1. I problemi di carattere generale che derivano dall’introduzione delle azioni di classe nell’ordinamento italiano
Ci sono tre considerazioni preliminari da svolgere con riguardo alla natura delle azioni di classe in Italia. In primo luogo, parte delle riflessioni che qui si svolgono sono necessariamente provvisorie. Sebbene, infatti, il dibattito sulla introducibilità delle azioni di classe nel nostro ordinamento sia ormai maturo, per lungo tempo è stato fondato su ipotesi scientifiche, piuttosto che su certezze
[1].
Infatti, se si escludono le ripercussioni che la direttiva comunitaria – di cui s’è detto nel capitolo precedente – ha avuto nel nostro ordinamento, ed il dibattito che ne è seguito, la restante dottrina ha lungamente dibattuto in ordine alla possibilità di realizzazione, piuttosto che alla produzione di effetti reali delle class actions.
I contributi dei giuristi sul tema sono, pertanto, interessanti entro il limite in cui li si confronta con una situazione giuridica del tutto nuova. La stessa giurispudenza, sebbene abbia talora legittimato l’ingresso di associazioni di categoria nel processo, lo ha sempre fatto sulla base degli strumenti processuali esistenti. Il “caso Seveso”, di cui si dirà oltre, è, in tal senso, emblematico.
La seconda considerazione preliminare attiene agli sviluppi che l’azione di classe potrà avere nel nostro ordinamento. Pare, dalla lettura del testo di legge che la contiene, che siano ravvisabili alcuni dei problemi già noti agli altri ordinamenti.
Difficile è la definizione dei soggetti che hanno titolo ad intervenire, così come crea problemi la notifica a tutti le parti interessate dell’esistenza di un’azione. Questa circostanza, tuttavia, non costituisce necessariamente un ostacolo. Sarà interessante, al contrario, verificare con quali differenze la disciplina delle azioni di classe sarà in grado di influenzare le decisioni dei giudici, e viceversa.
Infine, è bene svolgere una riflessione di più ampio respiro. Appare evidente come, al di là delle tante difficoltà di cui s’è detto (e di cui si dirà nel corso delle pagine che seguono), l’istituto dell’azione di risarcimento collettivo è un istituto dal valore democratico estremamente elevato.
I giuristi, ma anche i tecnici del diritto, dovranno adoperarsi per risolvere quelle difficoltà avendo a mente questa peculiarità dell’azione di classe. Viceversa, l’intervento del legislatore risulterà vano. Per questa ragione si è deciso di svolgere brevi cenni conclusivi sul primo caso di azione di classe intentata dopo l’approvazione della legge finanziaria per il 2008.
L’impressione è quella che lo strumento, se ben utilizzato, offrirà agli utenti una nuova, e valida, alternativa agli strumenti tradizionali, per far valere i propri diritti. Lo confermano due circostanze: la prima è quella relativa ai primi casi di azione di classe intentati dal gennaio 2008, nei quali risulta immediatamente evidente la percezione, da parte delle associazioni dei consumatori, della grande utilità dello strumento.
La seconda considerazione riguarda la malleabilità dello strumento medesimo. In altre parole, si vedrà dall’esame dei casi riportati, come talora la semplice “intenzione” di intentare un’azione collettiva possa avere un effetto positivo sull’evolversi della vicenda. È forse presto per dirlo, ma sembrerebbe proprio questo lo scopo del Legislatore: favorire la conciliazione rapida, anziché necessariamente la litigosità, nelle questioni di maggiore complessità, con soluzioni che accontentino entrambe le parti.
2.1.1 Il dibattito antecedente all’intervento del legislatore. I mass torts nel settore assicurativo
Come anticipato, il dibattito sulla legittima introduzione delle azioni di classe nel nostro ordinamento si protrae da tempo. In particolare, esistono alcuni settori nei quali il dibattito ha avuto sviluppi più ampi rispetto ad altri. Ciò, in ragione o delle peculiarità di detti settori oppure, anche, a causa del coinvolgimento diretto di un ampio numero di interessi soggettivi da parte degli stessi.
Tra questi, quelli che rivestono l’importanza maggiore sono il settore delle assicurazioni, quello relativo alla responsabilità dei produttori di beni, il settore finanziario e la salute.
Il primo da trattare, nell’ordine, è il settore finanziario
[2]. I giuristi hanno riscontrato, in tale ambito, tre variabili. Da una parte, la possibilità che ampie categorie di soggetti venissero investite da una stessa fattispecie dannosa. Ne è un esempio tipico l’inquinamento ambientale. Si tratta peraltro di danni sia materiali che immateriali (si pensi ad esempio all’inquinamento acustico)
[3]. Simile circostanza si è verificata in un caso particolarmente noto alle cronache: il caso Seveso, di cui si dirà poco oltre.
Da un’altra parte, i giuristi hanno analizzato la possibilità che i danneggiati, godendo della tutela assicurativa offerta da una polizza, vengano garantiti da un risarcimento integrale, oppure solo parziale del danno subito.
In particolare ci si è concentrati sull’imprevedibilità di simili danni da parte delle imprese assicurative che sottoscrivono simili polizze. La dottrina ha notato, infatti, che la rilevanza economica di simili danni non presenterebbe un problema per l’industria assicurativa se questi fossero tenuti in considerazione nell’elaborazione del prodotto assicurativo. Si pensi proprio ad alcune forme di inquinamento. A tale riguardo è indubbio che queste si verificheranno in futuro, e produrranno danni ad un numero esteso di soggetti, ma la maggior parte delle polizze standard prevede oggi la specifica esclusione per questo tipo di rischi. Mentre, al tempo stesso, è possibile acquistare coperture specificatamente concepite per l’inquinamento.
