1. Introduzione.
L’odierno contesto sociale è caratterizzato da una sempre maggiore complessità e da un’estrema variabilità.
Il processo di globalizzazione ha posto le pubbliche amministrazioni di fronte a nuove realtà. Sono sorti nuovi problemi (invecchiamento della popolazione; fenomeni migratori che hanno originato una società multietnica, con connesse questioni di integrazione culturale, e così via).
Da tempo diverse componenti del tessuto sociale evidenziano l’inadeguatezza del contributo pubblico alla soluzione dei suddetti problemi.
Nel presente lavoro cercherò – senza pretesa di esaustività – di analizzare gli orientamenti che emergono nella complessa materia dell’organizzazione e del funzionamento degli enti pubblici. Partirò dai numerosi interventi legislativi susseguitisi dagli anni ’90 ad oggi, illustrando quanto è stato fatto ed analizzando le prospettive future.
Devo premettere che la disamina verrà condotta con un occhio particolare agli enti locali, in ragione sia dell’esperienza professionale da me maturata in tale comparto, sia del ruolo di centralità ricoperto dagli stessi enti nell’esercizio delle funzioni amministrative, in qualità di di erogatori dei servizi di base a beneficio delle comunità di riferimento, in coerenza con il principio di sussidiarietà verticale.
2. le riforme degli anni ’90.
L’ultimo decennio del secolo scorso ed i primi anni di quello corrente sono stati caratterizzati da un’intensissima produzione legislativa, con lo scopo ultimo di dare alla pubblica amministrazione una nuova immagine, più moderna ed efficiente.
Per troppo tempo, infatti, l’ente pubblico è stato considerato come sinonimo di burocrazia, di lentezza, di cavillosità, di supremazia nei confronti del cittadino.
Emblematico al riguardo è l’episodio del film del 1965 “Made in Italy”, intitolato “Il certificato”, in cui si descrivono le peripezie di un cittadino (interpretato da Nino Manfredi) che, per ottenere un certificato presso gli uffici anagrafici della Capitale, si avventura tra una pluralità di uscieri, sportelli e code chilometriche in un labirinto di corridoi immensi ed iperaffollati.
E come non associare a questa immagine deteriore della pubblica amministrazione quella di una lumaca o delle montagne di carte ammassate sulle scrivanie degli impiegati, affiancate da decine di timbri?
Le riforme degli anni ’90 hanno inteso incidere sulle varie componenti della pubblica amministrazione: a) la struttura; b) il personale, dirigente e non; c) l’attività svolta.
La struttura: l’organizzazione dell’apparato pubblico presentava un carattere fortemente accentrato. La Costituzione Repubblicana statuisce che “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.”
Di fatto, però, la situazione era ben diversa. Per varie ragioni la concreta attivazione delle Regioni ha avuto luogo solo nel 1970, mentre l’attività degli enti locali subiva un’asfissiante controllo preventivo di tipo tutorio sui singoli atti, esercitato da parte dello Stato e delle sue articolazioni periferiche, quasi che tali atti provenissero da soggetti incapaci.
Tale tipo di controllo si traduceva inevitabilmente in un ostacolo all’esercizio dell’attività amministrativa in tempi ragionevoli, in spregio al principio di buon andamento dell’attività amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione.
Come detto, nel 1990 il legislatore ha iniziato l’opera di rinnovamento, partendo proprio dagli enti locali. Con la legge 8.6.’90 n. 142 è stata introdotta la riforma della normativa sugli enti locali, precedentemente racchiusa in un testo unico datato 1934 e, quindi, antecedente all’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana.
Tra le varie innovazioni introdotte dalla legge in questione occorre ricordare il riconoscimento in capo agli enti locali dell’autonomia statutaria; l’incentivazione delle fusioni e delle unioni dei comuni (per fronteggiare l’estrema frammentazione territoriale dei comuni, che dava origine ai c.d. “comuni polvere”, sovente in difficoltà nell’erogazione della pluralità di servizi alle rispettive comunità); la previsione delle aree metropolitane, solo per citarne alcune.
