Non mancherà di suscitare ampie discussioni (e ovviamente indubbie polemiche) la sentenza della Suprema Corte, che recisamente esclude la configurabilità di un nesso eziologico, da ritenersi operativo in via del tutto automatica e diretta, fra la detenzione di una quantità di stupefacente che superi i limiti tabellari massimi, stabiliti ex lege, la qualificazione di tale condotta qualificata come finalizzata non ad uso personale e, infine, la rilevanza penale della stessa.
Si tratta di un’evidente evoluzione di un percorso argomentativo che già timidamente era apparso in nuce, attraverso la recentissima sentenza della stessa Sez. VI, in data 15 Gennaio 2008 n° 2217
[1].
Già in quell’occasione, e sempre in relazione a profili di natura eminentemente cautelare (e l’analogia non è affatto casuale), la Corte propugnò il principio dell’insussistenza di un’automatica rilevanza, a fini penali, del’eventuale superamento della soglia massima che la legge autorizza per l’uso personale.
Si affermò, così, che non si poteva ritenere, quindi, perfezionato solo in virtù dell’inadempimento a tale parametro quantitativo, il reato di cui all’art. 73 co. 1 bis dpr 309/90, perché il tenore letterale della stessa norma incriminatrice – il citato art. 73 co. 1 bis lett. a) – induce a ritenere che l’inquisito ben possa fronteggiare e ricusare l’accusa mossagli, attraverso l’esposizione di alligazioni difensive, che possano minare la fondatezza dell’addebito.
La pronunzia in commento, dunque, non solo non si discosta a livello di indirizzo ermeneutico dalla precedente richiamata decisione, ma, anzi, si pone, per il suo piglio argomentativo, come ulteriore apprezzabile, quanto necessaria, specificazione di un orientamento che abbisognava di una esplicitazione precisa ed inequivoca.
Ciò che maggiormente colpisce è, infatti, l’osservazione concernente il reale e concreto valore dei parametri espliciti introdotti con la legge n. 49 del 21 Febbraio 2006.
Sino ad oggi, i più autorevoli commenti sia dottrinali, che giurisprudenziale avevano sottolineato il marcato significato di rottura che alla nuova previsione normativa veniva attribuito rispetto alla disciplina immediatamente previgente e successiva al referendum del 1993.
Unanimemente, infatti, tutti i commentatori avevano individuato nella scelta di determinare e prevedere limiti massimi tabellari, il vero elemento di restaurazione, che riportava il parametro valutativo – cui il giudice doveva ispirarsi – ad un regime ante consultazione referendaria.
Si sosteneva expressis verbis che era stata reintrodotto seppure sotto mentite spoglie il criterio della dose media giornaliera.
La Corte muove, invece, da premesse del tutto differenti.
Affermano, infatti, i giudici di legittimità che la novella del 2006, in realtà, non ha inciso minimamente sulla struttura del concetto di detenzione ad uso personale, la quale è rimasta, comunque, a poter configurare una condizione di non punibilità della condotta.
Ora, come allora, quindi, permane, quindi, a parere della Corte un discrimine palese fra la condotta di detenzione finalizzata anche solo in parte alla cessione a terzi, dunque “non esclusivamente ad uso personale” e quella, invece, che è destinata a soddisfare il bisogno personale.
La correttezza di tale assunta è solare e non merita troppi approfondimenti.
Sia, infatti, sufficiente riflettere solo sulla circostanza che, effettivamente, la L. 49 del 2006 non ha affatto abrogato il principio – sancito con la consultazione referendaria – in base al quale la condotta detentiva, ove risultante non strumentale all’ulteriore attività spaccio, rimanga estranea alla sfera di applicazione della norma penale.
Anzi, pare di potere dire che, pur nel contesto di un’accentuata impostazione repressiva, la zona franca delineatasi per volontà popolare nel 1993, sia stata mantenuta e riaffermata, pur con il doveroso accento che non esiste un diritto del singolo ad assumere stupefacenti, che appaia meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Esiste, piuttosto una mera facoltà del cittadino, che, in presenza di precisi elementi, può nutrire la legittima aspettativa di non essere penalmente sanzionato.
