1. Il mobbing e la disabilità: nozione.
Il problema del
mobbing, anche se non si conosce la reale entità
[1],è presente nel rapporto di lavoro privato e, di recente, è approdato nel Pubblico Impiego “privatizzato”. Tale situazione si è estesa in quest’ultimo settore (P.I. privatizzato), a causa dell’innesto massiccio di logiche e di modelli privatistici nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione pubblica
[2], avvenuto con il D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (T.U. in materia di Pubblico Impiego), che ingloba il D. Lgs. n. 29/1993 ed alcuni decreti legislativi attuativi delle Leggi Bassanini
[3]. Tale processo di revisione, ha generato nella P.A. condotte vessatorie in alcuni suoi settori: nella Sanità, con particolare riferimento ai rapporti esistenti tra personale medico e paramedico ed alle nomine dei primari dei reparti
[4]; nelle autonomie locali, nei confronti dei segretari provinciali e comunali
[5]; nelle Scuole, per quanto attiene ai professori ed ai bidelli
[6]; e gli esempi potrebbero continuare.
In Italia il mobbing è stato analizzato per la prima volta da Ege, il quale afferma che con la parola mobbing si vuole intendere “un’azione (o una serie di azioni) che si ripete per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber per danneggiare qualcuno (c.d. mobbizzato), quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene letteralmente accerchiato ed aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. … La definizione di mobbing esclude dal suo campo i conflitti temporanei e focalizza l’attenzione sul momento in cui la durata e l’intensità del comportamento vessatorio determina condizioni patologiche dal punto di vista psichiatrico o psicosomatico. In altre parole, la distinzione tra conflitto sul lavoro e mobbing non consiste su ciò che viene inflitto alla vittima e sul come viene inflitto, ma piuttosto sulla frequenza e durata di qualsivoglia trattamento vessatorio venga inflitto. Infatti, si distingue dal bullismo studentesco e dal nonnismo militare, perché mentre quest’ultime forme di aggressione sono fortemente caratterizzate da atti di violenza o minaccia fisica, il mobbing sul posto di lavoro raramente sfocia in violenza fisica ma è caratterizzato da comportamenti subdoli e molto più sofisticati”.
Questo termine, oggi, è entrato, in Italia, anche nel bagaglio giuridico; infatti il mobbing, in genere, viene posto in essere dai colleghi, il c.d. mobbing orizzontale, che si verifica quando uno o più colleghi emarginano un lavoratore c.d. debole, come può essere il disabile, per qualsiasi motivo; dal datore di lavoro, il c.d. mobbing verticale, che individua come vittima un lavoratore “scomodo”, come può essere il disabile, il quale (datore di lavoro) compie atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolarlo ed emarginarlo nell’ambiente di lavoro, e spesso finalizzati ad ottenerne le dimissioni ed, infine, dal lavoratore (caso molto raro, ma possibile), il c.d. mobbing dal basso verso l’alto, che si verifica ogni qualvolta i subalterni mettono in discussione l’autorità di un superiore.
Non va, però, a mio avviso, confuso ed identificato con il
mobbing verticale, il
bossing, il quale è programmato dall’azienda stessa o dai vertici dirigenziali come vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata. Il
bossing può attuarsi in diversi modi, ma tutti rendono alla creazione attorno alla persona da eliminare di un clima di tensione insopportabile: atteggiamenti severi, minacce, rimproveri, a volte anche sabotaggi venuti dall’alto, difficilmente dimostrabili. Sul
bossing, è intervenuta, di recente, la giurisprudenza di merito, la quale ha sottolineato che per
bossing si intende la vessazione da parte di un superiore gerarchico del lavoratore, di solito utilizzato per ridurre il personale, ringiovanire o riorganizzare uffici o reparti
[7].
2. Il d.lgs. 216/2003 e la disabilità e la discriminazione in Italia.
La direttiva comunitaria 2000/78/CE che stabilisce il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro contro ogni forma di discriminazione riguardante l’età, la convinzione personale, l’handicap
[8] e l’orientamento personale, è stata recepita in Italia dal
D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216[9], entrato in vigore il 28 agosto dello stesso anno.
Il decreto in esame è diretto a tutelare tutti i lavoratori e le lavoratrici privati e pubblici contro le discriminazioni che attengono alla religione, alle convinzioni personali, alle condizioni di handicap, all’età ed all’orientamento sessuale. In particolare, esso opera una distinzione tra discriminazioni
dirette e quelle indirette. Le prime si hanno quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona viene ad essere trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Invece, le discriminazioni indirette si hanno quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere chi professa una determinata religione o una ideologia d’altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale, in una situazione di svantaggio rispetto ad altre.
Il decreto fa rientrare tra le discriminazioni non solo le molestie, ma tutti quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età o di orientamento sessuale, che hanno o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante, offensivo.
