa unilaterale, sancito dall’art. 1987 c.c., solo che sia interessata e rifiutabile.

Si è voluto brevemente richiamare le regole del sistema perché, tra chi ha optato a favore della soluzione dell’atto unilaterale, vi è qualcuno che ritiene che il legislatore abbia istituito, con questa nuova norma, un nuovo tipo di promessa unilaterale fonte di obbligazione. Si tratterebbe di una promessa tipizzata nell’art. 2645 ter, come richiesto dall’art. 1987c.c.10.

La conseguenza di questa impostazione è che alla promessa unilaterale di destinazione, ricettizia e cioè efficace solo quando comunicata al beneficiario, consegue solo la nascita di una obbligazione a carico del conferente, cioè il c.d. vincolo di destinazione, e che tale effetto obbligatorio a carico del “disponente” e a favore del beneficiario si tramuterebbe in effetto reale a seguito della trascrizione.

L’atto di destinazione, secondo tale interpretazione, sarebbe dunque una promessa unilaterale che si trascrive e l’effetto reale consegue alla trascrizione.

Ma allora dovrebbe ritenersi che si sia di fronte ad un caso in cui la trascrizione sarebbe costitutiva di effetti reali, ipotesi questa da respingere.

Detto in altri termini, l’obiezione più ovvia proponibile a questa ricostruzione è che la trascrizione ha effetto costitutivo dell’opponibilità del titolo e non può avere effetto costitutivo di un effetto reale.

Non mancano obiezioni alla tesi della unilateralità dell’atto di destinazione da parte di chi lo ricostruisce come un contratto, e cioè come un accordo fra conferente e beneficiario. 11

La prima è l’inidoneità dell’art. 2654 ter c.c. ad integrare la tipicità richiesta per l’efficacia obbligatoria di una promessa unilaterale, tipicità che si fonda sull’intangibilità della sfera del terzo e sul principio di causalità, considerate, da un lato, l’incidenza dell’atto di destinazione non solo nei confronti del beneficiario ma anche dei terzi creditori, per i quali l’ordinamento non appresta forme di tutela simili a quelle dell’art. 2447 quater e, dall’altro, l’importanza della giustificazione causale che deve risultare dall’atto di destinazione. Nel caso della nuova norma, infatti, non solo la giustificazione causale deve esserci, ma deve essere valutata in termini di meritevolezza, essendo questo l’unico strumento di controllo a tutela dei creditori del destinante, mentre l’unilateralità dell’atto non consentirebbe di verificare l’esistenza di tale interesse se non in termini ipotetici. L’accettazione del beneficiario contribuirebbe, quindi, a rendere effettiva la ricorrenza dell’interesse perseguito con la destinazione, salvo la sua successiva, concreta attuazione.12

Resta da chiedersi, però, se ed in che misura.

Le perplessità che sorgono dinanzi a questa ricostruzione sono più di una.

La prima attiene alla congruità di una accettazione del beneficiario ad attestare la effettività dell’interesse perseguito con la destinazione. Invero l’accettazione del beneficiario non garantisce di per sé l’effettività dell’interesse, poiché potrebbe essere il frutto di un accordo ad hoc con il destinante, per cui anche una destinazione accettata dal beneficiario potrebbe essere falsa.

La seconda riguarda l’esclusione della possibilità di perfezionamento dell’atto di destinazione, ex art. 1333 c.c, in forza della sola dichiarazione del proprietario gravato dal vincolo stesso e cioè tramite un negozio unilaterale interessato e soggetto a rifiuto.

Il caso è proprio quello della costituzione gratuita, non determinata dallo spirito di liberalità che invece giustifica la donazione.

Non è detto, infatti, che la costituzione gratuita sia sempre una liberalità, potendosi configurare un interesse non patrimoniale del conferente, diverso dal beneficiare, onde il vincolo potrebbe costituirsi, a norma dell’art. 1333 c.c., per effetto della sola dichiarazione del proprietario.13

La posizione intermedia è quella di chi risolve il problema in termini di ”versatilità” della struttura che potrebbe essere indifferentemente unilaterale o bilaterale o quella di chi fa salva la bilateralità, ma riferendola al momento successivo dell’attuazione del vincolo di destinazione (accordo fra conferente e gestore, logicamente distinto anche se ipoteticamente contestuale alla costituzione del vincolo di destinazione), il che, però, significa ammettere, anche se non espressamente, la unilateralità dell’atto di destinazione, come atto costitutivo del vincolo.14

Il problema della struttura viene affrontato e risolto in modo peculiare da chi ritiene che la dichiarazione di destinazione sia, in sé, solo un frammento di un procedimento, una componente della fattispecie della separazione e non produca alcun effetto finale, né reale, né obbligatorio.15 Partendo da tale presupposto, infatti, la soluzione del problema della struttura diventa agevole: la destinazione è sempre atto unilaterale e non recettizio ed è questa dichiarazione unilaterale che, documentata in forma pubblica, è soggetta a trascrizione e con la trascrizione è coelemento della separazione.16

Dunque, seguendo tale tesi, l’argomento della tassatività delle promesse unilaterali, che viene invocato per escludere l’unilateralità dell’atto di destinazione e propugnare la sua necessaria bilateralità, diverrebbe del tutto inconferente visto che la destinazione non è considerata una attribuzione obbligatoria, produttiva di per sé di alcun effetto finale.

Tutto questo non escluderebbe, come non è escluso nelle precedenti tesi ricostruttive, il collegamento della destinazione con una attribuzione contrattuale (contratto di donazione modale con il beneficiario, contratto di comodato), né tantomeno con un contratto di gestione, che attiene alla fase di attuazione della destinazione (contratto di mandato con il gestore dei beni).

Quest’ultima ricostruzione è senza dubbio interessante, non fosse altro perché costringe a riconsiderare la destinazione come atto giuridicamente irrilevante, improduttivo di effetti giuridici di alcun tipo.

Occorrerebbe, però, accettare l’idea che destinare un bene ad un certo uso sia semplicemente una manifestazione di libertà di chi è proprietario o, ad altro titolo, dispone di quel bene e che non generi un vincolo, quanto meno obbligatorio, a favore del beneficiario.

Secondo questa ricostruzione la destinazione sarebbe dunque un atto interno, privo di una rilevanza giuridica esterna, sicché non sarebbe configurabile alcuna pretesa sul vincolo di destinazione da parte del beneficiario, con il quale non c’è alcun contratto e che potrebbe anche non essere identificato.17

La destinazione dei beni del conferente, come atto unilaterale di destinazione di un bene ad un determinato scopo non recettizio e senza un beneficiario predeterminato, verrebbe così a essere non molto diversa da un conferimento dei beni ad una fondazione.

Sul piano della forma, si discute se la previsione dell’atto pubblico attenga alla forma dell’atto di destinazione o alla forma necessaria per la sua trascrizione.

Partendo dall’idea che la norma del 2645 ter sia soprattutto una norma sulla fattispecie e non semplicemente una norma sulla trascrizione, se ne può dedurre che la previsione dell’atto pubblico attiene alla forma richiesta ai fini della validità dello stesso.

Non può non ricordarsi, d’altro canto, che la stessa forma è prevista per un altro atto di destinazione di beni ad uno scopo quale la costituzione del fondo patrimoniale e per l’atto di fondazione.

Come qualcuno ha rilevato, la previsione della forma dell’atto, contenuta nell’art. 2645 ter c.c., assorbe e rende inutile qualsiasi precisazione in merito alla forma necessaria per la trascrizione, contenuta in altri articoli quali ad esempio il 2645 bis c.c.18

Di diverso avviso è chi ritiene che la forma pubblica sia richiesta ai fini della sola trascrizione dell’atto e giustificata da una finalità di protezione dei terzi in considerazione dell’effetto sostanziale ad essa connesso, che è la realità del vincolo di destinazione. Poiché l’opponibilità a terzi discenderebbe unicamente dalla trascrizione e con essa la realità del vincolo, l’atto di destinazione sarebbe valido, ma produrrebbe effetti obbligatori, anche se concluso in forma di scrittura privata, mentre potrebbe essere trascritto, e quindi creare un vincolo reale opponibile a terzi, solo ove rivesta la forma dell’atto pubblico.19

3.- Lo scrutinio degli interessi meritevoli di tutela.

All’interno del discorso sull’atto istitutivo del vincolo di destinazione assume una specifica rilevanza il requisito della meritevolezza degli interessi.

L’art. 2645 ter c.c., infatti, parla di “atti con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322”

Volendo semplificare potrebbe dirsi che la separazione è consentita in correlazione con destinazioni che perseguono un interesse meritevole di tutela riferibile ai soggetti indicati.

Si impone un primo chiarimento sul senso del richiamo operato dall’art. 2645 ter c.c. all’art. 1322 c.c.

Viene in rilievo, ancora una volta ed inevitabilmente, la questione attinente alla rilevanza giuridica della disposizione contenuta nell’art. 1322 c.c.

Come è noto, la norma fu inserita, in un ben determinato contesto storico, politico e giuridico, per legittimare un controllo causale che, partendo dalle teorie bettiane sulla causa come funzione economico sociale, tutelava l’autonomia privata solo in quanto perseguisse interessi socialmente utili e rispondenti all’economia nazionale.

Nell’opinione della giurisprudenza e di buona parte della dottrina il giudizio sulla immeritevolezza è divenuto un giudizio sulla liceità, per cui sono meritevoli di tutela gli interessi leciti.

Se si aderisce all’idea che il giudizio di meritevolezza riguardi il tipo, o meglio l’idoneità di un certo schema sociale ad assurgere a modello giuridico, il rinvio all’art. 1322 c.c., contenuto nella nuova norma, non avrebbe alcun senso. Non sembra esservi dubbio, infatti, che il legislatore, con l’art. 2645 ter c.c., sia voluto intervenire sul piano della costituzione del tipo, avendo espressamente previsto la forma dell’atto, l’oggetto, i soggetti, la durata e persino, come sembrerebbe, la causa. Dunque il controllo sul tipo sarebbe avvenuto a monte da parte del legislatore.

Il richiamo all’art. 1322 c.c. deve allora riferirsi necessariamente ad un controllo sotto il profilo causale.

Le possibili opzioni sono due: se si ritiene che il legislatore, nel formulare la nuova norma, abbia tenuto conto del “diritto vivente” allora si è limitato a chiedere quello che il codice già esige e cioè che l’atto non sia illecito; se, diversamente, ha richiesto un quid pluris, consistente nella meritevolezza dell’atto, questo giudizio può essere uno strumento di controllo in via preventiva dell’atto di destinazione.

La soluzione interpretativa in merito alla formula sulla meritevolezza di interessi deve, però, fare i conti, diversamente da quanto accade per quella formalmente identica contenuta nell’altra disposizione, con l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale, nonché con il principio di tipicità dei diritti reali e con la libera circolazione dei diritti.

Basti pensare che nella prima ipotesi e cioè qualora fosse riconosciuta all’autonomia privata la facoltà di creare un effetto separativo al fine della realizzazione di qualsivoglia interesse lecito- dovremmo ritenere di essere di fronte ad un insanabile contrasto fra la norma di nuova introduzione ed il principio espresso nell’art. 2740, comma 2°, c.c. L’ingresso degli atti di destinazione senza alcuna selezione di scopo avrebbe, infatti, una incidenza dirompente sul sistema dell’art. 2740 c.c., perché di fatto creerebbe un sistema aperto di separazione patrimoniale.

Nella seconda ipotesi, invece, il “sacrificio” dei terzi, rectius dei creditori, si potrebbe giustificare solo in presenza di un interesse meritevole di tutela, il quale dovrebbe fungere da filtro ad uno schema altrimenti assolutamente aperto. 20

Non si può prescindere dall’idea secondo cui il vincolo di destinazione può avere come beneficiari persone giuridiche e anche persone fisiche a condizione che sia lo strumento per realizzare un interesse serio, qualificato, sia esso collettivo, pubblicistico o di utilità sociale a seconda della soluzione interpretativa prescelta.

A questo proposito le soluzioni non mancano e ciascun interprete sembra aver scelto a seconda della propria sensibilità interpretativa.