Invece, la non prevedibilità dei Mass torts fa sì che le imprese assicurative ricorressero – e ricorrano tuttora – ad una soluzione semplice: per proteggere la propria solidità finanziaria dagli imprevisti operano l’introduzione di specifiche esclusioni nelle condizioni contrattuali delle polizze.
Simile soluzione presenta però due inconvenienti. Anzitutto, riduce il numero degli assicurati e comunque non impedisce che questi lamentino comunque il danno in sede giudiziale, pretendendo il risarcimento dello stesso. Inoltre, simile soluzione è utilizzabile solo successivamente al manifestarsi della crisi. È stato ad esempio il caso dell’esposizione da amianto
[4]. Ciò significa che difficilmente le imprese assicuratrici possono prevenire ipotesi di danno ambientale così grave da escluderlo preventivamente dalle condizioni contrattuali.
Infine, i giuristi hanno rilevato la necessità della presenza di un sistema giuridico recettivo. In altre parole, affinchè il sistema delle azioni di classe possa svilupparsi in un ordinamento giuridico che non lo prevede, è necessaria la presenza di strumenti giurisdizionali che assicurino agli assicurati la possibilità di rivalersi contro gli assicuratori, qualora non ottengano il riconoscimento dei danni subiti.
2.1.2 1 Il caso Seveso
Le condizioni sopra elencate non erano presenti nel nostro ordinamento prima della recente riforma del legislatore. Mancavano, in particolare, la presenza di strumenti giurisdizionali adeguati a tutela dei soggetti che intendessero rivalersi contro le imprese assicurative.
Nonostante gli ostacoli posti dal sistema delle tutele italiano, è accaduto che le parti coinvolte riuscissero comunque ad escogitare linee di azione giudiziaria in grado di tutelare un numero ampio di soggetti. Emblematica è, in tal senso,la vicenda giudiziaria nata a seguito del disastro di Seveso
[5].
In detta circostanza, infatti, le parti coinvolte utilizzarono una singolare strategia, finalizzata ad ottenere l’equo risarcimento del più ampio numero di soggetti possibile.
Anzitutto, la popolazione si costituì in associazione. Creò poi un “gruppo pilota” composto da pochi individui (appena trenta) che intentò l’azione civile. L’obiettivo era quello di ottenere la condanna al risarcimento dei danni in capo all’impresa che, per timore che altri soggetti potessero intentare azione sulla scia della sentenza loro favorevole, decidesse di patteggiare e riconoscere un risarcimento a tutta la popolazione coinvolta, ovviamente in via forfettaria
[6].
Il giudice di primo grado riconobbe a ciascun attore un indennizzo di due milioni a titolo di danno morale. La sentenza venne confermata in appello.
Al di là dei tanti profili tecnici che interessano questa vicenda, quello che qui interessa rilevare è la duplice circostanza per cui, da una parte, l’assenza di strumenti adeguati non impedì alle parti di proporre azione giudiziaria finalizzata all’ottenimento di un risarcimento su larga scala. Dall’altra parte, l’imprevedibilità dell’evento da parte delle imprese assicuratrici coinvolte non tutelò queste dalla necessità di versare le somme dovute per conto dell’Icmesa.
Può essere interessante notare come, nella legislazione statunitense, appunto grazie all’esistenza di un insieme di disposizioni legislative mirate, casi analoghi a quello italiano sono stati risolti attraverso il patteggiamento delle parti, a seguito della minaccia di intentare un’azione di classe. Particolarmente noti sono, ad esempio, i casi di inquinamento ambientale prodotti dallo scarico di prodotti industriali ed i conseguenti danni da intossicazione delle popolazioni locali.
2.2 La responsabilità dei produttori. I casi Cirio e Parmalat
Un altro settore nel quale l’incidenza e la frequenza di danni su larga scala sono più sviluppate che in altri casi è quello relativo ai prodotti commerciali ed ai relativi difetti di fabbricazione. Come nel caso europeo, dove si è visto che esiste una specifica direttiva
[7], anche in Italia è stata lungamente dibattuta la possibilità di agevolare i consumatori attraverso la predisposizione di azioni collettive tramite le quali far rivalere le proprie doglianze presso una singola Corte.
Particolarmente interessanti sono, a tale riguardo, i casi che hanno coinvolto due grandi multinazionali, Cirio S.p.A. e Parmalat S.p.A. ed un elevato numero di consumatori. Simili casi, infatti, hanno avuto il merito di portare alla ribalta della cronaca l’inadeguatezza del sistema giudiziario di fronte ad eventi che coinvolgono un numero elevato di soggetti
[8].
Il caso Parmalat è stato tanto più significativo sotto questo punto di vista, se si pensa che, avendo coinvolto anche investitori d’oltreoceano, ha reso evidente agli occhi di tutti le differenti posizioni dei sistemi giudiziari statunitense ed italiano
[9].
2.3 Il dibattito sull’introduzione delle azioni di classe nel mercato finanziario
Tra i settori nei quali in cui lo sviluppo di strumenti similari alle class actions si è sviluppato con maggiore rapidità ed incisività c’è sicuramente quello relativo al mercato finanziario.
Ciò, in ragione di una serie di fattori significativi. Il primo fattore si lega alla crescita esponenziale del numero e dell’importanza delle associazioni di rappresentanza dei consumatori. Questo elemento, peraltro, ha inciso non solo sul mercato finanziario e sulla tutela dei suoi operatori, ma in generale sull’intero sviluppo degli strumenti di tutela risarcitoria collettiva
[10].
