Lo Stato italiano con legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria per il 2003) concedeva ai contribuenti la possibilità di integrare le dichiarazioni –relativamente ai periodi d’imposta per i quali i termini per la loro presentazione erano scaduti- ai fini delle II.DD., Iva, ecc., con il pagamento dei maggiori importi dovuti e a condizione che gli stessi si avvalessero della definizione di cui all’art. 9-bis. (art. 8) e quella di definire automaticamente tutte le imposte, per tutti i periodi d’imposta per i quali i termini per la presentazione delle relative dichiarazioni erano scaduti al 31.12.2002, con il versamento per ciascun periodo d’imposta di un importo compreso tra il 4 e l’8% delle imposte lorde, per Irpef, addizionali, Irap, ed ai fini Iva dall’1 al 2% dell’imposta relativa alla cessione dei beni e alla prestazione dei servizi effettuate dal contribuente (art. 9).
Altre agevolazioni (inapplicabilità delle sanzioni) erano anche concesse dall’art. 9-bis, per la definizione dei ritardati od omessi versamenti, dall’art. 12, per la definizione dei carichi di ruoli pregressi, e dall’art. 16, per la chiusura delle liti fiscali pendenti.
La Commissione delle Comunità europee, in data 7.3.2006, presentò un ricorso contro la Repubblica italiana per avere, con la L. 289/02, artt. 8 e 9, rinunciato all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, violando gli obblighi ad essa imposti dagli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17.5.1977 (abrogata e sostituita, il 1° gennaio 2007, dalla Direttiva del Consiglio 28.11.2006, 2006/112/CE, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto), in combinato disposto con l’art. 10 del Trattato CE.
La Commissione, premettendo che gli Stati membri hanno l’obbligo di dare attuazione alla Sesta direttiva Iva -che impone ai contribuenti di pagare l’imposta a seguito dell’effettuazione di operazioni imponibili e agli Stati di porre in essere una efficace azione di accertamento e di controllo finalizzata ad assicurare una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri- riteneva che le norme introdotte dagli artt. 8 e 9 fossero andate al di là del margine discrezionale concesso agli stessi dal legislatore comunitario, in quanto lo Stato italiano aveva effettuato una vera e propria rinuncia generale, indiscriminata e preventiva ad ogni attività di accertamento e verifica in materia di Iva, contravvenendo in tal modo alle prescrizioni degli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva Iva.
Lo Stato italiano, secondo la Commissione, avrebbe offerto ad ogni soggetto passivo Iva la possibilità di escludere l’eventualità di ogni controllo fiscale, attraverso il pagamento di una somma forfetaria che nulla aveva più a che vedere con l’Iva che sarebbe stata dovuta sul prezzo delle cessioni di beni o prestazioni di servizi effettuate dal soggetto passivo nel periodo considerato.
Secondo la Commissione, la rinuncia ad ogni attività di verifica creava gravi distorsioni nel funzionamento del sistema comune dell’Iva, alterando il principio di neutralità fiscale, il quale si oppone a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati diversamente sotto il profilo della percezione dell’Iva, risolvendosi sia in un grave pregiudizio per le imprese tanto italiane che di altri Paesi membri sia in una grave lesione del principio di una sana concorrenza all’interno del mercato comune, enunciato nel quarto <<considerando>> della Sesta direttiva.
La Repubblica Italiana, nella causa C-132, a propria difesa, sostenne che l’effetto del “Condono” non si risolveva in una rinuncia generale ed indiscriminata ad ogni attività di verifica, che solo una parte limitata dei contribuenti Iva si era avvalsa del condono e che lo stesso condono era stato produttivo in termini di tributi recuperati, con uno sfruttamento razionale di risorse limitate; in definitiva, sostenendo di essersi mossa entro i limiti di quella discrezionalità concessa agli Stati membri.
L’Avvocato generale della CE, nelle sue conclusioni nella Causa C-132, condivise, facendole proprie, le argomentazioni della Commissione, in quanto rilevava dai “considerando” della Sesta direttiva che “emerge (va) tra gli altri, che le risorse proprie della Comunità comprendono anche quelle provenienti dall’Iva e che gli obblighi dei contribuenti debbono essere armonizzati, per assicurare le garanzie necessarie a una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri”. Lo stesso Avvocato, ha anche ricordato che la Corte aveva già dichiarato che la Sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale, che è inerente al sistema comune della Iva, il quale si oppone a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati diversamente in materia di riscossione della Iva; che gli obblighi imposti agli Stati membri (art. 22 Sesta direttiva) per la riscossione della Iva costituiscono il corollario del principio di cui all’art. 2 (stessa direttiva), secondo il quale, in mancanza di una specifica esenzione, tutte le operazioni rientranti nel suo ambito di applicazione devono essere soggette ad imposta, e nessuno Stato può drogarne unilateralmente; cosicché, l’Iva sia interamente percepita nel suo territorio esattamente come si verifica in altri Stati membri.
