Le nuove linee guida della legge 40/2004 e il giudizio della Consulta

Rossi Stefano 15/05/08
Premessa.
 
In data 2 maggio 2008 il ministro della Salute Livia Turco ha firmato il decreto ministeriale che aggiorna le linee guida della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Le nuove linee guida alle legge sulla procreazione medicalmente assistita segnano un passo in avanti nella tutela della salute della donna e della libertà di autodeterminazione della coppia, eliminando il divieto alla diagnosi preimpianto degli embrioni.
 
Il nuovo testo infatti non contempla più la limitazione alla sola diagnosi osservazionale, mantenendo comunque il divieto di qualsiasi diagnosi a fini eugenetici così come previsto dall’articolo 13 della legge 40/2004. La decisione del ministro di operare una modifica importante, per quanto parziale e non risolutiva, segue diversi pronunciamenti della magistratura, sia ordinaria che amministrativa, ed in particolare quello del Tar del Lazio che aveva annullato le disposizioni delle precedenti linee guida in cui si limitavano le indagini sullo stato di salute dell’embrione a quelle di tipo osservazionale.
 
Va immediatamente precisato che le linee guida adottate nella forma di decreti ministeriali noncostituiscono regolamenti ministeriali (e del resto, neppure la legge evocava l’adozione di simili fonti), in quanto ai sensi dell’art. 17, legge n. 400 del 1988, essi infatti avrebbero dovuto recare la denominazione di regolamento, né richiamano il previo parere obbligatorio ma non vincolante del Consiglio di Stato.
 
Posto che non si tratta di circolari, ordinanze o di meri comunicati, deve concludersi di trovarsi al cospetto di un paio d’esempi di quei numerosi decreti ministeriali non regolamentari che «farciscono la Gazzetta Ufficiale» [Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2004, 361]. «Di più: a ben vedere – e passando al setaccio molte delle previsioni contenute nei citati d.m. – si scorge in essi il riaffiorare di un’antica abitudine mai sopita. In pratica, tali decreti (che potremmo tendenzialmente inquadrare tra i c.d. provvedimenti amministrativi generali) incarnano, in alcuni loro squarci, ennesime testimonianze della c.d. "fuga dal regolamento", ossia del mancato rispetto delle forme e dei controlli predisposti dall’art. 17, legge n. 400 con riguardo ad atti che, dal punto di vista sostanziale, parrebbero invece rientrare nel novero di tali fonti. E’ infatti innegabile che molte delle norme previste nei decreti in discussione abbiano una portata regolamentare, pur essendo state adottate in carenza delle forme prescritte per tali atti; esse danno inoltre attuazione a una legge particolarmente significativa – anche perché incidente su delicati diritti dei singoli e delle coppie – integrandone (e a volte, come si vedrà, derogandone) le previsioni». [Veronesi, Le linee guida in materia di procreazione assistita. Nuovi dubbi di legittimità all’orizzonte, in Studium Iuris, 2004, fasc. 11]
 
Anche il ministro Turco, nell’adottare le linee guida, ha esorbitato dai poteri assegnati in quanto l’art. 7 della l. 40 delegava al Ministero della Sanità l’emanazione di un decreto di definizione di linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, e non lo autorizzava ad introdurre nuove disposizioni di legge ulteriori alle disposizioni contenute nella l. 40 stessa. Si trattava di adottare cioè un tipico atto di normazione secondaria emanato dal Ministero a carattere non innovativo ma esecutivo.
 
Oltre all’eliminazione globale delle disposizioni che davano attuazione all’art. 13 della legge 40 – imponendo il vincolo «osservazionale» alla diagnosi reimpianto – il che crea un vuoto normativo che sarebbe stato utile colmare con norme elastiche, si può notare come la possibilità di libero accesso alle tecniche per soggetti affetti da HIV ed epatite, attraverso il riconoscimento che tali condizioni siano assimilabili ai casi di infertilità, appare una deroga non consentita a quanto disposto in relazione ai requisiti soggettivi dettati dalla legge.
 
