Condividendo l’opzione metodologica avanzata da Antonio Negri in “Fabbrica di Porcellana”[1] (l’intitolazione come fase costitutiva nella scrittura giuridico-filosofica), il testo di Andrea Porciello[2] appare significativo nelle sue scelte stilistico-espressive. Il diritto come ordinamento che finisce per misurarsi con istanze extragiuridiche o metagiuridiche; la decisione come dispositivo sottoposto, da un lato, a un test di effettività che si svolge nell’ambiente sociale e, dall’altro, a un ricorso almeno motivazionale a procedure di giustificazione. Queste consentono di trasgredire la statuizione per ragioni del destinatario (obiezione di coscienza), per (in)fedeltà a principi fondamentali (diritto di resistenza) o di accettarla o in via strumentale (subordinazione a un bene comune o individuale) o per adesione sostanziale all’assiologia del sistema (meccanismo largamente sperimentato -e imposto!- negli Stati confessionali e in quelli autoritari[3]).
Dopo una introduzione coerente nel prospettare il dibattito fondamentale sulle posizioni metaetiche, in una ottica giuridica laico-civile[4], Porciello si propone una più corretta e qualificata predisposizione della ricerca[5], attraverso cui rivedere la valenza storica della stagione costituente nell’Europa Orientale[6], stigmatizzando non tanto la prospettiva pessimistico-razionale weberiana, quanto quella scettico-(a)decisionale di alcuni suoi esegeti postumi[7]. La fedeltà a questa linea si palesa in sede di conclusioni[8], con una ripresa, temperata, delle obiezioni di Taruffo[9] al proceduralismo proprio e con un’attenzione peculiare alla logica giuridica in sede argomentativa e agli utili contributi delle teorie economiche in sede di distribuzione delle risorse -qui, pare di poter capire, Porciello guarda più alle proposte equitative avanzate per parti diverse da Sen e Stiglitz che non al liberalismo proprio, fattualmente supportato dalle tesi rawlsiane[10].
Non produce incertezze metodologiche, ma un arricchimento del campo di indagine, la bifocalità strategica cui l’Autore aderisce con sempre minori remore nel corso del testo: ritenere che la critica rawlsiana agli elementi emotivistici della scelta individuale sia talvolta settaria (e qui Porciello recupera elementi di psicologia giuridico-forense, Stocker soprattutto[11]), ma che questo non sembri sufficiente per scartare a priori ogni teoria procedurale che porti nel discorso giuridico almeno qualche standard minimo di correttezza formale, di rigetto categorico delle sperequazioni irrazionali ed oppressive[12]. In questo senso, si assiste a una progressiva quadratura del cerchio che ha drammatici riflessi nell’attualità italiana: se si sceglie di legiferare sui temi “sensibili”, l’alternativa all’aut aut “cum ecclesia/contra vitam”[13] diventa necessariamente l’adozione di parametri formali codificati anche a tutela di valori sostanziali[14] (atto legislativo e non atto esecutivo; normazione generale e non normazione personale; rispetto delle scelte costituzionali e non leges praeter -o contra– Constitutionem).
Cionondimeno, le sezioni del testo scientificamente più corpose, o almeno più indicative dello “stato dell’arte”, riguardano autori specifici: non già per difetto di concettualizzazione delle altre aree dell’opera, quanto per l’enucleazione di figure fondamentali del dibattito giuridico corrente (e, in ispecie, Fuller[15], Rawls[16], Alexy[17]).
Se l’interprete ha a disposizione, nell’anno 2009, precedenti giurisprudenziali della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato… dei Tribunali Ordinari… del Giudice di Pace, ove più o meno adeguatamente la griglia applicativa del diritto vivente è “giustificata” secondo riferimenti teorici a morali, interne ed esterne, al bilanciamento dei valori, alla razionalità…[18] l’opera di Porciello ha un preciso addentellato nel “giuridico-reale”.
Domenico Bilotti
[1] “[…]Purtroppo, il titolo suonava male in francese -e quello che è esteticamente sgradevole non è mai scientificamente utile! […]”. Cfr. A. NEGRI, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, 2008, 8.
[2]A. PORCIELLO, Diritto Decisione Giustificazione. Tra etiche procedurali e valori sostanziali, Torino, 2005.
[3] Tuttavia qualunque norma disposta a prescindere dall’attenta considerazione dei suoi destinatari sortisce effetti parossistici. Cfr. B. FAEDDA, Immigrazione e religione. Tra stato laico e pluralismo religioso, in Diritto & Diritti, rivista giuridica elettronica, https://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/27866.html (“[…]il velo è diventato emblema per molti di subordinazione femminile e di mancanza di libertà, oltre che chiara espressione di una resistenza ad integrarsi nella società d’accoglienza. L’Europa ha così deciso di ‘salvare’, ‘emancipare’ e ‘liberare’ le donne subordinate, forzandole ed obbligandole a rinnegare un modo di vestire non solo legato alla religione ma anche alla propria cultura di origine. E così, sottoposti a ferrei divieti e rigidi obblighi, gli individui immigrati sarebbero finalmente ‘liberi’ di integrarsi…”; ibidem); dall’altra parte un’inquietudine di fondo sembra investire la dimensione pubblicistica del problema. Cfr. M. VERGANI, Laicità dello Stato: questione di diritto o di politica?, in Diritto & Diritti, rivista giuridica elettronica, https://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/21396.html.
[4]A. PORCIELLO, Diritto Decisione Giustificazione, cit., 3.
[5]A. PORCIELLO, Diritto Decisione Giustificazione, cit., 26-32.