Riferimenti troppo generici o inesatti sembrano quelli dati da chi parla di interesse meritevole come “interesse sufficientemente serio da prevalere sull’interesse economico generale”, o da chi afferma che l’interesse non può coincidere con quello del conferente alla salvaguardia da azioni esecutive dei creditori (questo è in realtà un criterio di liceità perché saremmo di fronte ad un atto in frode ai creditori)21.

Una possibile soluzione interpretativa può venire dalla considerazione degli indici contenuti nel dettato normativo: in primo luogo, il rinvio all’art. 1322 c.c. nel contesto dell’art 2645 ter c.c., che fa ritenere essenziale una specifica meritevolezza, ed, in secondo luogo, l’indicazione esemplificativa dei possibili beneficiari (disabili, pubbliche amministrazioni), seppur resa meno pregnante dal richiamo generico ad enti e persone fisiche.

La conclusione che se ne deriva è che la meritevolezza dell’atto di destinazione potrebbe essere ricercata in quelle finalità di tutela di soggetti o situazioni di cui i beneficiari indicati nella nuova norma sono un esempio paradigmatico. In altri termini il riferimento ai disabili potrebbe essere letto come paradigma di ogni finalità solidaristica ed il riferimento alle pubbliche amministrazioni di ogni interesse superindividuale. Questa soluzione incontra, così, l’opzione interpretativa di chi rinviene la meritevolezza nella pubblica utilità o nell’utilità sociale.

Tra i primi commentatori infatti vi è chi si è fatto espositore, particolarmente convinto, dell’idea che la meritevolezza degli interessi, voluta dalla nuova norma, non è e non può essere un controllo sulla liceità dei fini, ma deve atteggiarsi a valutazione comparativa tra l’interesse della destinazione e l’interesse -sacrificato da quest’ultima- dei creditori, con la conseguenza che solo la prevalenza dell’interesse perseguito dalla destinazione rispetto a quello dei creditori può giustificare un atto che inevitabilmente trae con sé la limitazione della responsabilità. 22Il criterio di riferimento, che consentirebbe di accertare la prelavenza dell’interesse, sarebbe il concetto di pubblica utilità che un tempo era alla base del riconoscimento delle fondazioni (si trova un riferimento alla pubblica utilità come concetto alla base del riconoscimento della fondazione, quale nuovo soggetto cui si conferisce un patrimonio o come criterio idoneo a giustificare, nella disciplina del codice, la limitazione del divieto posto dall’art 698 c.c., con la conseguente possibilità di ritenere ammissibile la destinazione del patrimonio in via successiva entro il termine di novanta anni a determinate condizioni).23

Allo scopo di circostanziare meglio questo parametro è stata messa in evidenza la possibilità di fare riferimento a finalità già selezionate dal legislatore in altro ambito quali i settori di utilità sociale individuati nell’impresa sociale con il dlgs 155/2006, per poi procedere alla elaborazione di un catalogo di valori.24

Aderendo all’idea secondo cui la separazione sia consentita soltanto in presenza di un rilevante e collettivo interesse che “giustifichi” il sacrificio dei creditori, qualcuno ritiene di poter operare la selezione di interessi alla luce del sistema costituzionale.25

Il riferimento è all’art 42, comma 2, Cost., che ammette limiti normativi alla proprietà, quale sarebbe il vincolo di indisponibilità conseguente alla destinazione, allo scopo di assicurarne la funzione sociale.

Questa ricostruzione necessita, però, di un aggiustamento, dato che, nel caso di specie, il limite consegue ad un atto di autonomia sebbene previsto in una norma del codice. Che poi la selezione degli interessi possa farsi alla luce del dettato costituzionale, non vi è dubbio, ma allora si giustificherebbe anche la destinazione sorretta da un interesse individuale e non collettivo ma costituzionalmente garantito.26

A sostegno della necessità di leggere nella meritevolezza l’esigenza di realizzare una finalità pubblica della destinazione non sono mancate le prospettazioni giuseconomiche, secondo cui, al fine di bilanciare i costi sociali prodotti dall’art. 2645 ter c.c., sarebbe indispensabile che l’interesse realizzato dal disponente sia superindividuale, tale da proiettare le sue esternalità positive sulla collettività dei consociati. Tale esigenza si spiegherebbe in termini di mera efficienza: se, infatti, l’utilità prodotta dalla separazione dei patrimoni per effetto della destinazione si riflette a favore del solo disponente e supera i costi che tale destinazione impone alla collettività (creditori istituzionali come la banche o gli operatori finanziari), allora è assolutamente inefficiente. Ed ecco perché, in ultima analisi, può essere giustificata solo se sorretta da una pubblica utilità.27

A questa ricostruzione qualcuno ha obiettato che il disponente cede al beneficiario tutte le utilità su cui incide la destinazione e che non vi sono esternalità negative per i creditori nel caso di destinazione sicchè la utilità del fine non rende l’operazione di destinazione più efficiente. 28

Non è difficile contestare tali obiezioni sottolineando in primo luogo che il proprietario, nel caso di destinazione dei beni, rimane tale, perché non dispone nulla, ma realizza una separazione dal restante patrimonio, ed inoltre che l’atto di destinazione scarica il “costo” della conseguente limitazione di responsabilità sul creditore generale e che l’utilità del fine compensa, in termini di analisi economica, i costi dell’operazione e soprattutto, ne limita, fungendo da filtro, l’utilizzo e con esso le esternalità negative che ne derivano.

In altri termini la necessità di una proiezione collettiva dell’interesse perseguito può quanto meno funzionare quale disincentivo all’uso dell’atto di destinazione come strumento di protezione del patrimonio, così da servire, il più possibile, per finalità non diverse da quelle che fino ad oggi sarebbero state perseguibili attraverso l’istituto della fondazione.

Inevitabilmente se si parte dall’idea che la meritevolezza dell’interesse sorregge la destinazione sul piano causale, l’esito negativo del controllo comporta la nullità dell’atto e la sua conseguente intrascrivibilità.

Il primo soggetto a doversi occupare di tale controllo sarebbe il notaio rogante l’atto di destinazione i cui obblighi di diligenza sono i medesimi sia nel caso di atto pubblico che di scrittura privata autenticata.29

Inevitabilmente il punto è oggetto di contestazione da parte di chi ritiene che, essendo i notai obbligati a ricevere atti, tranne se proibiti dalla legge o manifestatamene contrari a buon costume ed ordine pubblico, il notaio, all’esito negativo del solo giudizio di meritevolezza di una destinazione lecita, non potrebbe sottrarsi alla stipula, né tantomeno potrebbe farlo il conservatore, che può rifiutare la trascrizione solo nelle ipotesi tassative previste dall’art 2674 c.c. 30

Sul piano pratico questo rifiuto comporterebbe l’onere per le parti di ricercare e trovare un diverso e positivo giudizio di altro notaio in merito alla sussistenza della meritevolezza dello scopo o l’obbligo di rivolgersi al giudice, per violazione dell’art. 27 l.n., con la possibilità di instaurare un giudizio che terminerebbe con una sentenza di condanna del notaio a rogare l’atto, previa dichiarazione di sussistenza della meritevolezza dell’interesse da lui ritenuto inesistente.

La valutazione finale, dunque, spetterebbe ai giudici.

Nell’ipotesi inversa in cui fosse rogato un atto di destinazione poi dichiarato nullo dal giudice, a parte la responsabilità in cui incorrerebbe il notaio, rimane da chiedersi se sia possibile recuperare la fattispecie ricorrendo all’art. 1424 c.c. (conversione in atto di destinazione obbligatorio con il solo limite temporale dell’art.1379 c.c.), previo inserimento, al momento della stipula, di una clausola di “salvaguardia” in cui le parti abbiano dichiarato l’interesse primario alla destinazione a prescindere dalla sua opponibilità, situazione questa assolutamente improbabile.31

Dunque la conseguenza in termini giuridici dell’esito negativo di tale controllo preventivo sarebbe la nullità dell’atto di destinazione, mentre la possibile azione revocatoria, da esperire in via successiva a cura dei creditori, inciderebbe solo sulla sua efficacia.

La discussione, fin qui condotta, sul senso del richiamo all’art. 1322 c.c., operato dall’art. 2645 ter c.c., risulta inevitabilmente improntata all’idea, da condividersi, secondo cui la nuova norma, seppur collocata nella disciplina della trascrizione, è una norma sostanziale e contiene numerosi elementi della figura negoziale tra cui il profilo causale.

Vi è però una diversa lettura secondo cui gli “interessi meritevoli di tutela” di cui all’art. 1322 c.c. non esplicano gli stessi effetti del medesimo concetto espresso e richiamato dall’art. 2645 ter c.c.: il rinvio della nuova norma all’art. 1322 c.c. non evocherebbe un controllo sotto il profilo causale ma un duplice controllo sia causale che sostanziale al fine della trascrivibilità del vincolo.32

La tesi parte dall’idea che l’art. 2645 ter c.c. abbia introdotto una fattispecie sostanziale che potrebbe -ma non è detto che debba-, avere una valenza esterna (opponibilità, segregazione), da ricollegarsi alla trascrizione del vincolo: allorquando le parti manifestino l’intento di voler creare un vincolo di destinazione suscettivo di trascrizione, l’atto pubblico di costituzione sarebbe soggetto ad un controllo notarile circa la presenza di interessi sostanziali che giustifichino effetti così rilevanti, controllo che, naturalmente, congloba il controllo sulla liceità degli interessi stessi. Si tratterebbe, in altri termini, di un controllo di meritevolezza ai fini della trascrivibilità.

L’interesse meritevole di tutela sarebbe, dunque, un concetto di relazione che opererebbe nell’art. 1322 in chiave negativa, selezionando gli interessi che importano invalidità dell’atto, mentre nell’art. 2645 ter c.c. servirebbe (anche) a selezionare, in chiave positiva, gli interessi che possono rendere efficace erga omnes il vincolo.

Ai fini della trascrizione del vincolo il richiamo alla locuzione “interesse meritevole di tutela”, contenuto nella nuova norma, non opererebbe (solo) come controllo di liceità, ma come controllo sulla serietà degli interessi e quindi di congruenza del contenuto con particolare riguardo agli scopi della pubblicità immobiliare. Il controllo notarile sarebbe un controllo sostanziale circa l’esistenza di un interesse pregnante, da condurre avendo presente il significato valoristico della gerarchia di soggetti indicati nell’art. 2645 ter c.c e ponderando anche i principi del sistema (art. 2740 c.c., tipicità dei diritti reali, libertà nella circolazione dei beni immobili) che limitano o collidono con la nuova norma o per meglio dire tenendo conto del grado di impatto del singolo vincolo sugli stessi. 33

Si eliminerebbe così il problema del rinvio all’art. 1322 c.c. inteso dal punto di vista causale – evitando l’incongruenza di ritenere sufficiente il controllo causale ex art. 1322 c.c.- e con esso di collegare all’atto di destinazione immeritevole di tutela la sanzione di invalidità.

Ad ulteriore conforto di tale ricostruzione si è voluto trovare, dal punto di vista sistematico, un collegamento tra la fattispecie della destinazione e quella simile del divieto di alienazione in cui il patto, limitativo della circolazione del bene, deve essere sorretto da un interesse apprezzabile delle parti.

A tal proposito non può non osservarsi, però, che, risulta difficile immaginare una similitudine tra le due fattispecie considerato che, per espressa dizione dell’art. 1379 c.c., l’interesse sorregge la validità di un accordo che ha efficacia meramente obbligatoria, mentre, secondo tale tesi, l’interesse meritevole sarebbe condizione della opponibilità a terzi della destinazione.

Naturalmente questa tesi interpretativa non è priva di conseguenze sul piano operativo: il notaio rogante, chiamato a valutare la serietà e la pregnanza dell’interesse che giustifica il vincolo, sarebbe investito di una responsabilità non al fine della validità dell’atto ma della sua trascrivibilità, sicché l’accertamento giudiziale successivo che ritenesse l’interesse immeritevole esiterebbe non in una sentenza dichiarativa di nullità, bensì in una sentenza costitutiva che renderebbe inopponibile il vincolo ed eliminerebbe l’effetto segregativo.

4.- La trascrizione dell’ atto costitutivo del vincolo di destinazione. Segue: il problema della natura obbligatoria o reale del vincolo di destinazione.