Si pensi poi al perfezionamento di strumenti già esistenti in precedenza. Ad esempio, l’articolo 1469 sexies del codice civile, relativo all’azione inibitoria dell’uso di clausole vessatorie da parte dei professionisti. Oppure, l’articolo 3 della legge n. 281 del 1998 che permette alle associazioni di consumatori dotate di rappresentatività di agire, tanto in via ordinaria che di urgenza.
Lo stesso si dica per quanto riguarda la giurisprudenza. Nel corso degli anni i giudici hanno valorizzato questi strumenti, riconoscendo la possibilità per i soggetti di ottenere provvedimenti che impongono ai professionisti l’adozione di comportamenti positivi, e non soltanto l’interruzione delle pratiche vessatorie
[11].
Infine, hanno contribuito notevolmente alcuni interventi legislativi mirati, volti ad accrescere la tutela del consumatore. Si pensi in particolare al Codice unico a tutela degli utenti e dei consumatori.
Tutti questi elementi hanno contributo alla diffusione di effetti positivi a favore dei soggetti coinvolti da avvenimenti legati al mercato finanziario, consentendo loro di ottenere risarcimenti talora anche elevati.
Negli Stati Uniti il dibattito sull’applicabilità delle azioni di classe al mercato finanziario è stato altrettanto acceso. Basta, da solo, l’esempio degli hedge funds, o fondi speculativi, per chiarire i contorni del problema. In sostanza, a causa della forte innovatività, ma anche rischiosità, di questo strumento finanziario, molto soggetti subirono perdite economiche considerevoli. La soluzione generalmente eguita dalla giurisprudenza è stata tuttavia contraria al riconoscimento dello strumento delle azioni di classe. Ciò in ragione della preventiva consapevolezza della rischiosità da parte degli investitori.
Facendo un confronto con il caso italiano, c’è da chiedersi se non possa sorgere un problema analogo. Se cioè non possa sostenersi che l’adesione all’utilizzo di strumenti finanziari, nella consapevolezza del rischio, non possa precludere la successiva eventuale richiesta di risarcimento.
3.1 Le posizioni contrarie all’introduzione delle azioni di classe. I timori relativi alle associazioni di consumatori
Esistono numerose argomentazioni addotte a sostegno della tesi contraria all’introduzione del sistema delle azioni di classe nel nostro ordinamento.
Tra queste c’è quella relativa all’eccessiva estensione delle prerogative proprie delle associazioni dei consumatori. Come notato da alcuni
[12], infatti, il riconoscimento della legittimazione ad agire, nelle ipotesi di violazione degli interessi collettivi, avrebbe dovuto essere limitato “alle sole associazioni dei consumatori e degli utenti iscritte nell’elenco attraverso la c.d. azione inibitoria.
Anche sotto questo profilo, l’intento del legislatore è quello di limitare a soggetti selezionati sulla base della propria rappresentatività e, pertanto, ritenuti idonei ad assolvere la funzione di tutela di diritti ed interessi collettivi, la possibilità di adire la tutela giudiziaria inibendo atti e comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti.
Una simile interpretazione veniva valorizzata proprio in ragione dell’eventuale introduzione delle azioni di classe nel nostro ordinamento. Si sosteneva che il riconoscere indiscriminato della possibilità di fruire di simili strumenti, avrebbe potuto condurre ad un utilizzo distorto degli stessi, impedendone il giusto riconoscimento in termini di utilità
[13].
È singolare notare che negli Stati Uniti un problema simile non si è verificato. Le ragioni sono molteplici. In generale però sembrerebbe che la causa debba rinvenirsi nella legislazione preesistente, tale da riconoscere ai gruppi associati una posizione fondamentale nella società. Il timore, nell’ordinamento statunitense, non è stato tanto quello di accrescere oltre misura il potere delle associazioni di consumatori, già influenti di per sé. Quanto, piuttosto, quello di individuare i correttivi adeguati ad impedire che alcune associazioni maggiormente influenti prevalessero su quelle di minori dimensioni.
3.2 I problemi relativi alla delimitazione della legittimazione soggettiva
Parimenti a quanto accaduto in altri ordinamenti, tra cui quello statunitense, un altro problema rilevato è stato quello relativo alla legittimazione soggettiva a proporre l’azione collettiva.
Come si è visto, l’ordinamento statunitense non prevede limitazioni particolari ai soggetti che intendono affiliarsi ad un’azione collettiva. Simile impostazione mercantilistica, tuttavia, produce rischi non indifferenti. In Italia si temeva che la
class action riconosciuta indiscriminatamente a qualunque soggetto potesse divenire uno strumento di “ricatto”, ancor prima che di tutela, per i consumatori
[14].
Inoltre, si chiedeva di non trascurare la circostanza per cui il diritto di accedere alla causa riconosciuto ad un numero eccessivo di soggetti avrebbe determinato le medesime problematiche presenti nell’ordinamento statunitense quanto a notificazione degli stessi. Ciò, con l’aggravante presente nel nostro ordinamento costituita dall’esistenza di tempi procedimentali abnormi dei processi.
3.3 Il petitum e la causa petendi di un’azione collettiva
Un terzo problema che veniva rilevato riguardava il possibile oggetto delle
class actions. In particolare nel mercato finanziario, si faceva notare che: “I progetti in tema di tutela del risparmio hanno come riferimento una serie di azioni di tipo risarcitorio (anche di carattere societario), mentre in teoria la disciplina sostanziale dell’intermediazione finanziaria indica anche nella declaratoria di nullità e nelle conseguenti azioni restitutorie il
petitum e la
causa petendi di una azione collettiva”
[15].