In questo modo, a mio avviso forzatamente, come hanno ritenuto molti, si vuol fare rientrare tra le discriminazioni anche gli atti e i comportamenti che si traducono in mobbing. Non è così! Invero, anche a voler accedere a tale interpretazione e a ritenere, dunque, che siano puniti anche i comportamenti cosiddetti mobbizzanti, resta comunque il dato ineludibile che, per espresso disposto normativo, tali comportamenti lesivi devono pur sempre essere posti in essere per uno dei motivi di cui all’art. 1 D.Lgs. n. 216/2003, cioè devono essere connotati finalisticamente e teleologicamente in ragione della religione professata dal soggetto leso, ovvero delle sue convinzioni personali, dell’handicap, dell’età e dell’orientamento sessuale. È evidente, pertanto, che
tale normativa non punisce le discriminazioni tout court, né, tantomeno, i cd. cmportamenti mobbizzanti, se non ove ricorra almeno uno dei motivi indicati dall’art. 1, vale a dire nell’ipotesi in cui un dato comportamento determini la discriminazione di una persona in ragione della sua religione, delle sue convinzioni personali, dell’handicap, dell’età e dell’orientamento sessuale[10]156.
Il principio di parità di trattamento recepito nel D.Lgs. n. 216/2003 si applica all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; all’occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; ed, infine, all’affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. Per questi motivi, non costituiscono discriminazioni:
– le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di Enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti Enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività;
– le differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile;
– gli accertamenti di idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di un’idoneità ad uno specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale.
Infine, molto interessante è l’art. 4 del d.lgs. n. 216/2003 che disciplina “la tutela giurisdizionale dei diritti”, disponendo l’applicazione dell’art. 44, commi 1-6 e 8-11 TU delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, il quale prevede un’azione civile snella ed efficace. Una volta che il ricorso è stato accolto, il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno appena detto, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. È, anche, possibile che il giudice possa ordinare la pubblicazione della sentenza, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale.
Avv. ****************
Responsabile Sportello Mobbing Cisl Salerno
[1] In Italia, il Rapporto ILO del 1998 ha stimato che i lavoratori vittime del
mobbing sono il 4,2%. Ma tale valutazione non tiene conto che molti giovani neo-assunti o avviati al lavoro con forme flessibili (ad esempio:
part-time, contratto di formazione e lavoro, contratto a termine, ecc…), spinti dal bisogno di lavorare, sono “ben disposti” a tollerare i piccoli e i grandi soprusi nei luoghi di lavoro. Anche i dati provenienti da ciascun Stato membro dell’Europa sull’incidenza del fenomeno
mobbing, presentano visibili variazioni e ciò è dovuto al fatto che alcuni Stati sono poco sensibili verso il
mobbing.
[2] L’Amministrazione Pubblica è orientata, alla luce delle leggi di riforma, ad una maggiore flessibilità dei ruoli ed ai principi di efficienza, efficacia ed economicità; cfr. **********,
Il mobbing e la P.A.:
uno sguardo alle iniziative legislative ed ai CCNL, a cura di (**************),
Mobbing: un attacco alla dignità di chi lavora, ESI, Napoli, 2004.
[3] D. Lgs. nn. 396/1998, 80/1998 e 387/1998.
[4] Art. 26 del D. Lgs. 165/2001.
[5] La disciplina relativa al segretario comunale e provinciale è stata modificata dal D.P.R. 465/1997 e dal D. Lgs. 267/2000 (T.U. sull’ordinamento degli enti locali), la quale non lo considera più come “dipendente dello Stato”, ma come “supporto giuridico amministrativo”, in quanto esso viene scelto, tra coloro che sono in possesso dei requisiti professionali più idonei all’attività dell’ente, dal Sindaco e dal Presidente della Provincia; cfr. ***************,
Questioni giuridiche in materia di disponibilità e mobilità dei segretari comunali e provinciali, in Lav. Pubb. Amm., 2002, n. 2, p. 377 ss.
[6] I professori e i bidelli, in base alle nuove leggi di riforma della Scuola, sono soggetti ai poteri decisionali, “dalla più ampia discrezionalità”, del preside, oggi dirigente scolastico.
[7] Trib. Milano, 23 luglio 2004, in
Dir. Prat. Lav., 2007, 1, p. 34 .
[8] Sul punto l’art. 1, comma 1, della L. 1 marzo 2006, n. 67, stabilisce che nei casi di discriminazioni in pregiudizio delle persone con disabilità relative all’accesso al lavoro e sul lavoro si applicano le disposizioni del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, recante attuazione della direttiva 2000/78/Ce per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
[9] Per i primi commenti sul D.Lgs. n. 216/2003: **********,
Mobbing: viaggio nei meandri di un fenomeno in crescita, Salerno, 2005, pp. 41-42.
[10] Trib. Ariano Irpino, 3 febbraio 2004, in
www.diritto.it, Osservatorio
mobbing, a cura di **********.
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