Quella della Corte costituisce, quindi, un’affermazione deflagrante, perché, non solo si contrappone con l’opinione dominante invalsa in questi due anni, la quale ancorava rigidamente e precipuamente al dato ponderale ogni valutazione sulla qualificazione della destinazione della sostanza ed ogni correlativa determinazione in sede penale, ma, soprattutto contiene una ulteriore diretta conseguenza sul piano strettamente procedimentale.
Ai parametri specificati con il comma 1 bis dell’art. 73 non viene, infatti, attribuito né il carattere di novità legislativa, né, tantomeno, quello di singola decisività che in precedenza si sosteneva.
Vale a dire, che il collegio di legittimità, senza inutili perifrasi, riconosce che il legislatore, con la specificazione dei termini “quantità”, “modalità di presentazione” e “altre circostanza dell’azione”, indicati quali parametri interpretativi idonei ad orientare il giudizio concernente la destinazione ad uso personale o meno, altro non ha fatto che tentare di tipicizzare esemplificativamente, sul piano normativo, criteri che già erano stati elaborati in dottrina e giurisprudenza, recependo tali approdi.
La Corte si mostra, pertanto, consapevole del carattere esclusivamente probatorio di questi canoni delibativi e, al contempo, percepisce – in relazione alla locuzione “altre circostanza dell’azione – il limite di una genericità, che sfiora l’indeterminatezza, anche se non si può negare la necessità della presenza di una previsione globale di chiusura, che funga da valvola di sfogo in relazione a situazioni spesso non utilmente tipicizzabili.
Ergo, i giudici della Suprema Corte danno vita, non già ad un’indiscriminata svalutazione, quanto ad una meditata rimodulazione della effettiva valenza che i citati parametri producono sul piano probatorio.
In questo contesto argomentativo, si viene ad inserire l’ulteriore decisivo affondo che pone fine – criticandola – a quella visione che conferiva un’assoluta predominanza, (quasi una vera e propria dittatura) al dato ponderale rispetto agli altri elementi.
Tale indirizzo si era appalesato in virtù di un’impostazione interpretativa, che conferiva a ciascuno dei canoni in discussione una posizione di autonomia (pur con il menzionato predominio del dato quantistico) e che, dunque, finiva per sostenere che l’accertamento di anche uno solo di essi elevasse la detenzione a livello di rilevanza penale.
La Corte, infatti, allo scopo di dimostrare la inconsistenza di tale tesi, evidenzia due profili, che reputa decisivi.
1. In primo luogo emerge lo scopo vero e concreto dell’accertamento che si svolge.
L’indagine penale deve mirare, infatti, a verificare se la detenzione dello stupefacente possa essere finalizzata ad un uso non esclusivamente personale.
Vale a dire che, in via del tutto preliminare, l’ermeneuta deve verificare se – nel singolo caso – siano, astrattamente, soddisfatti quei parametri legislativi che legittimerebbero il rilievo penale.
Attività questa che integra, peraltro e comunque, l’elementare dovere di riscontrare la sussistenza potenziale dell’accusa.
Va, altresì, detto, però, che una simile verifica non comporta, affatto, induttivamente ed automaticamente, lo speculare effetto di escludere la riferibilità della condotta al fine detentivo personale, in quanto l’interessato ben può opporre elementi di prova a confutazione dell’assunto accusatorio.
2. La declaratoria di pari dignità probatoria degli indicati canoni valutativi, costituisce scelta che ribalta totalmente la radicata convinzione che, con la novella del 2006, fosse sufficiente per affermare la penale rilevanza della detenzione, la non congruenza di tale condotta anche rispetto ad un solo di essi.
Secondo la sentenza della Corte di Cassazione che si commenta è, invece, vero l’esatto opposto.
E’, infatti, sufficiente che l’indagine o le allegazioni difensive portino alla conclusione che anche uno solo dei parametri possa apparire conformemente orientato ad un uso esclusivamente personale, per vanificare l’effetto negativo degli altri, senza – si ribadisce – si possa ipotizzare scale di valore fra i citati fattori.
Particolarmente importante, in tale senso, risulta l’opera di valorizzazione che il Collegio attua in relazione alla funzione probatoria che la locuzione “altre circostanze dell’azione" può venire ad assumere.
Già in precedenza, si è detto che si tratta indubbiamente di un’espressione generalista, ai limiti dell’indeterminatezza, si deve, però, osservare che questa sua peculiarità né è il limite e la forza al tempo stesso.