Si rilevava, in altre parole, il rischio di duplicazione delle discipline, oppure, nella migliore delle ipotesi, di confusione degli ambiti disciplinari.
4.1.1 La class action nella Legge finanziaria per il 2008. Il dibattito parlamentare
Dopo aver introdotto e sviluppato tutte le tematiche relative agli sviluppi delle azioni collettive nell’ordinamento italiano, pur in assenza di una disciplina specifica, ed aver preso atto delle voci contrarie, è possibile analizzare la disciplina introdotta dal legislatore italiano, ed i problemi che potrebbe creare.
La legge finanziaria per il 2008 disciplina l’azione di classe nell’articolo 2, al comma 445. C’è da dire, in premessa, che il dibattito parlamentare sul tema è stato particolarmente acceso e che ha visto scontrarsi tra loro non solo le diverse ideologie politiche ma, più in generale, le diverse concezioni dei parlamentari circa le modalità che avrebbero dovuto accompagnare l’introduzione di uno strumento così importante nel nostro Paese
[16].
Sebbene il dibattito parlamentare sia eccessivamente complesso per essere ricostruito nei dettagli, può essere utile riportare brevemente i passaggi principali che lo hanno contraddistinto, anche al fine di vedere in che modo si è venuta evolvendo l’azione nel corso del tempo.
Uno dei primi disegni di legge
[17] è il numero 679, proposto dal Senatore Benvenuto nel giugno 2006. Nel disegno di legge si legge che: “(…) la
class action (strumento giuridico ormai diffuso in Paesi sia di
common law che di
civil law) rende possibile la gestione collettiva di interessi di natura individuale. Quando un rilevante numero di persone risulta danneggiato finanziariamente o fisicamente da un medesimo evento, il ricorso individuale alla giustizia condurrebbe all’instaurarsi di un grande e corrispondente numero di processi, con conseguente uso inefficiente delle risorse giudiziarie, spese processuali in alcuni casi improponibili per il singolo attore e sentenze anche tra loro contraddittorie per l’instaurarsi dei diversi processi in tribunali diversi. Con la
class action, invece, tutti i consumatori colpiti da uno stesso fatto illecito possono riunire le loro azioni legali in un’unica causa”.
Il 10 luglio dello stesso anno, alcuni deputati della camera presentavano un secondo disegno di legge, nominato “disegno di legge Fabris”, dal nome del Deputato relatore. Le differenze di questo disegno rispetto al precedente sono significative. Si ripropongono le medesime riflessioni sull’opportunità di introdurre uno strumento a tutela del consumo e della collettività. Ciò che cambia è che il disegno opera una lunga e ponderata riflessione sulle conseguenze processuali che un simile strumento introdurrebbe. Si tratta di una riflessione matura, che ha il pregio di spostare l’oggetto della discussione da un piano puramente ideologico ad uno maggiormente tecnico.
Il Parlamento ha lavorato lungamente su queste due prime proposte. Vanno tuttavia riportate anche altre proposte, intervenute nel frattempo. Ad esempio la proposta di legge di Porretti e Capezzone, anch’essa del luglio 2006, n. 1443. Questa appare interessante nei numerosi riferimenti comparati che effettua.
Si pensi al passaggio in cui chiarisce che “La quasi totalità delle class action negli Usa (Paese in cui e` molto usato questo tipo di procedimento) si concludono con una transazione che, talvolta, è progettata più a misura degli studi legali che non a beneficio della classe. Per ovviare a tale inconveniente, il presente progetto di legge prevede che la transazione, affinchè sia efficace, debba essere sottoposta a votazione di tutti i membri della classe, indetta dal curatore amministrativo (articolo 11). Questo passaggio obbligherà i soggetti che gestiranno le transazioni all’interno delle azioni collettive a proporre forme di mediazione piu` favorevoli per la classe”.
In sostanza, la proposta Capezzone intende riportare l’attenzione al problema delle conseguenze pratiche dell’azione. È opportuno, essa si chiede, riproporre un modello strettamente statunitense, con i vantaggi, ma anche gli svantaggi, che esso comporta?
La risposta ad un simile interrogatito, tuttavia, non è stata particolarmente sviluppata nelle successive proposte. Se ne ricordano almeno tre: la proposta di legge Maran, del luglio 2006; Il disegno di legge Pedica, dell’ottobre 2006; ed il disegno di legge Crapolicchio, dell’ottobre dello stesso anno.
4.1.2 La disciplina giuridica ed i profili processuali
La definizione usata dal legislatore è la seguente: “azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori”. Di fatto, la norma introduce una modifica al codice del consumo.
Le peculiarità che caratterizzano l’azione sono le seguenti: anzitutto, il collegio giudicante giudica in composizione collegiale
[18].
Godono poi di legittimazione attiva due categorie di soggetti: le associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, che siano iscritte nell’apposito albo del Ministero delle attività produttive e le associazioni ed i comitati che sono adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere
[19].
La norma, in proposito, specifica che: “Sono legittimati ad agire ai sensi del comma 1 anche associazioni e comitati che sono adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere. I consumatori o utenti che intendono avvalersi della tutela prevista dal presente articolo devono comunicare per iscritto al proponente la propria adesione all’azione collettiva”.
L’adesione delle parti è comunicabile in tempi piuttosto ampi. Per la precisione, essa può essere comunicata anche nel giudizio di appello, entro il limite massimo dell’udienza di precisazione delle conclusioni.
