Gli “studi di settore” (D.L. n. 331/93, convertito con modifiche nella L. n. 427/93) sono stati istituiti dal Legislatore con l’intento di porre rimedio alle problematiche insorte dall’applicazione dei coefficienti presuntivi di cui all’art. 11 del D.L. n. 69/89 (convertito con modifiche nella L. n. 154/89).
Tutti i contribuenti, interessati dalla loro applicazione, vivono tale strumento con grande e viva preoccupazione, perché organizzare una valida ed efficace difesa in giudizio è difficile e richiede una grande perizia da parte di chi li rappresenta davanti il Giudice tributario.
L’art. 62 sexies introduce gli “studi” come strumento di accertamento analitico con presunzione di cui all’art. 39, co. 1, lett. D), del DPR 600/73 e all’art. 54, co. 2, ultima parte, del DPR 633/72.
Il comma 3 del citato art. 62-sexies, infatti, dispone che <<Gli accertamenti di cui agli
articoli 39, primo comma, lettera d ), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, e
54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’
art. 62- bis del presente decreto>>.
Il legislatore con gli studi di settore vuole raggiungere il fine di determinare il compenso potenziale di professionisti o il ricavo probabile di imprese in funzione di variabili contabili e di variabili strutturali interne ed esterne, per indurli all’adeguamento spontaneo già in sede di dichiarazione oppure successivamente in sede di accertamento con adesione.
Gli studi di settore consentono di verificare i contribuenti relativamente a due diversi aspetti; quello della congruità e della coerenza.
I contribuenti quando dichiarano compensi o ricavi pari al valore puntuale di riferimento sono congrui; in caso contrario il software indica un intervallo di confidenza (tra il valore puntuale e quello minimo ammissibile) entro il quale lo scostamento è possibile.
Il contribuente nella prima ipotesi non può essere assoggettato ad accertamento; nella seconda ipotesi, può essergli richiesto di giustificare il mancato adeguamento al valore di riferimento.
Il contribuente, indipendentemente dalla congruità, può essere o meno coerente a seconda se gli indicatori economico e contabili si collocano tra il valore minimo e quello massimo dell’intervallo degli indicatori stessi in condizioni di normalità.
L’Ufficio finanziario quando il contribuente non risulta congruo procede ad accertamento attraverso l’istituto dell’accertamento con adesione.
Gli uffici del fisco sostengono che gli studi di settore hanno valore di presunzione relativa e in presenza dei presupposti di cui all’art. 10 della l. 146/98 possono essere posti a fondamento degli avvisi di accertamento senza che gli stessi siano tenuti a fornire altre dimostrazioni in ordine alla motivazione della loro pretesa (in proposito si veda la circolare n. 58/e del 2002).
La giurisprudenza di merito, al contrario, attribuisce agli studi di settore un valore di presunzione semplice, carente dei requisiti di precisione, concordanza e gravità; con la conseguenza che, in assenza di ulteriori elementi assunti dall’ufficio per suffragare la pretesa, gli studi di settore non possono da soli integrare la prova dell’evasione (si veda da ultimo anche corte di cassazione sentenza 17229 del 28/07/06).
La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con sentenza n. 17229 del 28.7.2006 ha statuito che è vano invocare uno studio di settore, che ha struttura oggettiva e soggettiva categoriale e, quindi, di genere, come strumento idoneo a regolare, di per sé, un caso di specie ultima, se nella fase procedimentale amministrativa che va dalla dichiarazione tributaria all’avviso d’accertamento non si sia svolto alcun contraddittorio tra l’Ufficio tributario ed il contribuente, in modo da consentire a quest’ultimo di intervenire già in sede amministrativa per vincere la mera praesumptio hominis costituita dagli studi di settore.
La Suprema Corte, ha elaborato tale principio, quando era stata chiamata a decidere su un ricorso proposto dall’Ufficio finanziario avverso la decisione della Commissione tributaria Regionale che aveva accolto la tesi del contribuente d’illegittimità dell’accertamento fondato su “rese” scaturite da studi di settore, le quali, quindi, prescindevano totalmente dalla realtà aziendale.
L’Ufficio finanziario difronte a questa specifica contestazione della Commissione tributaria si era limitato semplicemente a riaffermare che gli studi di settore utilizzati riguardavano la specifica realtà nella quale s’inseriva l’azienda.
La Suprema Corte, con la sopra citata sentenza, ha ritenuto le allegazioni dell’amministrazione finanziaria <<affermazioni generiche e, quindi, inidonee a contestare l’accertamento dei fatti operato dal giudice di merito e la logicità della sua valutazione dei fatti accertati>>.
La Corte ha ancora affermato che <<Né, data la natura di atti amministrativi generali di organizzazione, rivestita dagli studi di settore previsti dal
D.L. 30 agosto 1993, n. 321, art. 62 bis, convertito in
L. 29 ottobre 1993, n. 427, li si possono considerare sufficienti perché l’ufficio tributario operi l’accertamento di un rapporto giuridico tributario di specie ultima, senza che l’attività istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi della
L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario, di vincere la mera praesumptio hominis costituita dagli studi di settore>>.