Se, in senso negativo si deve, infatti, notare la portata residuale che la previsione viene a rivestire, pur nella nuova interpretazione di equipollenza resa dai giudici di legittimità, in senso positivo si deve, per converso, osservare che essa assolve alla funzione di collettore di una serie di elementi oggettivi e soggettivi, i quali diversamente potrebbero rimanere privi di concreta rilevanza processuale.
Saggiamente in sentenza si opera, infatti, un’illuminante indicazione esemplificativa concernente l’eventuale stato di tossicodipendenza o anche solo l’uso abituale di droghe del soggetto inquisito.
A completamento delle osservazioni che precedono, ed in modo special relativamente alle considerazioni che riguardano il recupero dell’effettivo valore probatorio delle “altre circostanze dell’azione”, non è secondario evidenziare proprio la manifestata duttilità ed elasticità della concetto in parola.
Esso, infatti, appare idoneo a ricomprendere proporre elementi storici e logici che si pongano come chiave di lettura positiva in relazione ad acquisiti elementi indiziari o probatori, i quali, diversamente, potrebbero assumere significato indiziante.
Anche in questo caso, chi scrive rimanda all’esempio trasfuso in sentenza, il quale appare meritevole di indicazione, per la sua assoluta chiarezza sul piano, atteso che la Corte ipotizza che “ad esempio, potrebbe risultare accertato indiscutibilmente che il detentore, forte consumatore di droga, fosse solito acquistarla in quantitativi non modesti frazionatamente pre-confezionati”.
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Da ultimo la Corte non elude neppure il tema dell’interpretazione che riguarda il cd. parametro ponderale.
Il giudizio formulato in materia è netto e non si presta ad equivoci di sorta.
Non esiste affatto, né è possibile ammettere, in caso di superamento del limite quantitativo massimo, una presunzione – anche solo iuris tantum – di destinazione dello stupefacenti scopi differenti da quello di uso personale, che permetta di pervenire ad un giudizio di responsabilità penale in capo all’inquisito.
I supremi giudici citano, infatti, come invalicabile limite, che esclude una simile possibilità, in primo luogo l’art. 25/2° della Costituzione, per quanto attiene al principio della riserva di legge ed, indi, la presunzione di non colpevolezza di cui al celeberrimo art. 27.
Il criterio della quantità dello stupefacente, intedendo la stessa sia a livello di principio attivo, sia a livello di compendio lordo, perde quell’alea di intangibilità ed assoluta decisività di cui era stata caratterizzata
La Corte, infatti, apre – e con decisione – all’ammissibilità e all’ingresso nel procedimento e nel processo, sotto il profilo probatorio, di valutazioni alternative ai consueti rigidi ed algidi risultati tabellari, conseguenti all’espletamento di consulenze tecniche.
Ritiene chi scrive che il ricorso a simile opzione derivi, ovviamente, da un giudizio di malcelata sfiducia nei confronti dello strumento tabellare, che – limitandosi ad un’operazione dal risultato puramente chimico/matematica – pare essere percepito, seppure, implicitamente, come del tutto inidoneo a cogliere un dato di diritto vivente, cioè a fotografare una situazione reale che tenga conto non solo del rapporto fra peso lordo e principio attivo o delle dosi ricavabili ex lege.
La ulteriore circostanza che la presunta soglia di illiceità penale di una condotta detentiva, cioè il profilo strettamente normativo fosse eziologicamente collegato ad una forma di previsione legislativa extrapenale consistente in un decreto ministeriale, addirittura, di altro Ministero, ha, inoltre, sempre suscitato dubbi e perplessità.
Da queste premesse, dunque, consegue – da parte dei giudici di legittimità – il convincimento della necessità della sussistenza di una maggiore libertà decisionale e di una maggiore discrezionalità in favore del giudice di merito, anche, e soprattutto, in situazioni di travalicamento dei limiti tabellari, situazione questa che comporta correlativamente un evidente aggravio dell’onere di motivare adeguatamente la propria decisione.
Sarà interessante, quindi, vedere a quali conclusioni perverrà, a propria volta, la dottrina, se è vero che, anteriormente al presente approdo, AMATO
[2] aveva lucidamente e condivisibilmente notato che con la modifica apportata dalla L. 49 del 21 Febbraio 2006, è stata creata una
“presunzione relativa”, cioè cd. iuris tantum, la quale evidentemente ammette e può cedere all’efficacia della prova contraria, laddove questa si mostri idonea ed atta a dimostrare che il soggetto indagato deteneva ad uso esclusivamente personale.