L’oggetto della pretesa attiene gli atti illeciti commessi nell’ambito di rapporti giuridici relativi
a contratti cosiddetti “per adesione”, disciplinati all’articolo 1342 del Codice Civile
[20],
di atti illeciti extracontrattuali, di p
ratiche commerciali illecite o di
comportamenti anticoncorrenziali, messi in atto dalle società f
ornitrici di beni e servizi nazionali e locali, sempre che ledano i
diritti di una pluralità di consumatori o di utenti.
Sono previsti ampi poteri in capo al giudice: aAd esso spetta, anzitutto, la determinazione dei criteri per mezzo dei quali deve essere fissata la misura dell’importo da liquidare in favore dei singoli consumatori o degli utenti[21];
al giudice è concessa anche la possibilità di favorire un accordo transattivo tra le parti, nella forma della conciliazione giudiziale; inoltre, la definizione del giudizio rende improcedibile ogni altra azione nei confronti dei medesimi soggetti e delle stesse fattispecie.
Da un punto di vista procedurale, la legge stabilisce che il Tribunale, alla prima udienza, sente le parti, assume (se occorre) le sommarie informazioni e si pronuncia sull’ammissibilità della domanda. L’ordinanza è però reclamabile davanti alla Corte di appello, che si pronuncia in camera di consiglio.
Bisogna notare che i casi in cui la domanda è dichiarata inammissibile si avvicinano a quelli analizzati in merito alla disciplina statunitense. Per la precisione, la domanda è dichiarata inammissibile quando in tre circostanze. Quando è manifestamente infondata. Quando sussiste un conflitto di interessi. Quando il giudice non ravvisa l’esistenza di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo.
Il giudice ha la facoltà di differire la pronuncia sull’ammissibilità della domanda quando sul medesimo oggetto è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente.
4.2.1 L’accoglimento della domanda da parte del giudice e l’accettazione da parte dell’impresa
Se, invece, ritiene ammissibile la domanda, il giudice dispone, a cura di chi ha proposto l’azione collettiva, che venga data idonea pubblicità dei contenuti dell’azione proposta e dà i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio.
Se accoglie la domanda, peraltro, spetta al giudice determinare i criteri in base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno aderito all’azione collettiva o che sono intervenuti nel giudizio.
Dunque, se questa circostanza è possibile allo stato degli atti, allora il giudice determina la somma minima da corrispondere a ciascun consumatore o utente, e ordina la notifica della sentenza. Da questo momento decorrono sessanta giorni. Entro questo termine sta all’impresa proporre il pagamento di una somma, con atto sottoscritto, comunicato a ciascun avente diritto e depositato in cancelleria.
La proposta, in qualsiasi forma, accettata dal consumatore o utente costituisce titolo esecutivo e conclude il procedimento.
4.2.2 La mancata accettazione da parte dell’impresa o dei consumatori. La camera di conciliazione
Esiste ovviamente una seconda possibilità. Se l’impresa non comunica la proposta entro il termine di sessanta giorni, oppure non vi è stata accettazione da parte dei consumatori (sempre entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della proposta) il Presidente del tribunale competente costituisce un’unica camera di conciliazione per la determinazione delle somme da corrispondere o da restituire ai consumatori o utenti che hanno aderito all’azione collettiva o sono intervenuti ai sensi del comma 2 e che ne fanno domanda.
La camera di conciliazione è composta nel modo seguente: ci sono un avvocato indicato dai soggetti che hanno proposto l’azione collettiva ed un avvocato indicato dall’impresa convenuta. Essa, inoltre, è presieduta da un avvocato nominato dal presidente del Tribunale tra gli iscritti all’albo speciale per le giurisdizioni superiori.
La camera di conciliazione quantifica, con verbale sottoscritto dal presidente, i modi, i termini e l’ammontare da corrispondere ai singoli consumatori o utenti. Il verbale di conciliazione costituisce titolo esecutivo. Esiste un’alternativa alla camera di conciliazione. Se sopravviene concorde richiesta da parte del promotore dell’azione collettiva e dell’impresa convenuta, il presidente del Tribunale dispone che la composizione non contenziosa abbia luogo presso uno degli organismi di conciliazione di cui all’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni, operante presso il comune in cui ha sede il tribunale.
Si applicano dunque, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 39 e 40 del citato decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni.
5.1 I primi casi di applicazione in Italia. Il black out informatico di Genova
All’indomani dell’emanazione della Legge finanziaria, le reazioni dei consumatori, e delle associazioni rappresentative, sono sembrate molto favorevoli. Al momento non è possibile tracciare un bilancio dei successi e degli insuccessi dello strumento, in ragione del fatto che resta sempre uno strumento estremamente giovane. Tuttavia, può essere interessante analizzare in che modo è venuto sviluppandosi e in riferimento a quali particolari casi di cronaca si è ritenuto potesse essere applicato.
L’ultimo caso, in ordine di tempo, è della prima metà di febbraio 2008. Un black out informatico al sistema che gestice la logistica del traffico merci in uscita dello scalo container di Genova Voltri ha causato danni ingenti a tutti i soggetti interessati dalla catena produttiva: tra questi, spedizionieri, autotrasportatori e agenti marittimi.
A seguito del protrarsi della paralisi per oltre due settimane, gli spedizionieri di Spediporto hanno chiesto il ricorso ad un’azione di classe, lamentando perdite da sosta forzata pari a 70 milioni di euro
[22]. Successivamente, anche gli autotrasportatori del terminal di Genova Voltri hanno deciso di promuovere una
class action contro la società del gruppo Psa di Singapore che gestisce il terminal container di Genova Voltri.