L’art. 2645 ter c.c. afferma che possono, rectius devono, essere trascritti gli atti di destinazione, al fine di rendere opponibili a terzi il vincolo.

Va precisato che la funzione dell’atto, in considerazione della quale è prevista la trascrizione e che è desumibile solo da una lettura complessiva della norma, non è naturalmente quella di destinazione, ma quella di separazione del bene destinato dal residuo patrimonio del destinante. In altri termini la pubblicità, e dunque la trascrizione, è requisito per la produzione o l’opponibilità di un effetto proprio dell’atto e non di un effetto ulteriore.

Se così non fosse, si dovrebbe concludere, e la conclusione sarebbe aberrante in termini giuridici, che basta la pubblicità a rendere un atto di destinazione di un bene idoneo a determinare la separazione. Ma risulta evidente che la concessione in servitù o in uso di un bene, non può comportare, una volta resa pubblica, la separazione del bene che ne è oggetto dal residuo patrimonio, e questo non perché si tratta di un vincolo obbligatorio (come è, secondo alcuni, quello che nasce dall’atto di destinazione), ma perché conseguenza di tal genere esula dalla funzione e dall’intento comune degli autori del negozio, per cui la pubblicità non può avere, sotto tale profilo, una funzione integrativa dei suoi effetti.34

Peraltro, la norma in questione omette di identificare i terzi nei confronti dei quali, in difetto di trascrizione, è inopponibile il vincolo, per cui resta da chiedersi, data la formula tanto generica quanto equivoca, se siano tutti i terzi cui il vincolo, una volta trascritto, sarebbe opponibile, oppure soltanto coloro che abbiano trascritto un titolo prima della trascrizione del vincolo.

Vale la pena ricordare, anche solo per un momento, che la trascrizione ha la funzione di rendere opponibile un effetto ed in tal senso impropriamente si parla di effetto costitutivo dell’opponibilità considerato che in realtà la fattispecie il cui effetto è oggetto di trascrizione è di per sé già perfetta ed efficace e la sua opponibilità serve solo a risolvere conflitti sul piano circolatorio.

L’opponibilità indica, infatti, proprio la prevalenza di un titolo su un altro, prevalenza che trae fondamento dalla diversa forza di quel titolo che, a sua volta, dipende dalla rispondenza ad un certo schema normativo.

L’opponibilità attiene, pertanto, al titolo costitutivo di un certo diritto e non al diritto stesso che non degrada da assoluto a relativo per il fatto di essere inopponibile e cioè non muta la sua caratteristica strutturale, bensì non è rilevante nei confronti di quei soggetti cui non è opponibile il suo titolo costitutivo.

Qualcuno afferma che, in tal caso, si può parlare impropriamente di un effetto costitutivo della trascrizione e cioè come riferito ad un effetto già nato ma inutile nei rapporti inter partes. L’effetto di separazione, infatti, si produrrebbe al momento del perfezionamento dell’atto di destinazione fra le parti e, non avendo senso una limitazione di responsabilità solo inter partes, rileverebbe nei confronti dei terzi creditori solo in virtù della trascrizione. In altri termini, la trascrizione non sarebbe costitutiva del vincolo ma costitutiva dell’opponibilità dello stesso sicché potrebbe parlarsi dell’effetto costitutivo della trascrizione avuto riguardo all’opponibilità della separazione ai creditori 35.

Chi sostiene la tesi dell’effetto costitutivo dell’opponibilità ritiene evidentemente che il vincolo di destinazione non abbia natura reale, ma obbligatoria, ragione per cui il sistema avrebbe previsto la incisiva tutela, naturalmente a favore del beneficiario, dell’opponibilità, affidata al sistema della trascrizione.

A tale ricostruzione si contrappone quella di chi ritiene che la trascrizione ha una funzione costitutiva analoga a quella del pignoramento immobiliare. La trascrizione avrebbe funzione costitutiva nei confronti di tutte le categorie di terzi, senza alcuna distinzione tra creditori e aventi causa. A sostegno di questa tesi si adducono due elementi: in mancanza della trascrizione non vi è limite alcuno all’azione esecutiva per i creditori del conferente ed inoltre, solo a trascrizione avvenuta, qualsiasi interessato può agire a tutela del vincolo 36.

A tale ricostruzione però non è difficile obiettare che l’opponibilità del vincolo di destinazione ai creditori personali del conferente trova, differentemente dagli aventi causa, un limite proprio nel richiamo che l’art. 2645 ter c.c., nell’ultima parte, fa all’art. 2915 c.c.

La trascrizione costitutiva del vincolo comporterebbe, inoltre, l’irrilevanza dello stesso fino a quando non sia stato trascritto, con l’ulteriore conseguenza che l’avente causa del conferente vedrebbe prevalere il suo acquisto anche se abbia acquistato e trascritto dopo il perfezionamento del vincolo ma prima della sua trascrizione.37

Questo “inconveniente” deriverebbe dal fatto che il vincolo di destinazione è vincolo obbligatorio e non può trasformarsi in reale per il sol fatto di essere suscettibile di trascrizione. Ma proprio tale assunto viene contestato facendo leva sulla disciplina della locazione, per cui l’alienazione del bene consente comunque l’assunzione di un vincolo obbligatorio suscettibile di trascrizione e opponibile all’acquirente se reso pubblico prima dell’alienazione stessa.38

Quest’ultima conclusione, però, non può non andare incontro ad una obiezione che è quella della necessità di tener conto della disposizione dell’ art. 1599 c.c. secondo cui anche la locazione di beni immobili non trascritta è opponibile al terzo acquirente, se ha data certa anteriore all’alienazione del bene, sebbene solo nei limiti del novennio dal suo inizio. 39

Non può non ricordarsi la ricostruzione secondo cui, in caso di atto di destinazione, si può parlare di trascrizione costitutiva, ma da intendersi come elemento perfezionativo di una fattispecie, la fattispecie della separazione, di cui l’atto di destinazione è solo l’elemento iniziale.40 Pertanto, secondo tale impostazione, la destinazione in sé non avrebbe effetto alcuno dal punto di vista giuridico e la trascrizione sarebbe costitutiva, ma non del vincolo di destinazione ma dell’effetto di separazione stesso.41

I ragionamenti fin qui condotti sul carattere della trascrizione dell’atto di destinazione portano ad aprire un’ulteriore ed inevitabile approfondimento in merito alla natura obbligatoria o reale del vincolo nascente dall’atto di destinazione.

Chi afferma la natura obbligatoria del vincolo, ritiene che, se il vincolo di destinazione fosse un vincolo reale, saremmo di fronte ad una forma atipica di proprietà o ad un nuovo diritto reale. Le considerazioni di sistema in ordine all’inconfigurabilità di una proprietà anomala o di un nuovo diritto reale, sostenute da tale dottrina, sembrano trovare conferma nel dato normativo: se si trattasse di un vincolo reale, dovrebbe essere indicato nell’art. 2643 c.c. al fine di consentire l’applicazione dell’art. 2644 c.c. E’ vero che alcuni rapporti obbligatori sono contemplati nell’art. 2643 c.c. ma ad essi, proprio perché obbligatori, non si applica l’art. 2644 c.c. in tema di conflitto fra più aventi causa dallo stesso autore. 42

Peraltro questa conclusione porta con sé un’ulteriore conseguenza e cioè che, nel conflitto fra beneficiario del vincolo di destinazione ed avente causa, l’avente causa prevarrebbe anche se acquistasse, con atto di data certa anteriore alla costituzione del vincolo ma trascrivesse successivamente. La norma dell’art. 2645 ter c.c., infatti, sosterrebbe il beneficiario della destinazione solo nell’ipotesi in cui l’avente causa dal conferente acquisti e trascriva dopo la costituzione del vincolo di destinazione.

In sostanza chi ha alienato, non avendo più la proprietà del bene, non potrebbe più disporne una destinazione ad un certo scopo (art. 1376 c.c.).

Invero questa soluzione è rimasta piuttosto isolata. La norma ritenuta applicabile in caso di conflitto fra beneficiario dell’atto di destinazione e avente causa del conferente è, per molti, l’art. 2644 c.c., sebbene questo articolo testualmente regoli il conflitto fra due aventi causa dallo stesso autore, mentre beneficiario dell’atto di destinazione ed acquirente del bene destinato non possono giuridicamente considerarsi tali.

Il problema viene affrontano e risolto in modo più sfumato se si parte dalla considerazione che la proprietà di un bene destinato può essere o compressa dal vincolo o, in virtù dello stesso, conformata alla realizzazione di una determinata finalità.43

Due sono allora le possibili interpretazioni .

Partendo dalla considerazione che tipicità dei diritti reali e numerus clausus sono principi diversi, per cui se è vietato all’autonomia privata creare proprietà atipiche non è certo vietato al legislatore introdurle, si potrebbe arrivare alla conclusione che l’art. 2645 ter c.c., che non discrimina fra tipi di vincoli di destinazione, abbia consentito ogni tipo di vincolo di destinazione, anche quello che funzionalizza la proprietà. In questo senso dovrebbe ammettersi che l’art. 2645 ter è una norma sugli effetti e cioè regola gli effetti del vincolo sulla proprietà, ammettendone una funzionalizzazione ed introducendo così una proprietà atipica o un nuovo diritto reale.

Secondo l’interpretazione, definita “restrittiva”, l’art. 2645 ter c.c. consentirebbe, invece, la creazione e la trascrizione di quei soli vincoli che limitano la proprietà senza funzionalizzarla, perché è una norma sulla trascrizione e non sugli effetti, sicchè gli effetti del vincolo sulla proprietà restano regolati dalle norme dell’ordinamento, secondo cui l’autonomia privata non può creare una proprietà funzionalizzata-atipica perché ciò è contrario all’ordine pubblico, pena la nullità dell’atto. La conclusione sarebbe che possono crearsi solo quei vincoli di destinazione che limitano la proprietà senza funzionalizzarla, onde l’istituzione del vincolo potrebbe determinare la creazione di un nuovo limite, consistente ad esempio in un diritto reale di godimento, che sopprime una facoltà di godimento, lasciando intatta la natura proprietaria del diritto sul bene. Di qui la conclusione circa il carattere obbligatorio del vincolo, dato che il proprietario che conferisce in destinazione rimarrebbe tale e limiterebbe solo sul piano obbligatorio, il potere di godere del bene, senza naturalmente perdere quello di disporne.

5- La gestione del patrimonio destinato: il rapporto tra atto di destinazione e trust.

Il dato dal quale occorre partire è che, con l’introduzione dell’art. 2645 ter c.c., per la prima volta appare nel nostro sistema legislativo l’atto di destinazione, quale strumento generale per la destinazione dei beni ad una determinata finalità.

Il nuovo art. 2645 ter c.c. sembra esaurire la sua disciplina nella creazione del vincolo, nel profilo formale dell’atto pubblico, in quello causale dell’interesse meritevole di tutela, ed in quello dell’opponibilità del vincolo a terzi legato alla trascrizione, senza curare l’aspetto della attuazione della destinazione, se non nella misura in cui dispone che per la realizzazione dell’interesse può agire il disponente, il beneficiario e qualsiasi altro interessato.

Occorre, pertanto, affrontare il profilo della gestione dei beni.

L’attuazione della destinazione pone il problema degli strumenti attuativi, nell’ipotesi in cui colui che ha il compito di attuare la destinazione non coincida con il conferente ed il discorso assume particolare rilevanza allorquando il destinante voglia attribuire ad un terzo il compito di svolgere l’attività gestoria necessaria alla realizzazione dello scopo.

Possono distinguersi varie ipotesi, che vanno sinteticamente prospettate.

Non si pongono particolari problemi ove la destinazione si attui da sola, attraverso un pati del disponente, ad esempio attraverso l’esercizio di un diritto reale o di un diritto di godimento da parte del beneficiario.

Ove, invece, la destinazione consista, ad esempio, nel vincolare le rendite derivanti da un certo uso dell’immobile al mantenimento del beneficiario, è possibile che l’attività di gestione dell’immobile, funzionale alla produzione delle stesse, sia attribuita ad un terzo gestore che non si identifica né con il destinante né con il beneficiario, il quale ha solo il potere di riscuoterle.