In particolare, con il proprio statuto l’ente locale è stato dotato di un mezzo per disciplinare (seppur “nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica che ne determinano le funzioni”, secondo la previsione del testo allora vigente dell’art. 128 della Costituzione) importanti materie, quali: le attribuzioni degli organi; i criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi; le forme di partecipazione popolare; le forme di garanzia e partecipazione delle minoranze, e così via.
Il personale: negli anni ’90 una profonda riforma del pubblico impiego ha preso avvio con il d.lgs. 29/’93. Principio cardine che si è perseguito è stato quello della distinzione tra attività di indirizzo e di gestione. La prima è stata riconosciuta di pertinenza degli organi politici; la seconda è stata riconosciuta di competenza del ceto dirigente. Il principio in questione (rafforzato con il d.lgs. 80/’98 e trasfuso nel d.lgs. 165/’01 e nella l. 145/’02) è espressivo di un’evoluzione normativa che ha inteso sottrarre i dirigenti ad una preesistente situazione di soggezione rispetto alla classe politica, in pratica di subordinazione gerarchica, ridisegnando il rapporto in termini di direzione politica. In tal modo si è voluto perseguire l’obiettivo di aumentare i poteri dirigenziali e, nel contempo, le connesse responsabilità.
Relativamente a tutto il personale pubblico (dirigente e non) – fatta eccezione per alcune categorie tassativamente elencate (magistrati, professori universitari, ecc.) – si è introdotta la contrattualizzazione, cioè l’individuazione della fonte del rapporto di impiego nel contratto individuale stipulato tra l’amministrazione ed il singolo impiegato, con applicazione al medesimo rapporto delle norme definite nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale e decentrata e delle norme civilistiche, devolvendo le relative controversie al giudice ordinario (giudice del lavoro).
Dei moduli privatistici è stata recepita anche la metodologia di lavoro, con lo sforzo di passare da un’azione ispirata al rispetto della legittimità dei singoli atti ad un’azione che – senza trascurare il rispetto delle norme – è tesa essenzialmente al perseguimento di obiettivi, di risultati preventivamente fissati.
Va aggiunto che tale evoluzione ha trovato un’importante base di partenza nella l. 9.8.’90 n. 241 che – per la prima volta in Italia – ha introdotto una disciplina organica dell’azione amministrativa, inquadrata come procedimento, ovvero come serie di atti che si susseguono nel tempo, collegati in vista della emanazione del provvedimento finale, per la soddisfazione dei bisogni della collettività.
L’attività: proprio il riferimento alla legge sul procedimento amministrativo introduce l’altra linea di intervento normativo riguardo alla pubblica amministrazione, quella concernente l’attività, il modus operandi.
Fondamentalmente è stata posta l’attenzione sull’esigenza di innovare il modo di operare degli enti pubblici, tradizionalmente incentrato su procedure finalizzate all’emissione di singoli atti, con l’unica preoccupazione della garanzia del rispetto puntiglioso e fine a sé stesso delle norme di legge. Si è, invece, intrapreso lo sforzo di porre al centro dell’attenzione l’attività complessiva dell’ente pubblico.
L’impostazione tradizionale, come accennato, dava origine ala c.d. “cultura dell’adempimento” (le p.a. emanavano un certo tipo di atti perché lo imponeva la legge). Ciò legittimava il sistema di controlli degli atti incentrato sul controllo preventivo avente ad oggetto i singoli provvedimenti.
La nuova impostazione, invece, in sintonia con l’evoluzione di cui si è detto in precedenza in materia di personale pubblico e con la valorizzazione dei principi di efficienza, efficacia ed economicità ad opera della l. 241/’90, ha perseguito l’obiettivo di introdurre nell’attività degli enti pubblici la c.d. “cultura del risultato”. In altre parole, si è voluta focalizzare l’azione della p.a. verso la definizione di obiettivi da raggiungersi in tempi prestabiliti, con l’adozione del ciclo di pianificazione, programmazione e controllo, seguendo schemi operativi già collaudati nel mondo delle imprese private.
Naturalmente la nuova impostazione dell’operato della p.a. non poteva non trovare riflesso in una radicale modifica del sistema dei controlli (1).