5.2 I contatori di gas della provincia di Milano
Un altro caso che ha portato alla richiesta di azione di classe in Italia risale ai primi mesi del 2008. L’azione si inserisce nell’indagine intrapresa dalla procura di Milano sui vecchi contatori del gas per uso domestico presenti nella provincia di Milano.
Secondo le indagini svolte dalla procura, le bollette fatturate opererebbero una sovrastima del gas erogato pari (e talora superiore) al 10%. Responsabili del disservizio, sempre secondo le indagini della procura, sarebbero alcune importanti società dell’industria energetica nazionale. Tra queste, anche Snam Rete Gas, Italgas, Aem e Arcalgas.
In sostanza, un numero considerevole di contatori casalinghi segnalerebbero consumi superiori al gas effettivamente erogato, con conseguente rincaro nella bolletta
[23].
A seguito della diffusione della notizia su tutti i principali quotidiani nazionali, alcune associazioni di consumatori (in particolare Adusbef, Adoc e Federconsumatori) hanno deciso di chiedere dapprima una serie di verifiche su tutti i contatori di gas più vecchi, al fine di verificare la rispondenza agli standards tecnici imposti dalla legge.
La cosa più importante, però, è che le stesse associazioni dei consumatori hanno minacciato (e, almeno allo stato attuale, non ancora intentato) un’azione di classe. È evidente, in un caso come questo, che il ricorso allo strumento disciplinato dal legislatore può avere effetti positivi ancor prima di essere effettivamente utilizzato. Questo sembrerebbe essere, peraltro, lo scopo effettivo che il Legislatore italiano si è riproposto di attuare. Ossia, in altri termini, quello di forzare i poteri economici “forti” ad addivenire ad una conclusione pacifica delle controversie, prima che i consumatori possano intentare un giudizio civile, con una serie di conseguenze molto più svantaggiose per l’impresa coinvolta, in termini economici e di pubblicità (quello che negli stati uniti prende il nome di naming-shaming).
6. Problemi e prospettive
La disciplina predisposta dal legislatore italiano presenta punti di forza ed alcuni aspetti problematici.
Tra i primi vi è sicuramente il tentativo di aggirare gli ostacoli propri del diritto statunitense. In particolare quelli relativi alla definizione dei migliori criteri di qualificazione dei soggetti legittimati a ricorrere.
Lo sforzo del legislatore si rende particolarmente apprezzabile laddove favorisce, oltre alla emissione di una sentenza, anche forme di conciliazione. Lo scopo è quello di consentire alle parti di ottenere un ristoro soddisfacente entro tempi ridotti. Peraltro, il vincolo posto dalla sentenza, che impedisce qualsiasi ulteriore ricorso al soggetto, ammonisce il soggetto ad intentare liti temerarie.
Come è apparso evidente dalle riflessioni svolte in precedenza, i casi finora realizzati di azione di classe sembrerebbero propendere in questa direzione.
I punti deboli costituiscono, in assenza di un numero adeguato di azioni di questo tipo, più un timore che una certezza. In particolare vi sono due aspetti controversi. Il primo riguarda i tempi dei procedimenti giurisdizionali. Se si esclude la previsione del potere in capo al giudice di creare una camera di conciliazione, che dovrebbe snellire le procedure, non è chiaro in che modo il legislatore preveda la diminuzione dei carichi di lavoro in capo ai Tribunali. Ignorare un problema simile potrebbe rivelarsi estremamente rischioso, soprattutto in previsione dell’elevato numero di azioni di classe che verranno intentate nei prossimi anni.
Quanto al secondo punto controverso: si tratta delle fatispecie in merito alle quali è stato ammesso. È apprezzabile il fatto che lo si sia legato ai contratti per adesione (dove, peraltro, forme similari all’azione di classe erano già presenti), ma non è chiara la ragione per cui si sia voluto restringere il campo di applicazione alle sole fattispecie individuate, anziché consentire l’azione per un più ampio numero di ipotesi.
Simile perplessità, tuttavia, si rivelerà fondata solamente nell’ipotesi in cui dovessero insorgere fattispecie dannose su larga scala che non consentano ai danneggiati il ricorso allo strumento dell’azione collettiva.
[1] Si prenda, a titolo di esempio, Rescigno M., L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano. Profili generali, in Giurisprudenza italiana, 2000, pag. 407: “Negli ultimi anni il dibattito, che aveva registrato la partecipazione di voci importanti (…), si è intensificato e non soltanto in sede dottrinaria. Infatti, se ancoa non può dirsi introdotta nel nostro ordinamento la class action (…), tuttavia il riconoscimento della tutela processuale degli interessi diffusi (…) ha compiuto significativi passi avanti”
[2] V. Badano D., Mass torts: l’ottica assicurativa, in Responsabilità civile e previdenza, 2002, III, pag. 608: “Attualmente per l’industria assicurativa la più grande area di incertezza è rappresentata dalla minaccia dell’insorgere di nuove tipologie di Mass torts. Infatti gli effetti di tali sinistri – chiamati in gergo assicurativo Long Tail – sulle esposizioni delle Compagnie sono suscettibili di compromettere la solidità finanziaria dell’intero sistema industriale. Questo tipo di sinistri (citiamo ad esempio l’inquinamento ambientale, l’amianto, le protesi mediche, le radiazioni, il tabacco ed altre esposizioni ad agenti tossici) sono caratterizzati dall’esposizione ad un processo od un agente nocivo che produce danni dopo un lungo periodo di latenza, rendendo quindi impossibile per l’assicuratore la valutazione delle proprie esposizioni e conseguentemente la determinazione del premio corrispondente a farvi fronte. Infatti l’assicuratore per questi sinistri non dispone di precedenti storici e pertanto non può ricorrere alle tradizionali metodologie attuariali per il calcolo del premio che si basano sull’esperienza della sinistrosità del passato, sulla frequenza, sul costo medio dei sinistri”.