Naturalmente ciò non esclude che, anche nel caso di destinazione “dinamica”, la gestione possa essere riservata allo stesso destinante o al beneficiario, i cui compiti vengano definiti nell’atto di destinazione

E’ possibile, inoltre, che il destinante concluda un contratto di gestione con un terzo.

Ma vi è di più. Occorre considerare l’ipotesi che la destinazione si inserisca in una vicenda circolatoria, che assicura di per se stessa la realizzazione dell’interesse del terzo, senza dover ricorrere allo schema “tradizionale” atto di destinazione e successivo contratto di gestione.

Così può pensarsi ad una vendita in cui l’acquirente si obbliga, in qualità di proprietario conferente, a porre in essere un atto di destinazione a favore di un terzo, oppure ad una donazione modale in cui il modus del donatario è la destinazione in uso del bene a favore di un terzo.

Attraverso uno schema circolatorio è possibile la realizzazione dell’interesse della destinazione anche in capo all’alienante, nell’ipotesi in cui il proprietario alieni il bene e contestualmente pattuisca un vincolo di destinazione a suo favore, per cui conferente è ancora una volta l’acquirente ma a favore dell’alienante stesso.

In fondo nell’ipotesi del contratto di alienazione stipulato tra alienante e acquirente-conferente, l’acquirente potrebbe non solo obbligarsi a costituire il vincolo a favore di un terzo ma obbligarsi altresì, nei confronti dell’alienante, a gestire l’immobile in funzione della realizzazione del vincolo di destinazione, vicenda questa apparentemente simile a quella in cui, per la gestione di un bene destinato, il bene venga alienato fiduciariamente al fiduciario-gestore, con la particolarità che il pactum fiduciae non rileva all’esterno.44

E’ proprio partendo da una vicenda simile che si potrebbe pensare ad un possibile accostamento con il trust.

E’ opportuno soffermarsi sul punto.

L’atto di destinazione ed il trust hanno in comune il profilo funzionale rinvenibile nella programmazione della separazione dei beni per la realizzazione di determinate finalità. Entrambi rappresentano, seppur in modo diverso, una risposta alla progressiva e crescente esigenza di specializzazione dei patrimoni.45

Tuttavia la naturale analogia tra il trust e l’atto di destinazione potrebbe fermarsi qui: solo in tal senso potrebbe dirsi che l’atto di destinazione rappresenti la risposta italiana al trust.

L’atto di destinazione resta essenzialmente diverso da qualsiasi destinazione che si voglia realizzare utilizzando un trust, non solo avuto riguardo agli aspetti strutturali che contraddistinguono i due istituti, ma soprattutto per quanto attiene alla gestione del vincolo per la realizzazione dello scopo.46

Qualcuno ha ritenuto di poter rinvenire una differenza in alcuni elementi formali e strutturali quali ad esempio la forma dell’atto, la durata del vincolo, l’individuazione del beneficiario, la revocabilità della disposizione. 47

A ben riflettere, però, nessuno di questi profili risulta essere decisivo, ma può costituire al massimo un elemento di confronto: la forma, nell’atto di destinazione forma solenne dell’atto pubblico mentre nessuna forma è imposta per l’atto istitutivo del trust; la durata del vincolo, senza alcun limite per alcune leggi regolatrici del trust, mentre un limite massimo di novanta anni è richiesto per l’atto di destinazione; il beneficiario, elemento essenziale sia nel trust con l’unica eccezione per quello di scopo che nella destinazione, seppur individuato sommariamente nella disposizione dell’art. 2645 ter c.c.; la revocabilità dell’atto istitutivo del vincolo, non consentita al disponente (settlor) nel trust ed ammissibile nell’atto di destinazione a patto che lo si configuri come negozio unilaterale soggetto a rifiuto, sino a quando il beneficiario non dichiari di volerne approfittare.48

Una considerazione a parte merita il profilo della meritevolezza degli interessi perseguiti: la necessaria presenza di uno scopo coincidente con la realizzazione di interessi meritevoli di tutela, espressamente prevista dal legislatore per l’atto di destinazione a tal punto da non consentire dubbi sul fatto che l’atto istitutivo del vincolo debba obbligatoriamente indicarlo a pena di nullità, non è richiesta, al di là della liceità della causa, per il trust interno49.

Invero, a parere di chi scrive, il motivo di diversità, l’unico e determinante motivo di diversità tra le due figure, deve cogliersi, però, proprio nelle vicende che riguardano il mantenimento e la gestione del vincolo.

In primo luogo perché la disciplina dell’art. 2645 ter c.c., che introduce la nuova figura dell’atto di destinazione, disciplina esclusivamente l’apposizione del vincolo di destinazione sui beni ad un determinato scopo, non occupandosi affatto del mantenimento e della gestione degli stessi per la sua realizzazione, mentre elemento essenziale del trust è proprio il rapporto di affidamento fiduciario dei beni dal settlor al trustee, il quale ha l’obbligo di amministrarli e gestirli secondo le disposizioni impartite e senza trarre alcun vantaggio dal vincolo, né durante la gestione, né alla sua cessazione.

In altri termini, mentre nell’atto di destinazione possono prospettarsi, sul piano delle modalità attuative, le più diverse situazioni, per cui al fine della soddisfazione degli interessi talvolta può essere sufficiente un’esclusiva destinazione del bene, ma talaltra è necessaria un’attività di gestione dell’immobile che può essere affidata ad un terzo che non si identifica né con il destinante, né con il beneficiario, sicché, in ultima analisi, l’affidamento in gestione dei beni ad un terzo è situazione eventuale, nel trust l’affidamento fiduciario dei beni al trustee è elemento essenziale, rapporto primario.

Potrebbe giustamente obbiettarsi che tale differenza opera sul piano latamente descrittivo e non esclude che, per la realizzazione degli interessi che hanno giustificato l’apposizione del vincolo di destinazione, il conferente concluda un contratto di gestione con un terzo.

Ma il motivo di maggiore diversità rispetto al trust sembra potersi cogliere, anche in tal ultima ipotesi, proprio nell’assenza del trasferimento del bene o dei beni a chi si obblighi a perseguire la finalità per cui il vincolo è stato creato: manca, in altre parole, il trasferimento dei beni al soggetto ( nel trust, il trustee) che si obbliga ad attuare la finalità del vincolo stesso. Basta osservare, infatti, che il trasferimento di un bene destinato ad una particolare finalità potrebbe avere come destinatario un soggetto che si obbliga a rispettare il vincolo ma che non è né il gestore né il beneficiario.

Qualcuno, a tal proposito, ha osservato che, se si vuole una “ragionevole efficienza della sistemazione patrimoniale” l’atto di destinazione, al pari del trust, dovrebbe accompagnarsi al trasferimento dei beni a chi si obblighi a perseguire quella finalità, altrimenti il negozio di destinazione ne risulterebbe “perdente” perché centrato sul profilo del diritto reale e privo dei contenuti obbligatori che caratterizzano il trust.50

Ma, forse, quella che viene considerata una “lacuna” dell’atto di destinazione è solo un elemento di diversità ed incompatibilità con la vicenda del trust .

Non è un caso che, proprio partendo da tale elemento, si deduce un ulteriore profilo di diversità fra le due figure che attiene al momento della cessazione del vincolo: nel trust, quando il vincolo cessa, i beni tornano al disponente o ad un soggetto diverso da quello in favore del quale erano stati vincolati, mentre tale meccanismo di trasferimento non è necessariamente richiesto per l’atto di destinazione, poiché il conferente non perde la proprietà ma la destina non indefinitivamente, potendo così riacquistare la pienezza della sua posizione proprietaria al termine del vincolo senza necessità di alcun ritrasferimento.51

Potrebbe ipotizzarsi, tuttavia, anche in caso di destinazione un negozio fiduciario in virtù del quale l’acquirente si obblighi ad agire secondo le direttive dell’alienante-fiduciante, costituendo un vincolo di destinazione a favore di terzo. In tal caso si verificherebbe quella riunione, nella stessa persona, della titolarità dei beni destinati e dell’obbligo ad agire che sembrerebbe consentire l’accostamento alla figura del trust.

Effettivamente questo potrebbe accadere.

Potrebbe ipotizzarsi, altresì, un trasferimento fiduciario non contestuale ma successivo all’imposizione del vincolo, giungendo al medesimo risultato della riunione delle due figure nello stesso soggetto, nel senso che l’acquirente assumerebbe la veste del trustee.

Tuttavia anche con riferimento a queste ultime ipotesi rimane una sostanziale differenza, che non può essere ignorata, da cogliersi nella circostanza che nel trust i beni sono gestiti dal trustee senza entrare a far parte del suo patrimonio, poiché si tratta di un patrimonio segregato, mentre nella destinazione i beni vincolati entrano a far parte del patrimonio dell’”attributario”, e sono soggetti solo ad una limitazione di responsabilità per i debiti contratti in vista della realizzazione della stessa, poiché in esito ad un trasferimento fiduciario che mantiene intatte tutte le caratteristiche di una fiducia romanistica.52

Quanto affermato necessita di un’ulteriore precisazione: nel trust la segregazione dei beni è bilaterale e perfetta, onde il trustee risponderà delle obbligazioni contratte per l’attuazione del trust solo con i beni in esso costituiti, mentre nella destinazione la separazione patrimoniale è imperfetta ed unilaterale sicché non esclude l’espropriabilità degli altri beni del patrimonio personale dell’attributario, per obbligazioni inerenti la destinazione.

Di qui l’ulteriore conseguenza per cui nella destinazione il ritrasferimento potrebbe ricollegarsi solo ad un obbligo assunto con il patto iniziale ovvero ad una clausola che imponga all’attributario di ritrasferire il bene a soggetti determinati, mentre nel trust i beni o i beni residui dovranno essere ritrasferiti dal trustee allo stesso disponente od ai beneficiari . 53

Sarebbe un errore ritenere, quindi, che la disposizione dell’art. 2645 ter, nella misura in cui è possibile un negozio di destinazione che si accompagni ad un trasferimento a favore dell’attributario con l’obbligo di realizzare le finalità impresse dal disponente, abbia, con la previsione della trascrizione del negozio che renderebbe opponibile al tempo stesso il trasferimento ed il vincolo di destinazione, introdotto un nuovo negozio fiduciario il cui pactum fiduciae sarebbe perciò opponibile a terzi.54

Viene così in considerazione un ulteriore elemento di differenziazione fra le due figure per cui nell’atto di destinazione il conferente può agire per l’attuazione della finalità, unitamente al beneficiario e a chiunque vi abbia interesse, differentemente dal settlor che non può agire contro il trustee, salvo il potere di revoca o sostituzione dello stesso, spettando l’azione ai beneficiari e, quando previsto, al c.d. guardiano del trust.55

Invero l’assenza del diritto di azione del disponente verso il trustee trova giustificazione proprio nella natura fiduciaria dell’obbligazione di quest’ultimo, ragione per cui il disponente risulta titolare di una mera aspettativa. Tutto questo è coerente, poi, con il diritto di azione del beneficiario nel trust in ragione del fatto che la sua posizione è obbligatoria e non reale, avendo egli un diritto di credito verso il trustee e nessuna pretesa nei confronti dei beni del trust.

Diversamente nella destinazione si permette al conferente – e a qualsiasi interessato, che è assai spesso lo stesso beneficiario del vincolo- di agire per l’attuazione della finalità proprio in virtù di un rapporto obbligatorio intercorrente fra disponente e gestore nonché fra gestore e beneficiario.

La fonte della legittimazione ad agire del disponente è nella legittimazione assoluta prevista dalla norma, e può essere duplice se egli ha azione per l’adempimento del gestore anche in base al rapporto contrattuale che li lega. La fonte della legittimazione ad agire del beneficiario è anch’essa duplice poiché trova fondamento nella norma e nel fatto che questi è creditore delle utilità derivanti dalla destinazione.

Rimane da affrontare il problema del trust autodichiarato.