La modifica del modus operandi ha reso indispensabile anche un radicale cambiamento nel modo di porsi degli enti pubblici nei confronti dei cittadini. L’esigenza di colmare il senso di distacco tra apparati pubblici e utenti, di superare una sorta di autolegittimazione, autoreferenzialità che gli enti pubblici dimostravano di coltivare nell’ambito dei rapporti con l’utenza ha dato impulso ad una nuova prospettiva: i bisogni ed i desiderata dei cittadini hanno assunto un ruolo di centralità.
Se le istituzioni pubbliche sono legate ai cittadini in virtù della rappresentanza politica, è giocoforza che la loro attività debba essere ispirata ed indirizzata dall’esigenza di soddisfare i bisogni della collettività dei cittadini. Questi ultimi, pertanto, non devono più essere guardati dall’alto in basso o come una sorta di ostacolo all’esercizio di poteri di cui gli enti pubblici sarebbero dotati per il fatto stesso di esistere.
Nuovi paradigmi sono emersi nel rapporto tra p.a. e cittadini, sintetizzabili in una sola parola: partecipazione.
Se, per definizione, la politica consiste nell’adozione di decisioni, scelte da parte delle strutture pubbliche, tali scelte devono essere suffragate dalla partecipazione dei cittadini alla determinazione degli obiettivi verso cui l’azione è diretta.
Non a caso una componente importante della l. 241/’90 è costituita dagli istituti di partecipazione, attraverso i quali la voce dei cittadini trova spazio nell’ambito del processo decisionale dell’ente pubblico.
3. Gli sviluppi nei primi anni del terzo millennio
Indicata, in estrema sintesi, la strada tracciata negli anni ’90 per dar luogo ad un’azione di modernizzazione della pubblica amministrazione, passo ad esaminare le linee direttrici verso le quali tale azione si è sviluppata negli anni più recenti.
Riguardo alla struttura organizzativa di ciascun ente pubblico, si deve rilevare la necessità di un ripensamento costante della stessa. Gli elementi di incertezza e di mutevolezza dell’ambito sociale in cui le strutture pubbliche operano sono all’origine di tale necessità: sempre più frequentemente l’ente pubblico si trova ad affrontare problematiche nuove e ad ampliare la propria sfera di competenza. Ciò ha reso necessario modificare radicalmente la preesistente struttura organizzativa centrale (i ministeri, caratterizzati in ordine decrescente da direzioni generali, divisioni, sezioni ed uffici, hanno assunto come elementi centrali i dipartimenti).
Oltre a ciò, va riscontrata la tendenza delle compagini governative che si alternano alla guida del Paese a ricorrere a frequenti modifiche delle competenze attribuite ai singoli dicasteri, accompagnate da repentini accorpamenti e modifiche di denominazione degli stessi.
E’ possibile riscontrare analoghe linee di tendenza negli enti locali e, a mio avviso, non potrebbe essere diversamente: dal momento che l’autonomia organizzativa di detti enti una peculiarità degli stessi, sarebbe illogico pensare che ciascun ente non ne faccia uso, orientandosi costantemente verso la ricerca della struttura ottimale per la soluzione dei mutevoli problemi che si presentano.
D’altra parte, la stessa introduzione del ciclo di pianificazione, programmazione e controllo rende necessaria una struttura organizzativa la più elastica possibile.
Naturalmente connessa con la variabilità (elasticità) della struttura organizzativa è la valorizzazione delle risorse umane, ad iniziare dai dirigenti.
Lo sforzo del legislatore degli anni ’90 di aumentare i poteri decisionali (e le connesse responsabilità) dirigenziali e l’impostazione dell’azione amministrativa in percorsi di pianificazione, programmazione e controllo hanno reso necessaria la creazione di una classe dirigente nuova, caratterizzata da connotati meno burocratici e più manageriali.
Le doti di un buon dirigente non si esauriscono nelle conoscenze tecniche specifiche: queste sono una condizione necessaria ma non sufficiente, se non accompagnata da altre caratteristiche, legate alla sfera delle relazioni ( con i collaboratori, con l’utenza, con gli organi politici, con i mass-media, ecc.) ed alla consapevolezza della delicatezza del ruolo ricoperto.