[6] Cresce significativamente l’attenzione scientifica alle connessioni tra i primi risultati di quella stagione costituente e l’esercizio del diritto di libertà religiosa in Paesi che, formalmente o a livello di coazione politica, un tempo accettavano dottrine come l’ateismo di Stato, di derivazione marxista-leninista. Illuminanti sul punto: G. CASUSCELLI, Stati e religioni in Europa: problemi e prospettive, in Stato Chiese e Pluralismo Confessionale, Rivista Telematica (http://www.statoechiese.it), Giugno 2009; M. VENTURA, La laicità dell’Unione Europea. Diritti, Mercato, Religione, Torino, 2001; G. CIMBALO, Problemi e modelli di libertà religiosa individuale e collettiva nell’Est Europa: contributo a un nuovo diritto ecclesiastico per l’Unione Europea, in Stato Chiese e Pluralismo Confessionale, Rivista Telematica (http://www.statoechiese.it), Novembre 2008.
[7] Ancor prima, del resto, colpiva la valutazione di Alberto Scerbo, che probabilmente discrimina nel modo più corretto l’iniziale intento, anche metodologico, weberiano e gli effetti che ne sono sortiti: “[…]L’interesse perseguito è il superamento del modello dell’impatto, posto a sostegno dell’etica religiosa come di quella utilitaristica, che ha indirizzato in modo preciso la delineazione dei rapporti tra politica ed economia. In questo senso un tentativo di particolare rilievo proviene dalle pagine di Weber. Giulio Chiodi, nel rilevare la fondamentale importanza rivestita dalla secolarizzazione nell’ambito della modernità, sottolinea che questo processo, articolato e complesso, ruota intorno a due distinte tipologie di residui storici, coincidenti con la suddivisione storica tra cattolicesimo e protestantesimo. […]Si assiste, di conseguenza, al capovolgimento di posizione gerarchica tra individuo e comunità e ad un mutamento di direzione in ordine alla continuità ideale tra interesse individuale e interesse comune […]” in A. SCERBO, Giustizia Sovranità Virtù, Soveria Mannelli, 2004, 85-87.
[8]A. PORCIELLO, Diritto Decisione Giustificazione, cit., 137-144.
[9] Cfr. M. TARUFFO, Giustizia, procedure e processo, in Ragion Pratica, 1997/9, 145-149.
[10] Benché l’Autore sostenga un’opzione redistributiva che unisce elementi liberal-democratici veicolati da Sen a spunti autenticamente mutualistici ispirati a una visione maggiormente pragmatica della microfinanza, ne risulta attutito il rilievo conflittualistico delle tesi propugnate da Stiglitz. Cfr. A. SEN, Risorse, valori, sviluppo, Torino, 1992; M. YUNUS, Un mondo senza povertà, Milano, 2008; J. STIGLITZ, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, 2002.
[11] Nonostante la prospettiva di Stocker non miri a rinvenire e ad analizzare un quid proprium della psicologia giudiziaria (sul punto allora potrebbero aiutare: G. GULLOTTA, M. ZETTIN, Psicologia giuridica e responsabilità, Milano, 1999; poscia: G. GULLOTTA, L. PUDDU, La persuasione forense. Strategie e tattiche, Milano, 2004), essa tuttavia recupera elementi soggettivistici nella valutazione delle scelte. Cfr., specie, come sottolineato dal Porciello, nei termini dell’attenzione alle “strutture motivazionali” della decisione, M. STOCKER, Plural and conflicting values, Oxford, 1990.
[12] Cfr., assumendo un punto di vista meno strutturato, A. PORCIELLO, Diritto Decisione Giustificazione, cit., 98-99.
[13] Appare del resto inconfutabile che questo “aut aut” tenda a strutturarsi in modo così peculiare all’interno della nostra cultura politico-religiosa, ma che ben altro contenuto (o assenza di dualità) assuma in altri contesti antropologici, giuridici, filosofici e confessionali. Cfr. per tutti S. FERRARI, A. NERI, Introduzione al diritto comparato delle religioni, Pescantina, 2007.
[14] Non che questi spunti non innervino coraggiosamente il dibattito anche all’interno della scienza canonistica. Cfr. A. MANTINEO, La Chiesa nella società contemporanea. Ripensando a Rahner: echi teologici e profili canonistici, in OLIR, Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (http://www.olir.it), Giugno 2005.
[15]A. PORCIELLO, Diritto Decisione Giustificazione, cit., 33-61.
[18] Sempre riguardo ad anni di “crisi della socialdemocrazia” e -contemporaneamente!- di crisi della giustizia, come ideale ma anche, e non meno drammaticamente, in quanto sistema articolato di procedure giudiziarie, suonano profetiche le parole di Massimo La Torre riferite al giurista, social-democratico, Heller: “[…]per Heller è il potere, come decisione e forza coattiva, il fatto fondante e primigenio del diritto. È l’equazione illecita tra Stato e diritto e dunque il tentativo di spersonalizzare radicalmente l’intero ordinamento giuridico, ciò che il Nostro non può accettare della ingegnosa costruzione kelseniana. Quell’equazione e quella spersonalizzazione gli sembrano stratagemmi per occultare il conflitto di classe e dunque tranquillizzare la coscienza del giurista pratico, del giudice per esempio, il quale certo non gradirebbe d’esser segnato a dito come uno strumento del dominio di classe borghese, oppure per celare agli sfruttati la loro reale condizione di oppressi, di individui soggetti alla violenza dello sfruttamento capitalista. Per Heller il diritto è innanzitutto potere, comando d’un soggetto materiale, fisico, ben preciso, il quale esige obbedienza incondizionata. Ciò -si badi- non implica la tesi della subordinazione della dimensione politica a quella economica, che difatti Heller rifiuta […]” in M. LA TORRE, La crisi del Novecento. Giuristi e filosofi nel crepuscolo di Weimar, Bari, 2006, 102.
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