Al di là di questi appunti critici, è opportuno ricordare che la l. 19 febbraio 2004, n. 40, ha disciplinato la materia della procreazione medicalmente assistita, operando delle scelte forti: nell’intento infatti di perseguire  l’affermazione dei propri principi morali, il legislatore ha lasciato che essi soverchiassero gli interessi reali delle persone in carne ed ossa e restando indifferente di fronte agli enormi danni che la loro attuazione può provocare.
 
Il solo scopo perseguito dai fautori della legislazione italiana – e da essi stessi, del resto, apertamente dichiarato – resta la consacrazione giuridica del principio morale che l’embrione è una persona e che la sua soppressione è un illecito morale. Ciò che equivale, precisamente, alla confusione tra diritto e morale, ossia alla pretesa che un fatto sia punito solo perché ritenuto immorale, e perciò che il diritto venga impiegato come strumento di declamazione della morale, anche a costo della sua totale ineffettività, oltre che di inutili sofferenze per le donne.
 
Segnalando solo qualche passaggio, merita di essere ricordato che la legge – al contrario delle altre legislazioni europee – vieta senza mezzi termini il ricorso alla fecondazione eterologa, la quale non può essere praticata neppure da coppie sterili regolarmente coniugate. In conseguenza numerose coppie italiane si sono rivolte a centri medici esteri, che non di rado hanno sede appena oltre confine, per praticare questa tecnica, incrementando quello che è stato chiamato «turismo procreativo». Ancora, la legge vieta, in generale, la sperimentazione sugli embrioni, e questa scelta è stata contestata da parte di molti scienziati e ricercatori in quanto ne limiterebbe il progresso, ostacolando la ricerca della migliore cura per gravi malattie (morbo di Parkinson, morbo di Alzheimer, etc.).
 
Inoltre la legge vieta la crioconservazione e la soppressione di embrioni, con la conseguenza che per ogni ciclo di fecondazione assistita occorre procedere alla stimolazione ormonale della donna, e si tratta di una tecnica fastidiosa e potenzialmente idonea a danneggiarne la salute. Infine, anche in questa indicazione meramente esemplificativa, non può trascurarsi che la legge consente l’accesso alla procreazione assistita alle sole coppie la cui sterilità, o infertilità, sia stata medicalmente accertata, con la conseguenza di negare la possibilità di richiedere la produzione di un embrione in vitro su cui effettuare la diagnosi preimpianto ai componenti delle coppie che non sono sterili ma avrebbero anche loro interesse che l’indagine fosse effettuata, ad esempio per essere certi di non trasmettere alla prole le malattie ereditarie di cui sanno di essere affetti.
 
Le pronunce della giurisprudenza.
 
Con sentenza n. 2508 del 22 settembre 2007, il Tribunale di Cagliari ha osservato che nella legge n. 40 del 2004 non si rinviene una disposizione che faccia specifico riferimento al divieto della diagnosi preimpianto, mentre limiti in tal senso sono stati introdotti dalle linee guida ministeriali. Del resto l’effettuazione della diagnosi preimpianto non è assoggettata a sanzioni penali dall’art. 13 della legge sulla procreazione assistita, quando sia «finalizzata all’accertamento di eventuali gravi malattie dell’embrione». Inoltre, la legge riconosce espressamente il diritto dei futuri genitori ad essere «adeguatamente» informati sullo stato di salute dell’embrione. Ancora, l’impianto in utero di un embrione malato può comportare un rischio per la salute della madre, tanto è vero che la legge consente al medico responsabile di non procedere all’impianto in utero degli embrioni «per motivi di ordine etico-sanitario». [Di Marzio, Procreazione assistita, interrogativi sulla diagnosi preimpianto in cerca di risposte, in Giur. Merito, 4, 1002]
 
Le linee guida dettate con D.M. 21 luglio 2004 prevedono: «Ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale». In tal modo si realizza un’aspettativa di informazione necessariamente incompleta ed anzi assai parziale, perché una diagnostica meramente osservazionale consente unicamente di valutare la compattezza e lo stato di aggregazione delle cellule costituenti l’embrione, ma non di individuare eventuali anomalie genetiche e quindi poter fornire un’ informazione adeguata agli aventi diritto.
 