Usualmente l’istituto del trust prevede un trasferimento dal settlor al trustee dei beni su cui il vincolo viene a costituirsi a meno che si versi in ipotesi di trust autodichiarato nel quale non c’è alcun trasferimento ed è lo stesso costituente a porsi quale trustee. La differenza con l’atto di destinazione in cui un bene viene vincolato ad uno scopo dal proprietario che lo gestisce in vista della realizzazione dell’interesse proprio senza trasferirlo ad un soggetto diverso appare inevitabilmente più sfumata.

Invero anche in tale ipotesi, in cui costituzione del vincolo e trasferimento del diritto non si accompagnano, rimane -oltre alle differenze attinenti a profili quali la durata, la forma o il bene oggetto del vincolo- una innegabile diversità fra le due figure che è la necessaria presenza, nell’atto di destinazione, di uno scopo coincidente con un interesse meritevole di tutela riferibile a soggetti determinati, scopo non richiesto nel trust autodichiarato. A ciò deve aggiungersi che il trust, anche nel caso di trust autodichiarato, determina un effetto segregativo dei beni dal restante patrimonio che la destinazione di un bene ad uno scopo non assicura, dato che la separazione patrimoniale, imperfetta ed unilaterale, non esclude l’espropriabilità del restante patrimonio del destinante per obbligazioni inerenti alla destinazione.

Accantonata l’idea che atto di destinazione e trust coincidano e che, dunque, l’atto di destinazione costituisca lasciapassare per il trust di diritto interno, emerge, tuttavia, dal confronto fra le due figure, l’esigenza di considerare più attentamente, nell’atto di destinazione, l’aspetto del mantenimento del vincolo, utilizzando non solo o non tanto i tradizionali strumenti di gestione che l’ordinamento giuridico offre e che, come si vedrà, si mostrano non perfettamente adeguati, quanto piuttosto nuove figure.

Si potrebbe pensare ad un contratto di affidamento o ad un contratto di gestione, intercorrente tra disponente e gestore dei beni destinati.

Una prospettiva interessante ma di non facile realizzazione potrebbe essere quella di attribuire rilievo autonomo alla attività di gestione nell’interesse altrui, valorizzando le possibili connotazioni obiettive di tale attività, quale attività orientata e destinata ad uno scopo. Si potrebbe arrivare a pensare ad una attività regolata da un proprio statuto, tale da essere opponibile a terzi in quanto tale. Insomma si tratterebbe di riconoscere e delineare uno statuto specifico e differenziato dell’attività qualificata in senso gestorio- da cui la sua opponibilità a terzi- che diverrebbe essa stessa rilevante e fondante di un sistema di rimedi restitutori e risarcitori.56

Nell’ipotesi di riunione, nella stessa persona, della titolarità dei beni destinati e dell’obbligo di attuazione della destinazione la soluzione risulta più difficile e sembra dover passare obbligatoriamente per l’idea di una figura contrattuale in cui il trasferimento dei beni debba essere accompagnato dalla separazione patrimoniale, nonché dotato di meccanismi di coercizione delle obbligazioni gravanti sull’attributario.

5.1- Segue. Gli strumenti giuridici per l’attuazione della destinazione.

Chiarito il profilo del rapporto fra destinazione e trust, occorre analizzare in che modo può essere attribuito ad un terzo il compito gestorio e cioè il potere-dovere di gestire i beni destinati in vista della realizzazione di un certo scopo.

Su questo punto, come già anticipato, la nuova norma non si pronuncia e quindi occorrerebbe aver riguardo agli strumenti tradizionali.

E’ importante fare una precisazione che può sembrare superflua, ma che serve a sgombrare il campo da equivoci.

Non sono strumenti utilizzabili le altre destinazioni tipiche. Ove ricorrano i presupposti per farvi luogo, infatti, utilizzare la nuova norma del 2645 ter c.c., con tutti i problemi interpretativi ed applicativi che essa pone, è inutile, e, ove tali elementi non ricorrano, è giuridicamente impossibile.

Questo non vuol dire, però, che non possano trarsi dalla disciplina degli altri patrimoni destinati alcuni elementi utili ai fini di una possibile ricostruzione di un sistema di gestione.

A tal proposito potrebbe essere interessante approfondire il possibile ricorso agli atti di destinazione nel contesto familiare, come ad esempio nell’ipotesi di destinazione di beni riconducibile agli interessi di una famiglia di fatto.57 Altra possibile applicazione dell’atto di destinazione in ambito familiare, suggerita dalla stessa giurisprudenza, è quella della regolamentazione dei rapporti patrimoniali in sede di separazione dei coniugi.58

Va considerata, nel panorama delle possibili soluzioni sul piano della gestione, anche la possibilità di affidare l’incarico gestorio ad un nuovo soggetto giuridico (comitato, fondazione).

Gli strumenti giuridici che possono proporsi come mezzi di realizzazione della destinazione tramite terzo-gestore sono essenzialmente il mandato ed il negozio fiduciario.

Val la pena ricordare sinteticamente che mandato e fiducia sono strumenti di gestione per la cura degli interessi altrui tramite interposizione di un soggetto che svolge una gestione finalizzata.

Occorre riflettere sulle singole figure per verificare sino a che punto questi due strumenti siano utilizzabili nella gestione del patrimonio destinato.

Nel mandato l’attività gestoria non opera sulla base di una investitura “reale” preventiva: il mandatario agisce nell’interesse altrui ma in nome proprio, non avendo la titolarità dei beni che gestisce, ma essendo obbligato a farlo.

La rilevanza esterna del mandato o, per meglio dire, l’opponibilità dell’agire nell’interesse altrui, è legata alla regola contenuta nell’art. 1707 c.c., regola relativa ai creditori del mandatario, ma utilizzabile, secondo alcuni, anche per l’attività di gestione, nonché alle due regole fissate nell’art.1706 c.c., rappresentative di una titolarità solo formale del mandatario che acquista e, quindi, della rilevanza esterna del rapporto di gestione.

Nel mandato emerge dunque l’attribuzione di un dovere di agire del mandatario per conto altrui, il che appare perfettamente funzionale ad un compito gestorio connesso ad una destinazione patrimoniale, che si sostanzi, prevalentemente, in una attività di ordinaria amministrazione del bene.

Un problema specifico ed un limite alla sua utilizzazione potrebbe essere, invece, quello relativo agli atti di alienazione dei beni destinati.

Mentre per gli atti di acquisto di ulteriori beni funzionali alla destinazione, trattandosi di beni immobili o mobili registrati, si applica l’art. 1706, 2 comma, per gli atti di alienazione si pone, infatti, qualche problema.

Nel negozio fiduciario c’è l’investitura “reale” preventiva che manca nel mandato, perché c’è il trasferimento con il limite del vincolo di scopo, che però è un limite interno.

E’ di tutta evidenza che qui la situazione è esattamente inversa alla precedente: il profilo di opponibilità attiene al potere sulla cosa, mentre l’obbligo di gestire nell’interesse altrui e di ritrasferire non è opponibile a terzi, fermo restando la sua rilevanza nei rapporti interni e la sua coercibilità ex art. 2932 c.c.

Diversamente da quanto accade nel mandato, in cui appare incerta la posizione giuridica del mandatario rispetto ai beni di cui dispone, non tanto quella relativa ai beni acquistati, quanto quella relativa ai beni da alienare, nella fiducia la titolarità dei beni è sicura, ma si pone il problema della rilevanza esterna del vincolo fiduciario, poiché il pactum fiduciae è inopponibile a terzi, e la mala fede del terzo acquirente dal fiduciario rileva solo a fini risarcitori.

Qualcuno ritiene prospettabile l’ipotesi che l’art. 2645 ter c.c. abbia inciso sul punto, introducendo destinazioni atipiche che funzionalizzino la proprietà del destinante, sicchè l’obiezione per cui il patto fiduciario, così inteso, sarebbe invalido verrebbe superata. In questi termini si creerebbe in capo al fiduciario un potere dominicale limitato, rendendo opponibile a terzi tale limite “gestorio” cui è funzionalizzata la proprietà.

Se si ammettesse tutto questo, la fiducia diventerebbe il mezzo elettivo di attuazione della destinazione patrimoniale, perché sarebbe uno strumento di gestione nell’interesse altrui in cui il vincolo al potere dominicale del fiduciario sarebbe opponibile.59

Ragionando in questi termini, però, si arriverebbe a configurare una proprietà fiduciaria intesa come proprietà conformata in vista di uno scopo di destinazione predeterminato, cioè un diritto di proprietà fiduciaria, funzionalizzato al raggiungimento di un certo scopo meritevole di tutela, la cui violazione –per ipotesi tramite alienazione a terzi da parte del fiduciario del bene destinato, in violazione del vincolo di destinazione del bene trascritto- legittimerebbe l’azione del fiduciante e di qualsiasi interessato e consentirebbe di recuperare il bene nei confronti del terzo acquirente, poichè l’atto di alienazione al terzo sarebbe inefficace.

La ricostruzione non è esente da critiche. Prima fra tutte e forse un po’ scontata quella che l’art. 2645 ter c.c., nel consentire atti di destinazione dei beni, evidentemente non ha ammesso la proprietà fiduciaria.

Senza dubbio una gestione dinamica, comportando disinvestimenti e reinvestimenti potrebbe essere compatibile con un “contratto gestorio” che assumesse le vesti del negozio di alienazione fiduciaria, ma, in tal caso, l’obbligo dell’acquirente di agire secondo le direttive dell’alienante fiduciante, che non ha perduto la proprietà del bene con l’atto di destinazione, ma l’ha perduta con l’alienazione fiduciaria, rileverebbe nei soli rapporti interni e non nei confronti del terzo acquirente.

Invero, il problema principale che pone l’utilizzo dello strumento del negozio fiduciario è proprio quello della sorte dell’atto di alienazione che l’acquirente fiduciante ha posto in essere in violazione del patto fiduciario.

Per rispondere a tale domanda occorre fare alcune precisazioni che attengono inevitabilmente alla natura del vincolo di destinazione:

  • se si sostiene la natura obbligatoria del vincolo di destinazione, tale vincolo non è opponibile all’acquirente del bene che lo acquista libero dallo stesso, a meno che non venga inserita nel contratto di alienazione una clausola che obblighi l’acquirente a rispettarlo.

  • se si sostiene la natura reale del vincolo questo sarebbe opponibile, a patto che l’atto costitutivo del vincolo venisse trascritto prima della data di alienazione del bene stesso.

Anche a voler aderire alla prima opinione, il problema della rilevanza del vincolo per il terzo acquirente verrebbe superato se si inserisse nel contratto di alienazione fiduciaria una clausola di tal genere.

Pertanto,se l’alienazione del bene in sé costituisce solo violazione del patto fiduciario e non del vincolo di destinazione, perché il fiduciario ha venduto un bene che gli era stato alienato in via fiduciaria e che avrebbe dovuto restituire all’alienante, ma, con il ricavato, ne ha comprato un altro che è ugualmente utile alla attuazione dello scopo di destinazione, tale violazione non avrebbe rilievo. Il patto fiduciario, come noto, ha rilevanza interna e l’unica tutela per l’alienante, nell’ipotesi in cui il terzo acquirente fosse in mala fede, sarebbe quella risarcitoria. Inoltre, anche se fosse stata inserita nell’alienazione una clausola di rispetto della destinazione, questa non si assumerebbe violata

Se, però, l’alienazione costituisse anche violazione del vincolo di destinazione, come nel caso in cui venga venduto un bene essenziale ai fini della destinazione, allora la tutela sarebbe quella accordata dal 2645 ter c.c. perché ciò che viene in rilievo non è la violazione del pactum fiduciae ma l’abuso del gestore dei beni destinati.

Il profilo gestorio, pone, peraltro, due ordini di problemi: il problema specifico dell’inerzia o dell’abuso del gestore e quello della trasferibilità e della attribuibilità, mortis causa, del compito gestorio.

Quanto al primo punto, sembra agevole la soluzione in tema di legittimazione ad agire. La nuova norma dell’art. 2645 ter c.c. attribuisce legittimazione ad agire al disponente, al beneficiario ed ai terzi interessati, ma ad essa potrebbe unirsi la legittimazione attribuita al disponente in virtù del rapporto che lo lega al gestore, nonchè la legittimazione attribuita al beneficiario dalla legge e dall’essere titolare di un diritto di credito sulle utilità del bene.