[3] Nota Badano D., Mass torts: l’ottica assicurativa, in Responsabilità civile e previdenza, 2002, III, pag. 608: “In molti casi è sufficiente che anche una piccola parte sia esposta, poiché se l’effetto patologico è latente, ovvero richiede un lungo periodo per diventare apparente, l’effetto potrà diffondersi successivamente su milioni di persone. Questo aspetto è riscontrabile ad esempio nel caso dei sinistri da esposizione all’amianto, uno dei Mass torts più noti degli ultimi anni, i cui effetti dannosi per l’organismo non si manifestano prima di 15 anni (asbestosi, che provoca enfisema polmonare e mesotelioma)”.
[4] In alcuni casi le imprese assicurative, per limitare gli effetti nocivi dei danni di massa, inserivano una limitazione contrattuale nel tempo dell’esposizione al rischio. Tipico esempio è come la clausola c.d. “Claims Made”, che fa rispondere la polizza solo per i sinistri comunicati all’assicuratore durante il periodo di validità della polizza stessa. In genere contengono questo tipo di clausola tutte le polizze relative ai prodotti di uso comune.
[5] Per l’indicazione dei profili ricostruttivi principali di cronaca giudiziaria, si rimanda a Feola D., Il caso “Seveso” e la risarcibilità dei danni non patrimoniali alla collettività vittima di un disastro ambientale, in Responsabilitàcivile e previdenza, 1995, pag. 143: “La sera del 10 luglio 1976 fuoriusciva dallo stabilimento dell’Icmesa di Seveso (società con sede a Meda) una nube tossica di diossina. Le indagini dei periti accertarono poi che l’incidente era stato causato dal guasto di un reattore durante la pausa di raffreddamento”
[6] V. Feola D., Il caso “Seveso” e la risarcibilità dei danni non patrimoniali alla collettività vittima di un disastro ambientale, in Responsabilitàcivile e previdenza, 1995, pag. 145: “La popolazione, con un espediente che farà storia, in anni recenti si è costituita in associazione per mettere in atto una strategia risarcitoria che riducesse al minimo i costi del giudizio. L’idea è stata allora quella di mandare allo scoperto un gruppo piloita, costituito da uina trentina di persone, abitanti dei comuni interessati dalla contaminazione, il quale coltivasse l’azione civile. E ciò nella speranza che, ottenuta una sentenza favorevole, questa valesse a coinvincere la società responsabile per una transazione definitiva (risparmiando a danneggianti e danneggiati i costi dei possibili giudizi). Il gruppo pilota si componeva di persone che già si erano tempestivamente costituite quali parti civili nel processo penale, ove le loro ragioni erano state accolte in via generica, e di altri che agivano per la prima volta. Un gruppo poi conveniva in giudizio solo l’Icmesa in liquidazione, l’altro anche la società controllante”.
[7] Si veda, per ogn approfondimento, Bastianon S., Prime osservazioni sul libro verde della Commissione in materia di responsabilità civile per danno da prodotti difettosi, in Responsabilità civile e previdenza, 2000, III, pag. 812: “Negli ultimi anni la Commissione ha mostrato di attribuire sempre maggiore rilevanza alla necessità di assicurare ai consumatori un effettivo accesso alla giustizia, attraverso una serie di proposte tutt’altro che marginali quali, ad esempio, la possibilità di esperire azioni giudiziarie congiunte sulla falsariga delle ben note class actions di origine statunitense, la possibilità per il consumatore di ottenere il rimborso delle spese giudiziarie, la creazione di un sistema di risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di tutela del consumatore, nonché l’adozione della direttiva 98/27 relativa ai provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori”.
[8] Nel caso di specie si trattata della cattiva e fraudolenta gestione delle somme investite da privati da parte degli amministratori delle società. Il caso Parmalat, in particolare, ha portato la società al collasso, costringendola ad un forte ridimensionamento.
[9] Tant’è che la stampa italiana ha lungamente parlato di “globalizzazione” dell’economia, facendo riferimento alla creazione di nuovi sistemi di azione da parte delle associazioni di consumatori italiane, nel tentativo di raggiungere un miglior livello di tutela, prendendo ad esempio quelle statunitensi.
[10] Cfr. Rescigno M., L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano. Profili generali, in Giurisprudenza italiana, 2000, pag. 408: “…la cescita quantitativa e, soprattutto, di capacità di pressione delle associazioni dei consumatori e la sempre maggiore sensibilità del problema dell’effettiva tutela degli interessi dei consulatori ha condotto al positivo riconoscimento in favore delle stesse della possibilità di agire in giudizio ad agire in giudizio al fine di tutelare i diritti dei consumatori e degli utenti”.
[11] V. Rescigno M., L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano. Profili generali, in Giurisprudenza italiana, 2000, pag. 408: “Soprattutto (…) conviene sottolineare che voci autorevoli e recenti sentenze riconoscono che il consumatore possa avvalersi degli effetti del giudicato favorevole formatosi sull’accertamento della condotta lesiva del professionista nel giudizio promosso ex art. 3 l. 281 del 1998 per ottenere il riconoscimento delle pretese restitutorie (comportamenti rilevanti sul piano contrattuale: si pensi alla recente vicenda dell’anatocismo o risarcitorie che, dalle condotte lesive accertate sorgano in suo favore”.