Nella stessa sentenza si sottolinea inoltre la chiara differenza letterale e concettuale tra i limiti all’attività di ricerca, sperimentazione e manipolazione genetica previsti dall’art. 13 l. n. 40 del 2004, e l’accertamento diagnostico sullo stato di salute dell’embrione destinato all’impianto garantito dall’art. 14 comma 5 l. n. 40 del 2004. Le due distinte previsioni riflettono un duplice bilanciamento di interessi compiuto dal legislatore: la prima norma, relativa ai rapporti tra l’aspettativa di vita del singolo embrione e l’interesse dell’intera collettività al progresso scientifico, ha inteso assicurare massima tutela all’embrione anche a costo di un totale sacrificio delle ragioni del progresso scientifico; la seconda norma, relativo al distinto ambito dei rapporti tra l’aspettativa di vita dell’embrione che potrebbe essere pregiudicata dall’accertamento invasivo in parola e la singola persona direttamente coinvolta nel procedimento di procreazione medicalmente assistita, non prevede per l’embrione una tutela assoluta, ma un bilanciamento dei contrapposti interessi, che vede prevalere, in certi casi, i diritti costituzionalmente garantiti dei soggetti che alle tecniche di procreazione assistita abbiano avuto legittimo accesso.
 
In conseguenza il magistrato ha concluso che le linee guida ministeriali, nel prevedere la natura esclusivamente osservazionale della diagnosi preimpianto, si pongono in contrasto con i principi costituzionali ed anche con le previsioni della stessa legge sulla procreazione assistita, e ne ha disposto la disapplicazione sul punto.
 
Con sentenza del 17 dicembre 2007, il Tribunale di Firenze, spingendosi oltre la pronuncia del giudice cagliaritano che pur richiama e dichiara di condividere, afferma che l’informazione esaustiva la quale deve essere fornita agli aventi diritto sullo stato di salute dell’embrione «non può essere collegata ad una fatua curiosità dei futuri genitori, ma deve essere posta in relazione alla necessità che i trattamenti terapeutici siano accompagnati dalla informazione necessaria ad esprimere il necessario consenso». In conseguenza la diagnosi preimpianto, anche mediante biopsia, deve considerarsi «assolutamente legittima».
 
Il magistrato, nell’accogliere il ricorso, ha ordinato alla struttura sanitaria di procedere alla diagnosi preimpianto sugli embrioni, trasferendo quindi in utero solo quelli sani o portatori sani della malattia genetica ereditaria di cui soffriva la madre, con crioconservazione degli embrioni malati sino all’esito del giudizio di merito.
 
Il giudice ha quindi distinto la sorte degli embrioni sani rispetto a quella degli embrioni malati: decisione che dal punto di vista razionale è giustificabile, ma che dal punto di vista giuridico è foriera di dubbi e critiche: non bisogna dimenticare infatti che espressamente l’art. 14 co. 2 della legge prevede «un unico e contemporaneo impianto» di tutti gli embrioni creati (nel massimo di tre), senza quindi la possibilità di selezionare tra embrioni sani e malati.
 
Molto più coerente sarebbe stato che il giudice fiorentino sollevasse una questione di legittimità costituzionale avanti alla Corte sulla norma in questione : che senso ha infatti che la legge impedisca di selezionare gli embrioni e quindi imponga di impiantare anche quelli che sono geneticamente deformi, malati, portatori di gravi problemi, se in seguito la donna, quando finalmente raggiunge il suo sogno di essere gravida, deve ricorrere all’aborto per evitare di mettere al mondo un figlio deforme (sempreché non sia la natura stessa a provvedere provocando l’interruzione spontanea della gravidanza)? Sarebbe stata indubbiamente un’argomentazione stringente: se così va interpretata la norma, avremmo un chiaro caso di «irragionevolezza intrinseca», che la Corte costituzionale indubbiamente avrebbe sanzionato. [Bin, Sussidiarietà, privacy e libertà della scienza: profili costituzionali della procreazione assistita, in Casonato – Camassa, La nuova disciplina della procreazione medicalmente assistita, Università degli Studi di Trento, 2004]  
 
Infine il Tar Lazio, con la sentenza n. 398 del 21 gennaio 2008, annullato le Linee guida nella parte contenute nelle cosiddette «Misure di tutela dell’embrione», «laddove statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni create in vitro, ai sensi dell’art. 13 comma 5 dovrà essere di tipo osservazionale» ed inoltre ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 commi 2 e 3 della Legge n. 40 del 19 febbraio 2004 per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione.
 