La Corte, dalla lettura degli atti di causa, accertato che, nella fase procedimentale amministrativa che va dalla dichiarazione tributaria all’avviso d’accertamento, tra ufficio tributario e contribuente non s’era svolto alcun contraddittorio, ha dichiarato che << è vano invocare uno studio di settore, che ha struttura oggettiva e soggettiva categoriale e, quindi, di genere, come strumento idoneo a regolare, di per sé, un caso di specie ultima. In questo senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte nelle
sentenze: 3 maggio 2005, n. 9135;
23 giugno 2003, n. 9946;
27 settembre 2002, n. 13995>>.
La Corte di Cassazione, per le considerazioni sopra svolte, ha deciso per il rigetto del ricorso proposto dall’Ufficio finanziario.
La Suprema Corte di Cassazione, sezione tributaria, con sentenza n. 5977 de 2007 ha statuito che il D.L. n. 331 del 1993, cit., articolo 62 sexies, dispone fra l’altro, al terzo comma, che gli accertamenti in materia di IVA, condotti ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, articolo 54, "possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore", cui si riferisce il precedente articolo 62 bis. In virtù di tale norma, l’ufficio è quindi autorizzato – allorché ravvisi "gravi incongruenze" fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli "studi di settore" – a procedere all’accertamento induttivo anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 54 citato e, in particolare, anche in presenza di una tenuta formalmente regolare della contabilità: il che costituisce una ulteriore deroga, in materia di accertamento, ai limiti fissati da detto articolo 54, con la conseguente ammissibilità dell’accertamento induttivo oltre le ipotesi già previste dal successivo articolo 55, e cioè anche in presenza di contabilità formalmente regolare. D’altronde, i cosiddetti studi di settore, introdotti dal D.L. n. 331 del 1993, articoli 62 bis e 62 sexies, direttamente derivanti dai "redditometri" o "coefficienti di reddito e di ricavi" previsti dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in L. 27 aprile 1989, n. 154, idonei a fondare semplici presunzioni (praesumptiones hominis), sono da ritenere "supporti razionali offerti dall’amministrazione al giudice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato o ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti" (Cass. n. 9135/2005). I dati in tal modo presunti possono, pertanto, essere utilizzati dall’ufficio, anche in contrasto con le risultanze di scritture contabili regolarmente tenute, finché non ne sia dimostrata l’infondatezza mediante idonea prova contraria, il cui onere è a carico del contribuente (Cass. nn. 14161/2003, 10350/2003, 5794/ 2001, 11300/2000 ed altre precedenti).
L’ufficio finanziario, tuttavia, ai sensi dell’art. 10, co. 3-bis, della L. 146/98 (Studi di settore), prima di procedere ad accertamento ha l’obbligo di invitare il contribuente al contraddittorio nell’ambito dell’Istituto dell’accertamento con adesione. (art. 5, D.Lgs. 219/97).
Questo obbligo è stato esteso dal D.L. 223/06 (decreto Bersani-Visco) anche per le imprese con contabilità semplificata.
E’ da dire che già gli Uffici finanziari invitavano i contribuenti in contabilità semplificata, come loro indicato dalla Circolare n. 25/E del 2001.
Il contribuente in sede di contraddittorio può addurre fatti e circostanze di vario tipo e genere per giustificare lo scostamento dalle risultanze dello “studio”. Il contribuente può, per l’appunto, indicare elementi che hanno alterato il normale andamento dell’attività o il suo ordinario svolgimento, come ad esempio la malattia o assenza del titolare e/o il suo stato di avanzata anzianità; la vetustà e l’obsolescenza dei beni strumentali; la localizzazione nei pressi di mercati rionali o in presenza della grande distribuzione; ecc.
Dal quadro normativo e giurisprudenziale si possono trarre le seguenti conclusioni:
che il contraddittorio tra le parti, oltre ad essere obbligatorio per previsione di legge, deve essere reale e sostanziale e non risolversi in un mero e semplice invito formale, dove al contribuente si contestano risultati scaturiti dall’applicazione di studi di settore che non tengano conto né della situazione reale della sua attività né delle argomentazioni a difesa svolte dallo stesso;
che l’avviso di accertamento fondato sugli studi di settore, tutte le volte in cui è instaurato il contraddittorio –sia esso formale o sostanziale- è illegittimo se non contiene una motivazione, fondata su indizi idonei a corroborarne la fondatezza, e un adeguato ragionamento che consenta di spiegare per quali ragioni le elaborazioni statistiche, spesso sconosciute al contribuente, dello studio di settore astrattamente riferibili ad un soggetto corrispondano alla sua effettiva situazione;
che l’avviso d’accertamento derivante esclusivamente dall’applicazione degli studi di settore è fondato quando il ricorrente non giustifica, a seguito d’invito dell’ufficio al contraddittorio, le ragioni dello scostamento;
che le incongruenze verificate e motivate, emergenti dall’applicazione dello studio di settore, ove non trovino una ragione evidente e convincente d’infondatezza, devono considerarsi non più presunzioni ma prove di una capacità contributiva non dichiarata e legittimano l’accertamento dell’ufficio.
Francesco Lucifora
Avvocato e Giudice tributario presso la Commissione tributaria provinciale di Ragusa.
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