Al dirigente viene chiesto di favorire la creazione di un clima positivo e propositivo nella struttura in cui opera, di saper coinvolgere i propri collaboratori soprattutto a livello emotivo, stimolandone l’interesse al lavoro e rendendoli partecipi degli obiettivi da perseguire, responsabilizzandoli e coordinandoli, ma senza far pesare la propria superiorità gerarchica. In una parola, egli dovrà avere la capacità di “fare gruppo”, ovvero – si passi il paragone – di tenere alto il morale della squadra, come un buon allenatore effettua nello spogliatoio.
Essenziale è, dunque, il fattore della motivazione del personale pubblico, che favorisce l’autostima ed il senso di appartenenza all’ente. Motivare il personale si può e si deve, stimolandone ed incentivandone gli atteggiamenti innovativi, frutto di quel potenziale che in ognuno di noi è presente, la creatività, da cui può derivare la proposizione di approcci e soluzioni nuove per affrontare le varie problematiche che si manifestano nell’ambito dell’attività pubblica.
Ma per perseguire tale risultato, si ripete, è fondamentale misurare il benessere interno all’organizzazione e tendere al suo costante miglioramento.
A tale riguardo, non si può tralasciare di ricordare che il personale costituisce il cliente interno dell’ente pubblico ed il suo benessere è non meno importante di quello della collettività di riferimento dell’ente pubblico, il c.d. cliente esterno.
Opportuna è, quindi, la costante attenzione dell’ente alle mutevoli esigenze delle sue risorse umane, con la creazione di strumenti che facilitino i flussi di comunicazione interna (dall’amministrazione ai propri dipendenti e viceversa).
Ecco, dunque, un altro importante fattore di miglioramento della p.a.: la comunicazione.
Il miglioramento dei processi comunicativi è vitale nell’odierna società dell’informazione, sia nel rapporto tra gli enti pubblici e le diverse componenti sociali con cui interagiscono (comunicazione esterna) che nel rapporto con i propri clienti interni, le proprie risorse umane (comunicazione interna).
La comunicazione interna va favorita con mezzi adeguati, consentendo la massima circolazione delle informazioni essenziali per il corretto espletamento delle funzioni istituzionali dell’ente. Spesso nella mia esperienza professionale ho potuto constatare situazioni di difetto di comunicazione interna, realtà in cui uffici non hanno neppure un’idea seppur vaga dell’attività svolta da altri uffici dello stesso ente.
In questo c’è molta strada da percorrere, ma gli strumenti per migliorare esistono: le nuove tecnologie possono aiutare molto. Si può, ad esempio, utilizzare le reti informatiche interne (intranet) per informare i diversi soggetti che operano nell’ente (personale, dirigente e non, referenti politici) sulle iniziative di maggior rilievo nel funzionamento dell’ente. In alternativa, si può pensare alla creazione di newsgroup, cioè di spazi informativi virtuali in cui ciascuno dei soggetti di cui sopra può introdurre una discussione su un determinato argomento, alimentando interventi espressivi delle opinioni in merito degli altri componenti del gruppo.
Gli strumenti, dunque, non mancano ed essenziale è il fine ultimo del loro utilizzo: favorire lo scambio di opinioni, di esperienze e, quindi, consentire la diffusione della conoscenza.
L’odierna società è caratterizzata da un enorme flusso di informazioni che investe quotidianamente ciascuno di noi. Ciò accade anche all’interno degli enti pubblici e, come è stato chiaramente messo in luce (2), è essenziale selezionare, tra le tante, le informazioni più utili per svolgere l’attività decisionale con cognizione di causa.
Il miglioramento della comunicazione interna include anche la condivisione di quel basilare patrimonio immateriale degli enti pubblici dato dalle esperienze, dal vissuto dei diversi operatori. Questo patrimonio può e deve essere valorizzato, evitando che rimanga una dote del singolo soggetto, facendolo, invece, diventare un patrimonio di conoscenza comune.
In tale contesto una funzione strategica è data dalla formazione del personale e dal suo costante aggiornamento (c.d. formazione continua).
L’importanza della formazione diviene sempre più evidente ed essa costituisce nel contempo un diritto ed un dovere del personale. Prova ne sia che la normativa vigente (l. 244/’07., legge finanziaria 2008) prevede la predisposizione e l’attuazione da parte della pubblica amministrazione di appositi Piani della formazione. Questi presuppongono una mappatura costante delle competenze possedute dai singoli dipendenti, individuando successivi percorsi di sviluppo atti alla valorizzazione, al miglioramento delle attitudini personali di ciascuno.