Il Tar, nella sentenza, si infatti è interrogato sulla congruenza delle disposizioni concrete contenute nelle Linee Guida e nella Legge n. 40 alla luce dell’art. 1 della Legge che ne indica lo scopo (favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità nonché tutelare tutti i soggetti coinvolti tra cui il concepito), rinvenendo una contraddittorietà intrinseca della legge laddove in altri articoli e in particolare all’articolo 14 sono imposti obblighi e divieti che appaiono in contrasto con i principi ispiratori della normativa.
 
La mossa del ministro e i suoi riflessi sulla decisione della Consulta.
 
La decisione del ministro Turco di modificare le linee guida eliminando la limitazione in esse prevista sulla diagnosi preimpianto, rende ancor più evidenti i profili di irragionevolezza e contraddittorietà interna della legge 40, in particolare la previsione sull’obbligo dell’ «unico e contemporaneo» impianto di non più di tre embioni. 
 
Ai sensi dell’art. 14 comma 5 l. n. 40 del 2004, «i soggetti» ammessi alla procreazione assistita «sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero». Tenuto conto che risulta espressamente vietata la soppressione degli embrioni, nasce l’interrogativo circa l’utilità di una simile informazione nel momento in cui, a rigore, pure l’embrione o gli embrioni malati dovrebbero essere impiantati nell’utero.
 
Deve evidenziarsi, infatti, che il consenso informato alla procreazione assistita, cui la legge assegna un ruolo fondamentale prevedendo una serie di cautele «in modo da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa» (art. 6 comma 1), possa essere revocato, secondo il disposto di cui all’art. 6 comma 3 l. n. 40 del 2004, da ciascuno dei componenti la coppia ammessa alla fecondazione assistita, «fino al momento della fecondazione dell’ovulo». Le linee guida hanno successivamente chiarito che, anche successivamente alla fecondazione, la donna può comunque revocare il consenso, rifiutando l’impianto.
 
La donna quindi mantiene sul punto libertà di scelta, potendo decidere (in conseguenza del responso di una diagnosi embrionale) di non voler procedere all’impianto e di rinunciare così alla prosecuzione della procedura di procreazione medicalmente assistita. Le conseguenze di tale decisione appaiono di intuitiva evidenza, soprattutto alla luce del collegamento della disposizione dell’art. 6, comma 3, con la disposizione dell’art. 14, comma 5: nell’ipotesi di accertamento di una patologia dell’embrione, per la quale non siano possibili gli interventi terapeutici previsti dall’art. 13, comma 2, la donna può o rifiutare l’unico e contemporaneo impianto di tutti gli embrioni, o accettarlo, ma non può chiedere la selezione degli embrioni sani (l’art. 13, comma 3, lett. b), vieta ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni). Nell’ipotesi del rifiuto di impianto, pertanto, tutti e tre gli embrioni saranno destinati all’ abbandono, compresi gli embrioni sani, che seguiranno la sorte di quelli malati, cui sono indissolubilmente legati. [Mastropietro, Procreazione assistita: considerazioni critiche su una legge controversa, in Dir. Famiglia, 2005, 4, 1379]
 
Questo è un punto particolarmente critico della legge, in quanto sembra esigere dalla donna una «scelta tragica» ossia l’opzione tra il rifiuto di procedere al trasferimento in utero e l’impianto di tutti gli embrioni prodotti (sani o malati che siano) per poi eventualmente procedere all’aborto ex art. 6, lett. b), l. n. 194/1978.
 