[12] Si tratta di Forasassi S., Le associazioni dei consumatori e degli utenti: i requisiti per l’iscrizione nell’elenco delle associazioni rappresentative a livello nazionale, in Giustizia civile, 2007, III, pagg. 764 ss.
[13] V. Forasassi S., Le associazioni dei consumatori e degli utenti: i requisiti per l’iscrizione nell’elenco delle associazioni rappresentative a livello nazionale, in Giustizia civile, 2007, III, pagg. 774: “Interpretare in modo meno restrittivo l’intenzione del legislatore potrebbe comportare una tutela dei consumatori e degli utenti, nonché delle stesse associazioni, pregnante dal punto di vista teorico, ma poco effettiva se calata nella realtà fattuale. Senza minimamente negare l’importanza indubitabile di tutto l’associazionismo consumerista, va comunque ricordato che il fenomeno nel nostro Paese è ancora giovane così come ancora giovani sono gli strumenti di tutela affidati alle associazioni dei consumatori e degli utenti”.
[14] V. Rescigno M., L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano. Profili generali, in Giurisprudenza italiana, 2000, pag. 415: “La spinta verso azioni di disturbo, volte ad ottenere un pretium per evitare anche il solo rumor che una class action può provocare con una conveniente (specie per l’avvocato) transazione e gli evidenti rischi di conflitto di interessi nella gestione e transazione della causa. Rischi il cui rilievo – è bene ricordarlo – non si limita al rapporto diretto tra attore e suoi legali in ordine alla definizione concordata della lite (…), che potrebbe anche essere ritenuto fisiologico e ampiamente compensato dai benefici complessivi, ma dal fatto che esso – a seconda dello schema e dei requisiti preliminari della class action – tocca non solo gli interessi di chi ha dato il mandato ma anche di tutti gli appartenenti alla classe”.
[15] Cfr. V. Rescigno M., L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano. Profili generali, in Giurisprudenza italiana, 2000, pag. 417
[18] V. Art. 50 bis, comma 1, n. 7 bis
[19] V. Art. 140-bis, comma I. Sarà dunque un decreto del Ministero a stabilire quali siano le categorie ulteriori dei consumatori e quali caratteristiche dovranno soddisfare per poter legittimamente esercitare in giudizio le azioni di classe.
[20] Si tratta di tipologie contrattuali che all’utente non è dato contrattare. Il testo dell’articolo 1342 recita così: “Nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse, anche se queste ultime non sono state cancellate (1370). Si osserva inoltre la disposizione del secondo comma dell’articolo precedente”.
[21] Si noti che contestualmente alla pubblicazione della sentenza di condanna ovvero della dichiarazione di esecutività del verbale di conciliazione, il giudice, per la determinazione degli importi da liquidare ai singoli consumatori o utenti, costituisce presso lo stesso tribunale apposita Camera di Conciliazione, composta in modo paritario dai difensori dei proponenti l’azione di gruppo e del convenuto e nomina un conciliatore di provata esperienza professionale iscritto all’albo speciale per le giurisdizioni superiori che la presiede. A tale Camera di Conciliazione tutti i cittadini interessati possono ricorrere singolarmente o tramite delega alle associazioni di cui al comma 1. Essa definisce, con verbale sottoscritto dalle parti e dal presidente, i modi, i termini e l’ammontare per soddisfare i singoli consumatori o utenti nella loro potenziale pretesa. La sottoscrizione del verbale, infine, rende improcedibile l’azione dei singoli consumatori o utenti per il periodo di tempo stabilito dal verbale per l’esecuzione della prestazione dovuta.
[22] Come riporta il sito www.classactionitalia.it, le dichiarazioni del rappresentante di categoria sono state le seguenti: “Certamente chiederemo il risarcimento dei danni diretti – ha dichiarato Piero Lazzeri, presidente di Spediporto – in pratica significa che non pagheremo i costi per la sosta forzata dei container in attesa di partire all’interno del terminal. I danni indiretti sono più difficili da calcolare, valuteremo caso per caso”.
[23] Dal sito www.classactionitalia.it: “Il motivo dell’errato conteggio del volume del gas per eccesso sarebbe il fatto che i contatori per uso domestico con membrane naturali con gli anni perdono di elasticità (a differenza delle membrane sintetiche, che mantengono valori di errore nei limiti tollerabili) impedendo al misuratore di conteggiare l’effettivo volume di gas consumato. Sono 55 i contatori esaminati dal perito della Procura di Milano. Una trentina di questi hanno evidenziato il malfunzionamento che in alcuni casi segnalava un’erogazione fantasma di gas con picchi del 15%. Se le stime fossero veritiere ed estendibili a tutta l’Italia – sostengono I giornalisti di Repubblica -, le reti di fornitura del gas, somministrerebbero mezzo miliardo di metri cubi in meno all’anno rispetto a quello che si farebbe pagare. Secondo l’interpretazione dell’UNC il trucco dei contatori del gas che misurano fino al 15% in più del volume effettivamente erogato deriva non soltanto dai contatori vecchi, ma anche dal fatto che i contatori misurano il volume e non il peso del gas. Il peso del metano contenuto in un metro cubo. peso che cambia in un certo volume a seconda delle condizioni di temperatura e pressione. Condizioni sulle quali si possono fare trucchi – avverte l’associazione -, tanto è vero che l’Autorità del gas ha predisposto da tempo controlli”.
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