Da ultimo, il benessere del personale dell’ente pubblico deve essere salvaguardato non solo sotto l’aspetto cui si è fatto cenno (quello motivazionale e psicologico), ma anche sul piano materiale, cercando soluzioni logistiche decorose e funzionali, propedeutiche al miglioramento delle prestazioni di ognuno.
L’esame del fattore risorse umane non può concludersi senza fare cenno ad un argomento di stretta attualità: la valutazione del merito delle persone.
Partendo dal vertice (dirigenza) e scendendo nella scala gerarchica del personale pubblico è essenziale sviluppare un processo di valutazione delle performance di ciascuno.
La retribuzione dirigenziale è composta da una parte fissa (retribuzione di posizione) e da una parte variabile (retribuzione di risultato). Quest’ultima è la risultanza finale di un procedimento valutativo dell’operato del dirigente.
In estrema sintesi (e rinviando a mio precedente scritto (3)) il procedimento di pianificazione, programmazione e controllo comporta l’individuazione di una serie di obiettivi che ogni dirigente è chiamato a raggiungere nel periodo di riferimento. A tal fine, l’attività gestionale viene suddivisa in varie fasi (azioni) alla cui conclusione avverrà il confronto tra i risultati effettivamente raggiunti e quelli previsti. Minori saranno gli scostamenti tra i due parametri e migliore sarà stata l’azione svolta dal dirigente e, di conseguenza, maggiore sarà la retribuzione di risultato.
Nella pratica, è opportuno che gli esiti concreti della gestione siano monitorati nel corso del periodo (annuale) di riferimento, ad intervalli di tempo prestabiliti, avvalendosi di un sistema di indicatori (di efficienza, efficacia, economicità, ecc.) che consentano di fare il punto “in corso d’opera” e, quindi, di adottare, se necessario, misure correttive dell’azione o di rimodulare gli obiettivi stessi.
Svariati possono esser i metodi su cui costruire il processo di valutazione del personale (attualmente assume una particolare diffusione il Common Assessment Framework, C.A.F., frutto della collaborazione di Ministri e Direttori Generali delle Funzioni Pubbliche a livello europeo), ma unica è la finalità: individuare i più meritevoli ed i meno meritevoli, premiando i primi e stimolando i secondi a migliorare le performance in futuro.
Come si è detto, si parte dalla dirigenza, ma è essenziale che l’attività valutativa sia estesa a tutto il personale. Solo in tal modo le “correnti positive” scaturenti dall’azione del gruppo, sotto il coordinamento del dirigente, potranno propagarsi ed ampliarsi all’interno dell’intera struttura burocratica di riferimento. Solo così, d’altra parte, potranno essere smorzate sul nascere posizioni conflittuali che possono insorgere tra il personale, minando il rendimento dell’intero gruppo.
Alla comunicazione interna ed al benessere interno si aggiungono la comunicazione ed il benessere esterni.
La comunicazione esterna, con gli interlocutori dell’ente pubblico (cittadini, associazioni dei consumatori, stakeholders) è uno strumento imprescindibile per la creazione di un circuito virtuoso che unisce, invece di contrapporre (come sovente accadeva in passato), il settore pubblico alla realtà sociale in cui esso opera.
Un primo strumento innovativo di comunicazione, introdotto dal d.lgs. 29/’93, è costituito dagli uffici relazione con il pubblico (U.R.P.). La previsione della costituzione di tali uffici da parte degli enti pubblici ha avuto luogo per favorire quel processo di trasparenza della cosa pubblica che si è sviluppato negli anni ’90 e, nel contempo, allo scopo di creare un elemento di raccordo tra le unità organizzative degli enti (i singoli uffici) e la cittadinanza.
Tra le varie funzioni svolte dagli U.R.P. va evidenziata quella di guida per il cittadino ad orientarsi nella individuazione della normativa che disciplina l’erogazione dei servizi pubblici, nell’individuazione delle modalità di accesso alla fruizione dei servizi, ma anche quella di percezione del grado di soddisfazione dell’utenza rispetto all’output dell’ente e, quindi, di trasmissione agli uffici competenti dei segnali negativi (reclami) che devono essere analizzati per un successivo sforzo di miglioramento .