Quanto al secondo profilo, va in primo luogo indagato cosa accada nell’ipotesi in cui i beni destinati, alla morte del conferente, si trasmettano agli eredi. Viene da chiedersi se il bene destinato si trasmetta all’erede con il vincolo di destinazione oppure no.

Nella normalità delle ipotesi, dobbiamo immaginare che il vincolo di destinazione sia sorto e sia stato trascritto prima del decesso del conferente. Pertanto il vincolo si trasmetterà agli eredi.

In caso di legato, invece, vi sarebbe, secondo alcuni, scissione tra acquisto della proprietà in capo al legatario e trasmissione dell’obbligo in capo all’erede ovvero, il gravare dell’obbligo in capo al legatario stesso, nel caso in cui il de cuius avesse posto espressamente a carico del legatario l’onere di osservanza del vincolo(art. 671 c.c.). 60

Al contrario, la successiva destinazione di un bene legato non dovrebbe integrare la fattispecie della revoca del legato (art. 686 c.c.) poiché l’atto di destinazione non costituisce alienazione del bene, di cui rimane proprietario il destinante. Legatario del bene e beneficiario dell’atto di destinazione entrano in conflitto ma solo nel senso che il legatario dovrà rispettare il vincolo di destinazione, ma non potrà parlarsi di un conflitto fra due aventi causa, non essendo tale il beneficiario della destinazione.

Resta da chiedersi se si possa trasmettere l’obbligo gestorio mortis causa.

L’obbligo gestorio non si trasmetterebbe all’erede o al legatario, a meno che non si tratti semplicemente di subire che il beneficiario consegua le utilità dovutegli. Si potrebbe sostenere la trasmissibilità di un obbligo di gestione attiva solo se si ammettesse l’esistenza di una proprietà destinata come proprietà funzionalizzata .

Il destinante non potrebbe però disporre dell’obbligo gestorio mortis causa, ad esempio attraverso una apposita clausola testamentaria, perché si tratterebbe di un mandato post mortem, vietato dalla legge. L’unica cosa che il destinante può fare è, dunque, attribuire i beni destinati all’erede o ad un legatario con l’onere, in quest’ultimo caso, di rispettarne la destinazione. La sorte del compito gestorio sarà segnata dalle regole previste per il mandato in caso di morte del mandante (art. 1728 c.c.).

Rimane però da chiedersi che cosa potrebbe accadere nel caso in cui il de cuius abbia destinato un bene poi trasferito al gestore in proprietà fiduciaria.

6.- I conflitti circolatori.

All’interno della analisi e della ricognizione dei problemi inerenti l’atto di destinazione non può non attribuirsi uno specifico rilievo ai conflitti circolatori.

Il bene destinato può circolare per le ipotesi più varie, proprio perché, a meno che non sia espressamente pattuito, il bene non è trasferito in proprietà al beneficiario. Può dunque essere alienato ad un terzo, diverso dal gestore o dal beneficiario, o essere conferito in godimento o garanzia.

La circolazione del bene può generare un conflitto fra avente causa dal destinante e beneficiario.

Qui si prospettano due possibili soluzioni: se si ritiene rilevante la trascrizione ed opponibilità del vincolo e cioè il criterio fissato nell’art. 2644 c.c., al terzo che acquisti il bene e trascriva il titolo di acquisto dopo la trascrizione del vincolo di destinazione può essere opposta la destinazione (più precisamente le attività che attuano la destinazione, la pretesa del beneficiario alle utilità derivanti dalla destinazione e l’azione esecutiva sui beni da parte dei creditori destinati), mentre, in caso contrario, al terzo avente causa non può essere opposta la destinazione, fermo restando un rimedio risarcitorio del beneficiario nei confronti del conferente.61

Se, come qualcuno ritiene, è inapplicabile la regola dell’art. 2644 c.c. al caso di specie, non essendo il beneficiario un avente causa dal conferente, poiché il vincolo di destinazione è meramente obbligatorio e non fa sorgere in capo al beneficiario alcun diritto reale sul bene, un conflitto fra più aventi causa dallo stesso autore non è astrattamente ipotizzabile.

Pertanto, la regola applicabile rimane quella generale dell’art. 1376 c.c. con la conseguenza che l’avente causa dal conferente, che acquisti la proprietà o altro diritto reale con atto di data certa anteriore alla data di conclusione dell’atto di destinazione, prevale anche se non trascriva o trascriva successivamente.62

Seguendo questo ragionamento, in punto di obbligatorietà del vincolo, ne deriva che il terzo che acquisti la proprietà del bene destinato, anche se con atto di data certa successiva all’atto di destinazione ma trascritto prima della trascrizione dell’atto di destinazione, prevale, perché il vincolo sul bene, trattandosi di vincolo obbligatorio, non può essergli opposto a meno che non sia stata inserita una clausola di rispetto della destinazione nel contratto di alienazione al terzo.

Se, invece, si sostiene, come fanno alcuni, il carattere costitutivo della trascrizione del contratto di destinazione, si arriva alla inevitabile conclusione che il vincolo di destinazione nasce, e non è semplicemente opponibile per effetto della stessa, sicchè l’avente causa dal conferente prevarrebbe pur se acquistasse prima della sua trascrizione e trascrivesse dopo, dovendosi escludere, peraltro, qualunque rimedio risarcitorio per il beneficiario nei confronti del conferente.

Discorso non diverso può farsi per il conflitto fra più beneficiari dello stesso vincolo di destinazione. Alla tesi secondo cui il conflitto si risolve in base alla priorità della trascrizione, in base all’art 2644 c.c. si oppone la tesi secondo cui, non trattandosi di due aventi causa dallo stesso autore, si applica la regola ordinaria della priorità dell’atto di data certa anteriore.

Sempre procedendo sul piano dei conflitti viene in rilievo quello tra i creditori del conferente e l’avente causa (terzo acquirente) dal conferente stesso.

In tal caso, secondo qualcuno, il vincolo di destinazione non avrebbe alcun rilievo ed il conflitto si risolverebbe, in virtù del richiamo all’art.2915 c.c., in base alla priorità della trascrizione tra acquisto dell’avente causa e pignoramento. 63

Questo comporta, in altri termini, che l’avente causa è destinato a soccombere nei confronti dei creditori del conferente in difetto di prioritaria trascrizione, mentre è destinato a prevalere nei confronti del beneficiario pur non trascrivendo. I criteri di soluzione dei due conflitti sarebbero, in altre parole, diversi: nell’un caso la trascrizione, nell’altro l’atto di data anteriore alla costituzione del vincolo.

Come è noto, di diverso avviso è chi ritiene che anche nel caso del terzo acquirente la trascrizione del vincolo di destinazione, se avvenuta anteriormente alla trascrizione dell’acquisto del terzo, ne fonda l’opponibilità a terzi, sicché da quel momento (cioè quello della trascrizione) res transit cum onere suo.

Occorre considerare, a questo punto, il conflitto fra i creditori per debiti contratti per la realizzazione della destinazione e creditori personali del conferente.

L’art. 2645 ter c.c., nell’ultima parte, prevede che “ I beni conferiti ed i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’art. 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo.

La questione della tutela dei creditori del conferente anteriori all’atto di destinazione è resa più complicata di quanto sembri prima facie, proprio dal rinvio che l’art. 2645 ter c.c. fa all’art. 2915 c.c. 64

Pur non potendo disconoscere che la trascrizione dell’atto di destinazione svolga in effetti la funzione di fonte di conoscibilità per i terzi, in particolar modo per i creditori del conferente, non deve dimenticarsi che, come più volte sottolineato, funzione della trascrizione è quella di risolvere un conflitto circolatorio che, nel caso di specie, si configurerebbe fra i creditori destinati e creditori personali del conferente.

La trascrizione dell’atto di destinazione potrebbe allora svolgere un ruolo importante di tutela nei rapporti con i creditori personali del conferente. L’effetto di separazione rileverebbe nei confronti dei creditori del conferente in virtù della trascrizione, sicchè la separazione del patrimonio destinato sarebbe opponibile solo ai creditori del conferente il cui credito fosse sorto in data posteriore alla trascrizione dell’atto di destinazione e che, inevitabilmente, abbiano trascritto il pignoramento in data successiva alla trascrizione dell’atto di destinazione.

Potrebbe dunque sostenersi che la trascrizione, oltre ad assicurare tutela al beneficiario dell’atto di destinazione, assicuri una tutela anche ai creditori del conferente anteriori all’atto di destinazione. Ma non è così.

Il richiamo alla disposizione del secondo comma dell’art. 2915 c.c. comporta che solo i creditori anteriori alla trascrizione dell’atto di destinazione che hanno trascritto il pignoramento anteriormente alla trascrizione dell’atto di destinazione hanno azione esecutiva su tutti i beni anche quelli destinati, perché a loro non è opponibile la destinazione, mentre quelli che abbiano trascritto il pignoramento dopo la trascrizione dell’atto di destinazione, ma abbiano contratto il credito anteriormente, non hanno azione esecutiva sui beni destinati, sicché l’unico strumento di tutela delle loro ragioni creditorie rimane l’azione revocatoria.

In ultima analisi, dunque, la limitazione di responsabilità nascente dall’opponibilità della separazione riguarda anche i creditori che hanno contratto un credito in data anteriore alla trascrizione dell’atto di destinazione, ma che hanno trascritto il pignoramento successivamente. In altri termini si applica l’art. 2915 c.c. ( che, peraltro, è applicato non solo ai conflitti fra conferente e creditori del conferente ma anche a quelli fra creditore del conferente e aventi causa dal conferente, risolvendoli sulla base della priorità della trascrizione atto di disposizione-atto di pignoramento).65

Non manca chi risolve in modo semplice la questione della tutela dei creditori del conferente, affermando che si possono individuare due categorie di creditori: quelli che hanno contratto un credito in data anteriore all’atto di destinazione, i quali, se la massa che residua dalla destinazione è sufficiente, non hanno problemi, mentre, se la massa non è capiente, hanno a disposizione la revocatoria o la simulazione e quelli che hanno contratto un credito successivamente alla trascrizione del contratto di destinazione, i quali, tramite il sistema della trascrizione, sono stati messi a conoscenza della destinazione del patrimonio66.

A questa posizione si contrappone chi, più rigorosamente, ritiene che se si fossero voluti tutelare in modo più forte i creditori del disponente si sarebbe dovuto sostenere il carattere costitutivo della trascrizione del vincolo. In tal modo la trascrizione dell’atto di destinazione diventerebbe uno spartiacque fra i creditori che possono e che non possono agire esecutivamente ed i creditori con un credito di data anteriore alla trascrizione dell’atto di destinazione potrebbero agire in via esecutiva anche se avessero trascritto il pignoramento successivamente alla trascrizione dell’atto di destinazione.

Questa ricostruzione, che, è bene ricordarlo, vale per la cessione dei beni ai creditori e si è tentato di applicare anche al fondo patrimoniale con diversità di posizioni, non regge, però, sul piano ricostruttivo, perché in evidente contrasto con la ratio dell’art. 2645 ter c.c. ed inoltre non spiega il richiamo, in esso contenuto, all’art. 2915.

Ed infatti, se si ritenesse che la limitazione di responsabilità riguardi solo i creditori il cui credito è sorto successivamente alla trascrizione dell’atto di destinazione, non avrebbe avuto alcun senso scrivere un articolo come il 2645 ter c.c. 67

In conclusione i creditori del conferente non sono tutelati in modo forte dal sistema della trascrizione introdotto dall’art. 2645 ter c.c, perché questo sistema consente di rendere opponibile la destinazione anche ai creditori di data anteriore all’atto di destinazione che abbiano trascritto il pignoramento successivamente alla trascrizione dell’atto di destinazione.

Occorre riprendere, seppur brevemente, le considerazioni di chi sottolinea come, posto l’indubbio rilievo costituzionale, il principio della responsabilità patrimoniale non rifletta più il dogma dell’indivisibilità del patrimonio, ma tuteli l’affidamento dei creditori in ordine alla consistenza del patrimonio ed alla responsabilità del debitore, per cui convenzioni che incidano sulla consistenza patrimoniale e sulla responsabilità del debitore sono non più vietate in sé, in quanto contrarie all’art. 2740 c.c., ma ammesse a condizione che siano apprestati idonei strumenti di pubblicità e conoscibilità per i creditori.