Resta il fatto che la decisione della Suprema Corte viene a confermare una posizione assunta da un giudice di merito (il Tribunale del Riesame di Napoli).
Ciò conferma lo sviluppo di una sensibilità globale critica sul tema che non è, dunque, circoscritta solo ad un settore della magistratura piuttosto che ad un altro e che fa solo ben sperare per evitare derive interpretative più interessate alla soluzione del problema, in relazione al profilo sanzionatorio, che in relazione al rasggiungimento, in ogni situazione, dellla verità dei fatti.
Rimini, lì 29 Maggio 2008
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 5 maggio 2008, n. 17899
…omissis…
Fatto
1. Con la ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Napoli, adito ex art. 310 c.p.p., confermava l’ordinanza in data 16 febbraio 2007 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nola con la quale era stata rigettata la richiesta di applicazione di una misura cautelare nei confronti di A. C. in ordine al reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, accertato in Napoli il 14 febbraio 2007, in relazione alla detenzione di gr. 51 di cocaina.
2. Rilevava il Tribunale che non erano riscontrabili sicuri indizi di una detenzione finalizzata allo spaccio, posto che il presumibile reddito del C. e la circostanza che egli era venuto a Napoli, a notevole distanza dal luogo di residenza, rendevano attendibile la tesi sostenuta dall’indagato di un acquisto di una scorta di cocaina destinata a esclusivo consumo personale.
Non poteva condividersi la tesi interpretativa avanzata dall’Ufficio appellante con riferimento al dettato dell’art. 73 comma 1-bis, lett. a), d.P.R. 309 del 1990, secondo cui, una volta accertato che il quantitativo detenuto sia superiore a quello tabellare debba ritenersi la destinazione allo spaccio.
3. Ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Nola, denunciando la violazione dell’art. 71 comma 1-bis (recte, 73 comma l-bis) d.P.R., n. 309 del 1990, osservando che la lettera della disposizione impone di ritenere che, una volta accertato che il quantitativo detenuto supera i limiti massimi tabellari, la condotta di detenzione deve ritenersi finalizzata a un uso non esclusivamente personale e quindi penalmente rilevante.
Diritto
1. Il ricorso appare infondato.
2. L’assunto dell’Ufficio ricorrente, secondo cui, una volta accertato che il quantitativo detenuto supera i limiti massimi tabellari, la condotta di detenzione deve ritenersi, sulla base di una presunzione assoluta stabilita dal legislatore, finalizzata a un uso non esclusivamente personale e quindi penalmente rilevante, non può essere condivisa.
3. Stando all’art. 73 comma 1-bis, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990, inserito dall’art. 4-bis della legge 21 febbraio 2006, n. 49 in sede di conversione del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, la detenzione di sostanze stupefacenti costituisce reato se le sostanze detenute "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale".
La Corte ritiene che la previsione, rettamente intesa, non contenga elementi di sostanziale novità rispetto alla disciplina previgente, che, in base al combinato disposto degli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990, sanzionava penalmente la detenzione di sostanze stupefacenti che non fosse finalizzata all’uso personale". Erano allora quindi punibili, al pari di ora, condotte di detenzione di sostanze stupefacenti che non "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale"; fermo restando che allora (come ora) la detenzione della parte destinata a uso personale non poteva (e non può) essere assoggettata a sanzione penale.
Per il vero, la fattispecie incrimìnatrice di cui si discute (comma 1-bis, lett. a), indica ora dei parametri sulla base dei quali apprezzare la destinazione ad uso "non esclusivamente personale": e cioè, la "quantità", le "modalità di presentazione" o "altre circostanze dell’azione". Ma si tratta di indici che già in passato venivano giudiziariamente impiegati per stabilire la destinazione della sostanza detenuta, e quindi di meri criteri probatori idonei a orientare la valutazione del giudice e, prima ancora, quella della polizia giudiziaria e del pubblico ministero; dovendosi peraltro notare che l’ultimo di essi, per la sua vaghezza, rende di per sé inane l’intento di rigida tipizzazione formalizzato nella norma.