Altra essenziale funzione degli U.R.P. è quella di struttura che può facilitare l’esercizio da parte dei cittadini del diritto di accesso alla documentazione amministrativa, previsto dall’art. 22 della l. 241/’90 e s.m.i..
A questo primo elemento chiave della comunicazione pubblica la l. 150/’00 ne ha aggiunti altri due: l’ufficio stampa e il portavoce.
La presa di coscienza dell’importanza che assume nell’odierna società la comunicazione pubblica ha determinato la previsione da parte del suddetto atto legislativo di uno specifico strumento di programmazione delle attività comunicative che l’ente pubblico porrà in essere nel periodo di riferimento: il Piano della comunicazione, la cui predisposizione è il frutto della cooperazione del responsabile dell’U.R.P., del responsabile dell’ufficio stampa e del portavoce.
Svariate sono le finalità perseguite dall’ente con l’attività di comunicazione esterna: far conoscere la propria organizzazione ed i progetti in itinere; facilitare l’accesso ai servizi e documenti dell’ente; acquisire informazioni sui bisogni dell’utenza e sull’evoluzione delle preferenze della stessa; sensibilizzare l’opinione pubblica su temi di rilevante importanza sociale, ecc..
Molteplici sono i mezzi attraverso i quali la comunicazione pubblica si realizza: scritti (lettere ai cittadini, opuscoli informativi, pubblicazioni sui quotidiani, invio di questionari, ecc.); verbali (conferenze stampa, interviste, ecc.); audiovisivi (messaggi televisivi o radiofonici; fortografie, ecc.) tecnologici (messaggi telefonici, e-mail, ecc.).
Tra questi ultimi, di fondamentale importanza è la costituzione di un portale internet istituzionale dell’ente.
Negli ultimi anni i siti istituzionali degli enti pubblici hanno formato oggetto di attenzione da parte di un sempre più cospicuo numero di cittadini.
Le caratteristiche di tale strumento sono in costante evoluzione. Dopo una prima fase in cui prevaleva una funzione di “vetrina”, essendo i siti istituzionali strutturati per una comunicazione unidirezionale (=l’ente faceva conoscere al cittadino i propri servizi e la propria struttura), si è passati ad una seconda fase in cui si è realizzato un primo embrione di dialogo concreto con l’utenza, attraverso la possibilità di cittadini di inoltro all’ente di messaggi di posta elettronica. Un ulteriore sviluppo (il c.d. terzo livello) è stato rappresentato dall’”interazione a due vie”, ad es. con la compilazione di formulari da parte dell’utenza, la creazione di liste di discussione su specifici temi, ecc.
Il livello ulteriore è dato dalla erogazione direttamente on line di servizi all’utenza, cui si accompagna la possibilità per quest’ultima di effettuare pagamenti on line alla pubblica amministrazione, a fronte di servizi erogati dietro corrispettivo.
Come si vede, le potenzialità dell’uso del web sono molto vaste ed i benefici in termini di semplificazione della “vita amministrativa” del cittadino notevolissime.
Ma, oltre a questi, forse anche maggiori sono i benefici che l’ente pubblico può ricevere in relazione al grado di soddisfazione sia attesa che percepita dall’utenza rispetto ai servizi in concreto erogati.
In tal senso, la p.a. viene a disporre di un formidabile strumento per un monitoraggio costante del grado di fiducia che gode da parte dell’utenza, utile ad orientarsi verso una sempre maggiore qualità dell’output e, nel caso delle amministrazioni più evolute, utile ad anticipare le tendenze dei bisogni dell’utenza e, talvolta, ad influenzarne i successivi sviluppi.
Date le potenzialità dei siti istituzionali cui si è fatto cenno, assume un carattere cruciale l’abilità nella loro costruzione e nel costante aggiornamento dei contenuti.
E a tal fine indispensabile che l’home page – che costituisce il primo e fondamentale impatto che il navigatore in internet ha con il sito – sappia riassumere il contenuto, le tematiche poste all’attenzione dell’utente, indirizzandolo subito verso gli argomenti che più lo interessano.
