1. -Per comune ammissione, quella del medico si ritiene essere una tipica obbligazione di mezzi. In essa, come afferma la S.C.:
«Il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l’oggetto è l’attività l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione . . .; tanto più che, trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività alla quale il debitore è tenuto» (Cass., 9 novembre 2006, n. 23918).
Ed ancora, sostiene la Cassazione:
«Il medico-chirurgo nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto a una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall’art. 1176, c. 1, ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176, c. 2, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica. La diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione. Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia, da intendersi come conoscenza e attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione» (Cass. 13 gennaio 2005 n. 583).
In definitiva, sulla scorta dei precedenti dicta, si può affermare che l’aspettativa del malato ad un trattamento medico consono alla diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c, non equivale pretendere il raggiungimento di un risultato, cioè la guarigione, non potendosi ignorare la differenza tra il curare (mezzo) ed il guarire (risultato).
E’ opportuno rammentare, però, che per raggiungere il risultato è opportuno che il medico si conformi almeno alle leges artis ed ai precetti di diligenza professionale (soccorrono, in casi simili, i protocolli di cura, le regole deontologiche et similia). In tema, si ricordi, come monito, l’asserzione della recentissima Cass. 24 gennaio 2007 n. 1511: «. . . si cura non la malattia, ma il malato».
2. – Circa l’invocabilità, a discolpa di un trattamento medico negligente, imprudente ed imperito, del disposto dell’art. 2236 c.c., si rammenta che il diritto vivente è nel senso di ritenere che la limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ivi prevista, si riferisca solo all’imperizia (intesa quale insufficiente preparazione di colui che opera) e non si applica ai danni causati a negligenza o imprudenza del professionista, per i quali egli risponde anche per colpa lieve.
In tal senso, Cass. 13 gennaio 2005, n. 583: «A norma dell’art. 2236 c.c., applicabile anche ai medici, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave. Va altresì rilevato che la limitazione di responsabilità professionale del medico chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. Pertanto il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza o di prudenza provochi un danno nell’esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica. In altri termini la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media, ovvero perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare (conff., ex plurimis, Cass. 16 febbraio 2001 n. 2335, idd., 18 novembre 1997 n. 11440, 12 agosto 1995 n. 8845, 11 aprile 1995 n. 4152, Corte cost. 22 novembre 1973 n. 166).
Ancora, Cass. 23 settembre 2004: «In tema di responsabilità contrattuale del professionista medico, l’errore o l’omissione di diagnosi integrano di per sé l’inadempimento del professionista anche in presenza di un quadro clinico complesso per la gravità della patologia e le precarie condizioni di salute del paziente».
E, da ultimo, Cass. 5 luglio 2004 n. 12273,che pur nei casi di speciale difficoltà àncora l’attività medica al fondamentale precetto dell’art. 1176, comma 2, c.c.:
«Non possono mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico, gli obblighi di diligenza del professionista, che è un debitore qualificato ai sensi dell’art. 1176 comma 2 c.c., e di prudenza che, pertanto, pure nei casi di particolare difficoltà risponde anche per colpa lieve. Il medico, in particolare, se da un lato deve valutare con grande prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto se la situazione non è così urgente da sconsigliarlo, dall’altro deve adottare tutte le possibili misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove ciò non sia possibile, deve informarne il paziente, consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea».
3. – Del pari spinoso, in subiecta materia, è il tema delnesso causale tra omessa e/o errata diagnosi ed evento, a proposito del quale non può non richiamarsi la giurisprudenza della S.C. che (a partire dalla notissima sentenza Franzese, che subito di seguito si riporta) in campo medico – chirurgico lo ritiene sussistente tutte le volte che dall’omissione dell’attività doverosa sia derivato un evento lesivo diverso (per quantità e qualità) da quello che la realizzazione della detta attività era volta ad evitare.
«In tema di accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo allo specifico settore dell’attività medico – chirurgica, il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva» (Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 30328).
Ed ancora, nella stessa direzione della sentenza Franzese, Cass., 21 gennaio 2000 n. 632: «Il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che l’adempimento dell’obbligazione, ove correttamente e tempestivamente intervenuto, avrebbe influito sulla situazione connessa al rapporto, del creditore della prestazione cosicché la realizzazione dell’interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente di assoluta certezza, ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di verificarsi, “certezze” di sorta, nemmeno di segno “morale”, ma solo semplici probabilità d’un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa. E la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti».
Cass. pen., 16 agosto 1990, n. 11484: «In materia di responsabilità per colpa professionale sanitaria, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tali effetti e dell’idoneità della condotta a produrli. Quindi il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata» (conf., ex multis, Cass. 23 gennaio 1989, n. 790).
Tra la conforme giurisprudenza di merito, si segnala la recente Trib. Palmi 11 febbraio 2006: «In sede civile è configurabile un nesso causale fra il comportamento del sanitario ed il pregiudizio subito da un paziente, qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del sanitario, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno in concreto verificatosi: in particolare, la sussistenza del nesso causale va affermata laddove, secondo le statistiche cliniche, la probabilità che dalla condotta del convenuto sia derivato l’evento lesivo sussiste nel 50% + 1 dei casi» (conf., tra le molte, Trib. Napoli, 4 gennaio 2007).
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