Il nostro sistema predispone strumenti per una corretta conoscibilità di accordi o convenzioni che incidono, limitandola, sulla responsabilità patrimoniale di un soggetto sia in materia societaria, nell’ipotesi di frammentazione del patrimonio della s.p.a. (2447 bis c.c.) e nella diversa ipotesi della trasformazione eterogenea (art. 2500 c.c. septies) dove la pubblicità è funzionale all’esercizio di un diritto di opposizione, sia in materia civilistica, nell’ipotesi del fondo patrimoniale e nell’ipotesi di separazione fra coniugi lì dove la trascrizione del provvedimento di assegnazione ad uso abitativo della casa familiare lo rende opponibile a terzi, così come confermato dall’art. 155-quater c.c.

Nel caso di vincolo di destinazione la data della trascrizione è il momento in cui il vincolo diventa opponibile e cioè acquista rilevanza esterna, diviene rilevante nei confronti dei terzi. Deve ritenersi dunque che la separazione del patrimonio per destinazione è ammessa ex art. 2740 c.c. solo perché resa conoscibile ai creditori? Sarebbe un po’ troppo poco.

In conclusione, la tutela assicurata ai creditori anteriori alla destinazione non è una tutela forte, non solo perché la pubblicità assicurata dalla trascrizione del vincolo di destinazione non è funzionale ad una eventuale, ma non prevista, opposizione del creditore alla destinazione, ma soprattutto perché la trascrizione dell’atto di destinazione rende tale atto opponibile ai creditori anteriori ove essi abbiano trascritto il pignoramento in un momento successivo alla trascrizione del vincolo stesso.

Accertato che sui beni destinati possono rivalersi solo i creditori per debiti contratti per la realizzazione della destinazione, resta da stabilire a quale tipo di separazione patrimoniale si sia dato vita.

Secondo qualcuno si tratterebbe di una separazione imperfetta o unidirezionale. In altri termini i due patrimoni, e le due categorie di creditori, non sarebbero incomunicabili tra loro sul piano della garanzia perchè i creditori destinati potrebbero rivalersi liberamente ed immediatamente anche sui restanti beni, mentre i creditori personali del disponente non potrebbero rivalersi sui beni destinati.

Si sarebbe in presenza, allora, non di una separazione dei patrimoni, ma di una sorta di inespropriabilità soggettiva.68 A conferma di tale prospettazione sta il fatto che la nuova norma dell’art. 2645 ter c.c. non prevede espressamente, come sarebbe necessario, alcun meccanismo di sussidiarietà che consenta al creditore di aggredire il residuo patrimonio del debitore solo quando, a seguito di esperimento dell’azione esecutiva, il patrimonio specificamente destinato sia risultato insufficiente a soddisfare la pretesa creditoria.

Viene da chiedersi, però, se tale meccanismo, pur se non indicato dalla nuova norma, possa essere contemplato nel titolo per essere operante, non diversamente da come previsto per i patrimoni destinati ad uno specifico affare delle società di capitali, dove la sussidiarietà è la regola e può essere derogata dal titolo cioè dalla deliberazione societaria (2447 quinquies, comma 3).

Di diverso avviso è chi dà per scontata la sussidiarietà e cioè che i creditori possano estendere l’azione esecutiva al residuo patrimonio del disponente (ed anche dello stesso gestore ove vi sia), solo in caso di incapienza e cioè di insoddisfazione delle loro pretese creditorie .69

Secondo qualcuno il principio di sussidiarietà, per cui il creditore che abbia garanzia specifica su alcuni beni non può rivolgersi contro il residuo patrimonio senza aver prima escusso i beni specificamente destinati al suo soddisfacimento, è un principio generale che vale in tutte le ipotesi in cui vi sia un patrimonio specificamente destinato al soddisfacimento delle pretese del creditore e si argomenta dell’esistenza di tale principio sia dalle regole in tema di società personali che dagli artt. 2911 e 190 c.c.70

Più in generale si argomenta l’esistenza di un principio generale di sussidiarietà in materia traendolo dalla equivalenza funzionale delle due situazioni, tutto sommato assimilabili, della creazione di patrimoni separati e della creazione di persone giuridiche.71.

Ma l’obiezione che si avanza è che, al di là di una equivalenza funzionale, vi è una profonda differenza strutturale fra l’ipotesi del patrimonio destinato e quella della persona giuridica e cioè l’esistenza di un soggetto o, come si dice, l’alterità soggettiva.

A ciò dovrebbe aggiungersi che non sempre in presenza di una persona giuridica il meccanismo prescelto è quello della sussidiarietà.

Resta da chiedersi quale potrebbe essere la giustificazione di questa scelta normativa in favore della responsabilità del patrimonio del destinante per i debiti del patrimonio separato.

La risposta potrebbe trovarsi, non diversamente da quanto previsto per il fondo patrimoniale, sorretto dal favor familiare, nel favor accordato alle destinazioni per pubblica utilità e tale chiave interpretativa, se da un lato consente di giustificare una modalità esecutiva di favore per i creditori destinati, dall’altro permette di legare la rilevanza ed ammissibilità della destinazione esclusivamente ad una funzione di pubblica utilità della stessa.

Vi è chi, peraltro, sostiene che, in caso di incapienza dei beni destinati, il disponente risponda con il residuo patrimonio solo se anche gestore. Più precisamente vi sarebbe un criterio soggettivo per individuare il patrimonio responsabile e sarebbe quello del patrimonio di colui che ha agito: il gestore sarebbe esposto con il proprio patrimonio, ma potrebbe usufruire del beneficio della preventiva escussione dei beni destinati.72

Ultimo profilo utile da chiarire è quello attinente alla limitazione di responsabilità per obbligazioni derivanti da fatto illecito.

Anche su questo punto la nuova norma tace, diversamente da altre ipotesi come quella dei patrimoni destinati ad uno specifico affare dove la limitazione di responsabilità per obbligazioni derivanti da fatto illecito della società è espressamente esclusa dall’art. 2447 quinquies, comma 3.

Una possibile soluzione interpretativa, non dissimile da quella adottata dalla giurisprudenza in materia di fondo patrimoniale, potrebbe essere quella di fare perno sul vincolo di destinazione quale criterio di riferimento per arrivare a stabilire un’eventuale limitazione di responsabilità solo per l’illecito civile derivante dall’uso dei beni destinati. 73

1 Come è noto il principio di responsabilità patrimoniale, sancito nell’art. 2740 c.c., esprime il rapporto tra diritto di credito e tutela giudiziaria esecutiva, in altri termini l’esistenza della responsabilità patrimoniale è indice della giuridicità del rapporto. R. NICOLO’, Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1960, 11 ss.

2 Riferimenti in M. BIANCA, Atto negoziale di destinazione e separazione, in I patrimoni separati fra tradizione e innovazione, a cura di S. Tondo, Torino, 2007, 155 ss.

3 G. PALERMO, Ammissibilità e disciplina del negozio di destinazione, in Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Quaderni romani di diritto commerciale a cura di B. Limonati e P. Ferro Luzzi, Milano, 2003, 243 ss.

4 U. LA PORTA, Causa del negozio di destinazione e neutralità dell’effetto traslativo, in Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, op. cit , 261 ss.; L. SALAMONE, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 369 ss.

5 A. FALZEA, Introduzione e considerazioni conclusive, in Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Quaderni romani di diritto commerciale a cura di B. Limonati e P. Ferro Luzzi, Milano, 2003, 23 ss.

6 Cfr. A. GAMBARO, Segregazione ed unità del patrimonio, in Trust & attività fiduciarie, 2000, 155 ss.;

7 Sui vantaggi economici che derivano dalla specializzazione delle responsabilità P. IAMICELI, Unità e separazione dei patrimoni, Padova 2001.

8 P. MANES, La norma sulla trascrizione di atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in Contr. impr., 2006, 626 ss.; M. BIANCA, Il nuovo art. 2645 ter c.c. Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolate di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, 187 ss.; A. PICCIOTTO, Brevi note sull’art. 2645 ter: il trust e l’araba fenice, in Contr. impr., 2006, 134 ss.; M. CINQUE , L’interprete e le sabbie mobili dell’art. 2645 ter cod. civ: qualche riflessione a margine di una prima (non) applicazione giurisprudenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 524 ss.

9 P. SPADA, Il vincolo di destinazione e la struttura del fatto costitutivo, relazione al Convegno della Scuola di notariato della Lombardia, “Atti notarili di destinazione dei beni:articolo 2645 ter c.c.” Milano 19 giugno 2006, www.scuoladinotariatodellalombardia.org/relazioni.htm; ID, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata. Atti dei Convegni della Fondazione del Notariato tenutisi a Rimini il 1 luglio ed a Catania l’11 novembre 2006, Il Sole 24 ore, Milano, 2007, 120 ss.

10 A. GENTILI, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., in Rass. dir. civ., 2007, 1 ss.

11 F. GAZZONI, Osservazioni sull’art.2645 ter c.c., in Giust. civ., 2006, II, 165 ss.

12 F. GAZZONI, op. cit., 173 ss.

13 Esclude l’onerosità del contratto di destinazione F. GAZZONI, op. cit., 173 ss., mentre l’ammette G. GABRIELLI, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, 3, 335, secondo cui non si può escludere l’ammissibilità di contratti connotati da corrispettività, nell’ipotesi in cui venga attribuito un vantaggio economico al proprietario come corrispettivo della costituzione del vincolo di destinazione.

14 M. BIANCA, Il nuovo art. 2645 ter. Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, op. cit., 189 ss; DE NOVA G., Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., relazione al Convegno della Scuola di notariato della Lombardia, “Atti notarili di destinazione dei beni:articolo 2645 ter c.c.” Milano 19 giugno 2006, www.scuoladinotariatodellalombardia.org/relazioni.htm. .

Secondo M.NUZZO, Atto di destinazione, interessi meritevoli di tutela e responsabilità del notaio, relazione al convegno della Scuola di notariato della Lombardia, “Atti notarili di destinazione dei beni:articolo 2645 ter c.c.” Milano 19 giugno 2006, www.scuoladinotariatodellalombardia.org/relazioni.htm, la mancanza di una indicazione testuale induce a ritenere che qualsiasi struttura negoziale possa essere utilizzata (atto unilaterale, contratto, contratto a titolo oneroso o gratuito).

15 P. SPADA, op. cit.

16 Invero, come ha cura di precisare lo stesso autore ( P.SPADA, op. cit., 127 ss.), si tratterebbe di una formalità funzionalmente assai più simile ad una iscrizione come quella dell’ipoteca.

L’opponibilità, che si ricollega alla trascrizione, allude infatti alla possibilità di invocare un fatto, già dotato di rilevanza giuridica, a favore di chi l’invoca, quando la rilevanza di un diverso fatto incompatibile con il primo sia da altri invocata, ma se si assume che la destinazione non abbia alcun effetto negoziale finale manca il fatto dotato di rilevanza giuridica da rendere opponibile con la trascrizione ed essa, come nel caso di iscrizione dell’ipoteca, non ha alternativa succedanea ai fini del prodursi dell’effetto dell’insensibilità del bene destinato.

17 Cfr P.SPADA, op. cit, 123 ss. Secondo l’autore la destinazione in sé sarebbe un atto neutro, un contegno dichiarativo irrilevante per l’ordinamento giuridico, privo di qualsiasi effetto vincolante o obbligatorio. Così ad esempio decidere unilateralmente di destinare il proprio appartamento ad un uso piuttosto che ad un altro sarebbe assolutamente irrilevante giuridicamente e tale decisione, così come unilateralmente presa, potrebbe essere unilateralmente mutata, senza che vi siano conseguenze giuridiche.

Un vincolo obbligatorio e una pretesa azionabile si profilerebbero solo se, e soltanto se, legge o promessa dotata di una cause suffisante o altrimenti ( promessa al pubblico, promessa rivestita delle solennità della donazione) produttiva di un’obbligazione rendano dovuta una destinazione del bene e, o, dei suoi frutti.