A tal fine, è preferibile la massima concisione sull’oggetto della comunicazione, l’utilizzo di un linguaggio semplice ed accessibile a tutti (prescindendo, quindi, dal grado di istruzione) e l’osservanza di regole di impostazione grafica specifiche e differenti rispetto a quelle in uso nelle comunicazioni cartacee, anche in ragione del diverso grado di difficoltà di lettura che caratterizza il web rispetto alla tradizionale carta stampata.
Non meno importante è la cura costante dei contenuti del sito e, quindi, l’aggiornamento degli stessi. Una volta data una certa impostazione al sito, è essenziale seguirne i contenuti, le informazioni ed i messaggi offerti all’utenza.
La quantità di informazioni fornite non deve causare la perdita di controllo delle stesse: il contenuto di ogni pagina del sito deve sempre esser monitorato, pena il rischio di offrire informazioni non più attuali o, peggio ancora, fuorvianti per l’utenza. Ne va dell’immagine e della credibilità dell’ente, due valori che devono essere tenuti costantemente elevati.
4. Considerazioni conclusive
La pubblica amministrazione costituisce un fattore importante dello sviluppo economico del Paese. Essa occupa una cospicua percentuale della forza-lavoro italiana, erogando beni e servizi di vario tipo, atti a far fronte ai bisogni dei privati cittadini, ma anche del settore produttivo.
Da diversi anni la presa di coscienza di tale realtà ha dato origine ad una nuova visione del settore pubblico e di ciò che produce, nella quale emerge la ricerca sempre maggiore di qualità dell’output.
Una maggiore qualità potrà derivare da una nuova impostazione organizzativa: non più il ricorso a strutture di tipo piramidale, nelle quali l’uomo è considerato un qualsiasi fattore di produzione (=l’uomo in funzione dell’organizzazione), ma strutture in cui la persona faccia emergere e sviluppi le personali attitudini, diventando l’attività lavorativa uno strumento di autorealizzazione (=l’organizzazione in funzione dell’uomo).
Attualmente nel mondo aziendale, ma anche – seppur in minor misura – nelle p.a. gli impiegati, i quadri ed i dirigenti cercano sempre più la soddisfazione personale, non solo in termini economici, ma anche in termini di arricchimento del bagaglio professionale, di base per il proprio sviluppo di carriera. Per questo motivo è sorto – soprattutto ai più alti livelli professionali – un fenomeno definito di “nomadismo” (4), cioè la disponibilità delle persone a cambiare spesso lavoro in vista delle suddette esigenze. In quest’ottica, ognuno tende a divenire “imprenditore di sé stesso”.
Ecco quindi che l’abilità del datore di lavoro non è solo nel selezionare, reclutare le migliori professionalità, ma nel favorirne lo sviluppo e creare un clima ottimale per una sempre più elevata qualità delle relative performance.
Altra caratteristica della nuova impostazione organizzativa è l’abbandono della vecchia visione del lavoratore come “dipendente” e lo sviluppo del rapporto lavorativo in termini di collaborazione (=lavorare insieme).
Nell’ambito del lavoro pubblico si è creato in passato un sistema di classificazione professionale molto rigido, basato su una pluralità di qualifiche funzionali, quasi una sorta di “ingessatura” del personale, confinato nello svolgimento di attività minuziosamente individuate tramite le mansioni.
Le innovazioni nel lavoro pubblico introdotte negli anni ’90 hanno attenuato tale criticità (si pensi, ad esempio, al nuovo sistema di classificazione del personale degli enti locali introdotto dal C.C.N.L. del 31.3.’99, caratterizzato dalla sostituzione delle qualifiche funzionali ad opera di un minor numero di categorie).
Ciò che emerge è l’esigenza che ogni lavoratore più che essere uno specialista in un ristretto ambito di attività, deve per così dire “saper fare di tutto e di più”. Un obiettivo questo che può essere raggiunto solo con il processo di formazione continua di cui già si è detto.
La suddetta versatilità del lavoratore può trovare un momento di esaltazione nel costante confronto con i colleghi. Ritengo, pertanto, opportuna l’implementazione nella p.a. della prassi di costituire gruppi di lavoro caratterizzati dalla flessibilità (=destinati ad esistere temporaneamente) per affrontare particolari problematiche che di volta in volta possono porsi all’attenzione dell’ente.