Potrebbe a prima vista opinarsi che i tre parametri della "quantità" o delle "modalità di presentazione" o delle "altre circostanze dell’azione" siano reciprocamente autonomi, sicché basterebbe che uno solo di essi sia accertato perché la condotta di detenzione sia penalmente rilevante.
Ma non può essere in via di stretta logica così da intendersi, perché l’oggetto dell’accertamento penale (diversamente da quanto derivava dal combinato disposto degli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990 precedentemente al referendum popolare del 1993, allora ancorato al concetto di "dose media giornaliera") resta esclusivamente quello di una detenzione destinata "ad un uso non esclusivamente personale"; sicché, pur in presenza di date "quantità" o di "modalità di’ presentazione", di per sé tali da autorizzare l’ipotesi di una destinazione "ad un uso non esclusivamente personale", tale ipotesi può bene essere smentita sulla base di "altre circostanze dell’azione" (tra le quali, è bene precisare, non potrebbe non essere compreso l’eventuale stato di tossicodipendenza o anche solo l’uso abituale di droghe), considerate dalla norma paritariamente rispetto ai primi due indici, non potendosi considerare ermeneuticamente significativo, come invece vorrebbe l’Ufficio ricorrente, il fatto che i tre parametri siano sintatticamente separati nella disposizione normativa dalla disgiuntiva "ovvero".
Così, pur in presenza di quantità non esigue, o di confezioni plurime, o di entrambe le situazioni, potrebbero essere apprezzate "altre circostanze dell’azione" tali da radicalmente escludere un uso non strettamente personale (ad esempio, potrebbe risultare accertato indiscutibilmente che il detentore, forte consumatore di droga, fosse solito acquistarla in quantitativi non modesti frazionatamente pre-confezionati).
4. Resta da stabilire cosa intenda il legislatore nella parte in cui, indicando il parametro della quantità", specifica che di esso debba tenersi conto "in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia". In attuazione di tale previsione, con decreto del Ministro della salute dell’11 aprile 2006, sono stati appunto indicati i "limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale" (QMD: "quantitativi massimi detenibili").
Escluso che ciò valga a invertire l’onere della prova a carico dell’imputato, o a introdurre una sorta di presunzione, sia pure non assoluta, circa la destinazione della droga detenuta a uso non personale, a pena di violazione del principio di stretta riserva di legge in materia penale, di cui all’art. 25 comma secondo Cost.) nonché di quello di presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma secondo Cost.), va osservato come la locuzione "in particolare", posta a incipit dell’inciso, riveli chiaramente che l’intento del legislatore sia solo quello di imporre al giudice un dovere di particolare attenzione, che si risolve in un dovere accentuato di motivazione, nel caso in cui, appunto, le quantità detenute siano, secondo una valutazione basata su nozioni tossicologiche ed empiriche di cui sono espressione le tabelle ministeriali, normalmente non confacenti a "un uso esclusivamente personale".
5. Ciò posto in linea di diritto, va osservato che nella specie i giudici del merito cautelare hanno valutato vari elementi che deponevano per la plausibilità della tesi difensiva di un uso personale, quali il livello reddituale dell’indagato e la circostanza che egli, consumatore abituale di cocaina, si fosse recato per acquistare la droga a Napoli, sensibilmente distante dal luogo di residenza, dal che derivava una antieconomicità dell’operazione, in rapporto al quantitativo detenuto, ove la droga fosse destinata anche in parte ad un uso non personale.
Questi apprezzamenti in punto di fatto non sono stati sottoposti al vaglio della Corte quanto alla loro logicità e completezza, posto che l’Ufficio ricorrente non se ne è doluto, né in sede di appello né con il presente ricorso, riversando le sue critiche alla decisione esclusivamente sul profilo della errata applicazione della legge, sulla base di una interpretazione dell’art 73 comma 1-bis d.P.R. n. 309 del 1990 che, per quanto sopra esposto, deve ritenersi infondata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso addì 29 gennaio 2008.
Il Consigliere estensore
Il Presidente
DEPOSITATO IN CANCELLERIA il 5 maggio 2008.
[1] ********** 5.03.2008 ************: detenzione di quantitativo eccedente l’uso personale e punibilità
Cassazione penale , sez. VI, sentenza 15.01.2008 n° 2217
[2] (V. www.ipsoa.it/quotidianogiuridico )
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