A questo proposito occorrerebbe infatti distinguere la destinazione in sé, che non avrebbe alcuna rilevanza giuridica, dalla destinazione intesa come modalità di determinazione di una prestazione dovuta o di una attribuzione. Così nell’ipotesi di contratto di locazione il proprietario destina il bene ad un certo uso rispetto al quale il pagamento del canone funge da corrispettivo, ma tutto ciò non è destinazione in sé, ma è solo un modo per identificare una prestazione dovuta, per cui l’effetto obbligatorio che nasce si ricollega non alla destinazione in quanto tale ma alla promessa.

18 F.GAZZONI, op. cit., 172.

19 Cfr. fra gli altri G. PETRELLI, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, I, 162 ss.

20 Non deve sottovalutarsi, peraltro, come una lettura del giudizio di meritevolezza in termini di mera liceità dello scopo porterebbe ad una illegittimità costituzionale della nuova disposizione.

Se si consentisse la separazione in considerazione di qualunque destinazione lecita, dovrebbe riconoscersi una illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 2645 ter c.c. per irragionevole disparità di trattamento (art. 3 cost.), con riferimento a tutte le ipotesi normative di separazione patrimoniale già presenti nell’ordinamento.

Così, ad esempio, in ambito familiare dove la destinazione dei beni ai bisogni della famiglia fondata sul matrimonio, nell’ipotesi di costituzione di fondo patrimoniale, riceverebbe un trattamento meno favorevole rispetto alla destinazione dei beni ai bisogni di una famiglia di fatto (basti pensare alla diversità di disciplina in punto di esecuzione sui beni da parte dei creditori, desumibile dal raffronto fra art. 170 c.c. e art 2645 ter c.c.).

Non diversamente accadrebbe per la costituzione di persone giuridiche con dotazione in proprietà di un patrimonio, quali ad esempio le fondazioni, che è ammessa per qualunque scopo lecito, ma, è bene sottolinearlo, a fronte della creazione di un nuovo soggetto di diritto cui i beni vengono attribuiti in proprietà ordinaria.

Secondo G. GABRIELLI, op. cit., 328 ss, la differenza fra le due ipotesi di destinazione in ambito familiare e cioè il fondo patrimoniale per la famiglia fondata sul matrimonio e la destinazione dei beni per la famiglia di fatto, si coglierebbe anche sul piano dell’alienazione dei beni vincolati, ancora una volta evidenziando un trattamento meno favorevole per la famiglia di fatto. Ma sul punto si può e si deve dissentire nella misura in cui si ritiene che in caso di alienazione ad un terzo del bene destinato si applichi non già l’art. 2644 c.c. ma l’art. 1376 c.c.

21 G. PETRELLI, op. cit. ,180, ss. ; F. PATTI, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter in Vita not., 2006, II, 986 ss.

22 F. GAZZONI, op. cit., 166. Tale approccio “restrittivo” è stato rifiutato da chi (A. GENTILI, op. cit., 20) ritiene che non abbia senso parlare della meritevolezza a proposito del rapporto della destinazione con gli interessi dei creditori, adducendo, a sostegno di questa affermazione, giustificazioni non sempre convincenti quale quella che la destinazione non comporta nessun sacrificio per i creditori e che la limitazione di responsabilità non incide sulla loro garanzia patrimoniale, onde sarebbe una assurdità dover richiedere uno scopo di speciale meritevolezza per legittimare la destinazione al solo fine di doverli tutelare

23 F. GAZZONI, op. cit., 170.

24 P. SPADA, op. cit.

25 G. GABRIELLI, op. cit., 332 ss.

26 G. GABRIELLI, op. cit., 338.

27 G. ROJAS ELGUETA, Il rapporto tra l’art. 2645 ter c.c. e l’art. 2740 c.c.: un’analisi economica della nuova disciplina, in Banca, borsa e titoli di credito, 2007, I, 185 ss.

28 A. GENTILI, op.cit., 22.

29 Qualcuno ritiene altresì che i conservatori dei registri immobiliari potrebbero, all’esito negativo di tale controllo, rifiutarsi di trascrivere l’atto.

30 A. GENTILI, op. cit., 16 ss.

31 F. GAZZONI, op. cit., 172.

32 Cfr. G. BARALIS, Prime riflessioni in tema di art. 2645 ter c.c., in Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata. Atti dei Convegni della Fondazione del Notariato tenutisi a Rimini il 1 luglio ed a Catania l’11 novembre 2006, Il Sole 24 ore, Milano, 2007, 131 ss.

33 Così, secondo l’autore (op. cit., 134 ss.), sarebbe nullo per illiceità della causa l’atto di destinazione contrario a norme imperative (atto di destinazione di un fondo a ricevere e tenere in deposito immondizie in contrasto con la disciplina sanitaria), mentre non sarebbe trascrivibile il vincolo di destinazione, e quindi inefficace la pubblicità relativa allo stesso, nell’ipotesi di immeritevolezza di interessi consistente nella incongruenza rispetto al fine dello stesso ( destinazione di un palazzo a museo a favore del Comune affinché esponga il carteggio intercorrente fra un lontano parente del conferente e Garibaldi), tanto più che la sproporzione fra destinazione ed interessi renderebbe irragionevole l’effetto di deroga di cui all’art. 2740 c.c.

34 Utili riferimenti in G. GABRIELLI, op. cit., 324 ss, con riferimento a G. PETRELLI, op. cit., 183 ss.

35 F. GAZZONI, op. cit., 182 ss.

36 G. GABRIELLI, op. cit., 338.

37 F. GAZZONI, op. cit., 179.

38 G. GABRIELLI, op. cit., 339.

39 Lo stesso autore (op. cit., 339, nota n.47) accenna alla difficoltà di coordinare le disposizioni in sede di disciplina della trascrizione con quelle dell’art. 1599 c.c.

40 P. SPADA , op. cit.

41 P. SPADA, op. cit.

42 F. GAZZONI, op. cit., 177 ss.

43 A. GENTILI, op. cit., 27 ss.

44 Riferimenti in F. GAZZONI, op. cit., 174 ss.

45 Osserva A. ZOPPINI, Destinazione patrimoniale e trust: raffronti e linee per una ricostruzione sistematica, in Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata. Atti dei Convegni della Fondazione del Notariato tenutisi a Rimini il 1 luglio ed a Catania l’11 novembre 2006, Il Sole 24 ore, Milano, 2007, 337 ss., che è facile poter cogliere un collegamento funzionale tra atto di destinazione e trust nel fatto dell’essere i due istituti una tecnica per governare forme di specializzazione della responsabilità patrimoniale e per realizzare una forma di titolarità di diritti nell’interesse altrui, fermo restando che l’elemento peculiare del trust sta proprio nel complesso di regole, talora veramente minute, che caratterizzano la posizione fiduciaria del trustee e cioè del soggetto investito della proprietà nell’interesse altrui, mentre il limite del nuovo istituto sta nei numerosi problemi di disciplina irrisolti ed, in particolar modo, nella assoluta incertezza delle regole che presiedono alla gestione dei beni destinati da parte del conferitario.

46 Per un esame dei numerosi profili di differenza fra i due istituti G. OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contratto e impresa/Europa, 2007, 351 ss., nonché su http://www.geocities.com/CollegePark/Classroom/6218/2645ter/2645ter_e_trust.htm.

47 Cfr F. PATTI, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter c.c., in Vita notarile, 2006, 979, 991 ss.

48 Può essere utile, a tal proposito, leggere il provvedimento del Tribunale di Trieste, 7 aprile 2006, in Giust. civ., 2006, II, 187, con nota di M. BIANCA, Il nuovo art. 2645 ter c.c. Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolate di Trieste, op. cit., e in Nuova giur. civ. comm., 2007, 524 ss.

Al Giudice tavolare del Tribunale di Trieste era stata proposta domanda di intavolazione del diritto di proprietà di un immobile a nome di un trustee, producendo a fondamento della domanda solo l’atto pubblico di dotazione del trust e non anche la scrittura privata da cui risultavano gli scopi perseguiti. Il giudice rigettava la domanda, dichiarando l’atto nullo per difetto di causa e precisando che, sebbene la costituzione di un trust meriti un semplice giudizio positivo di liceità, per fare ciò occorreva poter vagliare ed apprezzare il programma negoziale.

Per altro verso, nel tentativo di fornire un’interpretazione conservativa, il giudice escludeva la possibilità di qualificare l’atto come atto di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., poiché riteneva che la nuova norma non avesse introdotto un nuovo tipo di atto ad effetti reali, ma solo un particolare tipo di effetto.

Il provvedimento, a tal proposito, si abbandona ad una digressione sulle principali questioni sollevate dalla nuova norma tra cui la presunta anomalia consistente nella richiesta di un interesse meritevole di tutela e non di un mero giudizio di liceità come nel trust, la mancanza di una indicazione sui caratteri fondamentali e sul piano di efficacia sostanziale della nuova fattispecie, nonché la dubbia configurabilità di una nuova figura di trascrizione.

49 Cfr sul punto G.OBERTO, op. cit.

50 Cfr. M. LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645 ter c.c. quale frammento di trust, in Riv. notariato, 2006, 2, 467 ss.

51 Riferimenti anche in M. LUPOI, op. cit., 467 ss.

52 Cfr. F. GAZZONI, op. cit., ; F. PATTI, op. cit., 994.

Per questo motivo qualcuno ritiene premiante la scelta del trust sul piano operativo quando sia necessario sottrarre i beni trasferiti al terzo al regime della comunione legale e alla successione a causa di morte.

Cfr in tal senso G. PETRELLI, op. cit., 204 ss; P. MANES, op. cit., 629 ss.

53 E’ bene precisare, a tal proposito, che nel diritto dei trust il termine beneficiario può avere due accezioni: colui a favore del quale il vincolo opera e colui al quale vanno ritrasferiti i beni alla cessazione del vincolo.

54 In tal senso si esprimono A. GENTILI, op. cit., 41 ss; F. PATTI, op. cit., 995 ss.

55 Riferimenti in P.MANES, op. cit., 628 ss.

56 F. ALCARO, Mandato e fiducia, in I patrimoni separati fra tradizione ed innovazione, op. cit., 181ss. ss.; ALCARO-TOMMASINI (a cura di), Mandato, fiducia e trust, Esperienze a confronto, Milano, 2003.

57 Riferimenti in G. GABRIELLI, op. cit., 327 ss; A. FEDERICO, Atti di destinazione e rapporti familiari, in Rass. dir. civ., 2007, 3, 614 ss.

58 Così, il Tribunale di Reggio Emilia (Trib. Reggio Emilia, decr. 26.3.2007, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 114 ss.) ha ritenuto ammissibile, in sede di revisione delle condizioni della separazione consensuale, l’accordo fra coniugi volto al trasferimento di un bene immobile al coniuge affidatario con contestuale apposizione sui beni di un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter, poiché in tal modo si è assicurata alla prole una fonte certa di reddito, peraltro non aggredibile dai creditori del genitore intestatario.

59 A GENTILI, op. cit., 40. PETRELLI, op. cit., 189 ss.

60 In tema si veda F. GAZZONI, op. cit., 185 ss. ; A. GENTILI, op. cit., 41.

61 A. GENTILI, op. cit., 48.

62 F. GAZZONI, op. cit., 179.

63 F. GAZZONI, op. cit., 184.

64 F. GAZZONI, op. cit., 182 ss.

65 F. GAZZONI, op. cit., 182 ss., il quale ritiene che rigorosamente dovrebbe applicarsi il 1° comma dell’art. 2915 c.c., trattandosi di un atto che non è di disposizione, ma le conseguenze di tale applicazione sarebbero assurde.

66 A. GENTILI, op. cit., 19 ss.

67 F. GAZZONI, op. cit., 184.

68 F. GAZZONI, op. cit., 181 ss.

69 A. GENTILI, op. cit., 48.

70 G. OPPO, Brevi note sulla trascrizione di atti di destinazione (art. 2645 ter c.c.), in Riv. dir. civ., 2007, I, 3 ss; ID, Responsum, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, Padova, 1989, 121.

71 P. SPADA, Persona giuridica e articolazione del patrimonio, in Riv. dir. civ., 2002, I, 837.

72 A. GENTILI, op. cit., 49.

73 F. GAZZONI, op. cit., 180.

Mastropietro Barbara

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