E’ in tali gruppi che potrà realizzarsi quella diffusione delle competenze e delle conoscenze, che in tal modo cesseranno di essere un patrimonio del singolo e diventeranno un patrimonio permanente dell’organizzazione.
Negli ultimi anni si è avuta una proliferazione di interventi normativi tesi a costruire una p.a. di maggiore qualità. Affinché tale obiettivo si concretizzi “serve un radicale cambiamento di cultura. Da parte della burocrazia e anche dei cittadini. I burocrati devono essere trasformati da soggetti passivi in soggetti attivi della trasformazione della pubblica amministrazione. Dal dipendente neoassunto fino al più alto funzionario statale, tutto il personale pubblico deve avvertire l’importanza del suo ruolo: essere al servizio dei cittadini e, quindi, del Paese e non pensare soltanto a nascondersi dietro le tante contraddizioni della pubblica amministrazione, spesso alimentate o giustificate dalle stesse contraddizioni della politica. E, per svolgere questa missione, lo “statale” non può più evitare di responsabilizzarsi, chiedendo, legittimamente, di essere premiato per i propri meriti. I cittadini, da parte loro, devono pretendere che i loro diritti vengano rispettati, ma devono anche smetterla di considerare soltanto in termini spregiativi l’addetto allo sportello, il dipendente dell’ente pubblico o l’insegnante.
Il cambiamento culturale si può realizzare soltanto ponendo fine alla lunga stagione del sospetto: il burocrate deve dimostrare di meritare fiducia e l’utente deve essere capace di nutrirla” (5).
In conclusione e volendo riassumere: viviamo in un periodo storico caratterizzato da una notevole incertezza, che determina una continua evoluzione delle problematiche che si presentano agli enti pubblici. Tali problematiche potranno esser fronteggiate efficacemente solo abbandonando schemi organizzativi ormai vetusti, caratterizzati da un forte sviluppo in senso verticale (enfatizzando la gerarchia) ed assumendo sempre di più strutture organizzative sviluppate in senso orizzontale (ispirate da valori di condivisione e di democrazia). Il successo di tale cambiamento culturale dell’organizzazione non potrà prescindere da un corrispondente cambiamento di mentalità di tutti i soggetti che ne fanno parte.
Molto pertinentemente è stato osservato che “l’essere ancora lontani dal promuovere realmente la centralità della persona dipende principalmente dal fatto che i modelli di management, ancor oggi, sono troppo legati ai loro paradigmi storico-culturali, alla prescrizione e al controllo, che poco o nulla lasciano all’individualità, all’espressione della soggettività e all’emozione” (6).
Dott. Giuliano Lentini
Funzionario amministrativo presso la Provincia di Taranto.
NOTE:
1. Sull’argomento cfr. Giuliano Lentini, “I controlli negli enti locali: evoluzione storica e prospettive future”, in Diritto e Diritti, Rivista giuridica on line (
www.diritto.it), 2.10.2008.
2. Cfr. Giuliano da Empoli, “Overdose. La società dell’informazione eccessiva”. Ed. Marsilio 2002.
3. Giuliano Lentini, op. cit. alla nota 1.
4. In tema v. Giuliano da Empoli, “La guerra del talento. Meritocrazia e mobilità nella nuova economia”. Ed. Marsilio 2000.
5. Marco Rogari, “Burocrazia fuorilegge. Peripezie di cittadini e imprese assediati dal “gigante di carta bollata””, Sperling & Kupfer 2001.
BIBLIOGRAFIA:
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– Raffaella Maggiore, “Organizzazione e management nell’Ente locale: superamento della cultura legalistica in una prospettiva di gestione manageriale”, in Nuova Rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 5/2008, Noccioli Editore.
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Fabrizio Maimone, “Dalla rete al silos: complessità organizzativa, innovazione, gestione della conoscenza”, in
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Carlo Mazzucchelli, “Organizzazioni e complessità: come affrontare il cambiamento con nuovi strumenti, metafore, modelli e teorie organizzative” in
www.complexlab.com.
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Giuseppe Panassiddi, “La riforma della P.A.: un progetto da rilanciare”, in
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– Alberto Stancanelli, “ Valutazione e merito nelle pubbliche amministrazioni: un obiettivo possibile”, in www.nelmerito.com.
– Al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione" demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia
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