Né si può richiamare per giustificare tale previsione il divieto di selezione a scopo eugenetico di cui all’art. 13 n. 3 lett. b, poiché, dopo la selezione per la malattia (l’unica consentita anche ai sensi dell’art. 12 Convenzione di Oviedo), gli embrioni da trasferire in utero non vengono più valutati in base allo stato di portatore o meno del gene, ma in base allo stato morfologico. Ciò vuol dire che noi possiamo eseguire un trasferimento di embrioni portatori sani della malattia o indifferentemente trasferire embrioni completamente sani oppure può accadere di trasferire insieme embrioni sani e portatori sani della malattia.
 
Il significato di trasferire anche gli embrioni portatori sani della malattia serve a mantenere nel patrimonio genetico dell’uomo la mutazione che in alcune condizioni diventa malattia ma in altre (come nei portatori sani) è completamente insignificante in termini di malattia clinicamente rilevabile. Questo comportamento universalmente condiviso nell’ambito della pratica medica rende impossibile qualsiasi modifica del patrimonio genetico sia nelle presenti che nelle future generazioni. Per cui la diagnosi reimpianto e la successiva selezione possono solo ed esclusivamente riuscire ad individuare, in una fase precocissima dello sviluppo embrionario, gli embrioni malati, evitando di instaurare una gravidanza che sarà conclusa con un aborto terapeutico.
 
Per concludere sul punto, ci si può riferire – a controprova – al parere di uno dei più acuti sostenitori della legge 40, il prof. Fernando Santosuosso, che considerava «assurdo che – una volta accertate patologie e altre carenze gravi di uno o più embrioni prodotti – essi debbano ugualmente essere impiantati, pur essendo gli operatori consapevoli che gli stessi sarebbero destinati ad essere abortiti ai sensi della legge n. 194 del 1978». In questo senso, per ovviare all’incongruenza della legge, proponeva la possibilità in via interpretativa ed analogica di dare applicazione all’art. 4 della legge n. 194 del 1978, con il conseguente abbandono (e crioconservazione) degli embrioni residui anomali, malformati o portatori di gravi patologie, in modo coerente con le finalità di tutela della salute della donna. [Santosuosso, La procreazione medicalmente assistita, commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, Giuffrè, 2004, 95 ss.]
 
La parola passa ora alla Corte costituzionale che dovrà tener conto nell’esercitare la sua funzione non solo degli orientamenti invalsi nel diritto vivente, ma anche delle novità normative: è chiaro infatti che consentire la diagnosi preimpianto senza dare la possibilità di selezionare gli embrioni che hanno un’aspettativa di vita da quelli incapaci a svilupparsi (il che non ha risvolti eugenetici ma costituisce solo la raffinazione del meccanismo proprio della fecondazione naturale), determinerebbe un’ aggravamento delle contraddizioni interne alla legge.
 
Sussiste sempre il pericolo che l’intervento del diritto nella forma della regola astratta non sia, nella maggior parte dei casi, in grado di farsi carico della specificità e complessità dei dilemmi prospettati, che richiedono scelte non predeterminabili, e si riveli perciò non pertinente o peggio dannoso.
 
Di qui l’opportunità della massima sobrietà nel ricorso al diritto. Rispetto a leggi affrettate, in grado non già di risolvere i problemi ma solo di esorcizzarli e spesso di aggravarli con facili e inutili divieti, sarà ovviamente preferibile, in queste materie, una semplice legislazione di garanzia, volta ad assicurare l’assenza di discriminazioni, la dignità e i diritti fondamentali di tutte le persone coinvolte, la trasparenza e la competenza professionale nelle applicazioni tecnologiche.
 
All’astrattezza e rigidità dei divieti legislativi, tanto più se di carattere penale, sarà perfino preferibile un’assenza di legislazione, che affidi di volta in volta la soluzione dei problemi all’autonomia e alla responsabilità individuale e, in caso di conflitti, all’intervento equitativo del giudice.
 
Precisamente, i dilemmi morali, quando coinvolgono soltanto i diritti della persona che è chiamata a risolverli, vanno lasciati alla sua autodeterminazione. Solo quando il dilemma si configura come conflitto o, comunque, riguarda i diritti fondamentali di più persone, si giustifica l’intervento del diritto, che deve esprimersi nel ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco.
 
Stefano Rossi
Avvocato in Bergamo – Studio legale Galante

Rossi Stefano

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