L’Avvocato generale concordava, anche, con la Commissione sul fatto che una legge ai sensi della quale operatori economici onesti e diligenti versano l’Iva integralmente mentre operatori disonesti o negligenti possano eludere ogni ulteriore controllo in cambio di un pagamento, al massimo, della metà, e se possibile molto meno, dell’Iva effettivamente dovuta non è conforme agli obblighi di cui agli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva, in quanto la procedura dell’art. 9, L. 289/02, non comporta che si dichiarino operazioni effettivamente poste in essere e gli importi dovuti sono del tutto slegati dall’imposta che avrebbe dovuto essere versata a fronte di tali operazioni.
L’Avvocato generale sosteneva che il condono della L. 289/02 non contiene nessuna di quelle caratteristiche che connotano una legge di condono (e cioè l’unicità; il pagamento del dovuto, con interessi; l’incremento dei controlli) essendo stato oggetto di proroghe per alcuni anni successivi e concludeva suggerendo alla Corte di –“dichiarare che la Repubblica italiana, prevedendo in maniera espressa e generale, agli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), la rinuncia all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, ha violato gli obblighi ad essa imposti dagli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva Iva e dall’art. 10 CE; – condannare alle spese la Repubblica italiana”.
La Corte (Grande sezione), nella Causa C-132/06, il 17.7.2008, ritenendo fondato il ricorso proposto dalla Corte e condividendone le motivazioni, dichiarava e statuiva che “1) La Repubblica italiana, avendo previsto agli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, le disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003), una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 2 e 22 della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari –Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, nonché dell’art. 10 CE; 2) La repubblica italiana è condannata alle spese”.
La Corte suprema di Cassazione, nel corso del 2009, ha più volte (sent. Nn. 20068 e 20069 del 18.9.09, n. 25701 del 9.12.09) riconosciuto efficacia immediata, nell’ambito del diritto interno, alla sentenza della Corte di giustizia.
I Collegi delle singole sezioni, chiamati a pronunciarsi su ricorsi promossi avverso atti impositivi in materia di Iva, a seguito delle statuizioni della Corte di giustizia, rilevando l’esistenza di questioni di particolare importanza sull’esatta applicazione delle disposizioni riguardanti gli artt. 8, 9, 12 e 16 della L. 289/02, hanno ritenuto di dovere rimettere i ricorsi al Primo Presidente affinché valutasse l’opportunità che gli stessi fossero decisi dalle Sezioni Unite della Corte.
La Suprema Corte a Sezioni Unite (sentenze nn. 3674 e 3676 del 17.2.2010), investita delle questioni, ha deciso che il Giudice italiano deve applicare i principi contenuti nella sentenza della Corte di giustizia, con la conseguenza che dovrà decidere sulle controversie come se la “definizione” dell’imposta, ai sensi dei disposti degli artt. 8, 9 e 12, non ci fosse mai stata.
E’ bene precisare che l’illegittimità statuita dalla Corte di giustizia non incide gli aspetti procedurali della norma nazionale ma solo quelli sostanziali e riguarda l’art. 8 (integrazione degli imponibili per gli anni pregressi), l’art. 9 (condono tombale), l’art. 12 (rottamazione dei ruoli), ma non riguarda l’art. 16, in quanto quest’ultima non concerne la definizione dell’imposta –come avviene con le prime tre norme- bensì quella della lite in corso tra il contribuente ed il Fisco.
La disapplicazione delle norme sul condono alle infrazioni fiscali in materia di Iva, -considerato che la Corte di giustizia si era occupata solo degli artt. 8 e 9-poneva il quesito se la sospensione dei termini di impugnazione prevista dall’art. 16, co. 6, della stessa legge, doveva o meno applicarsi anche ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e di rettifica per il recupero dell’iva.
Le SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 3676 del 2.2.2010, depositata il successivo 17) ha statuito che le statuizioni della Corte di Giustizia non si estendono alla definizione delle liti fiscali pendenti di cui all’art. 16 della legge di condono, in quanto non incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta, costituendo invece uno strumento deflativo del contenzioso volto a garantire il recupero a tassazione di un credito tributario, la cui certezza deve essere vagliata in sede giurisdizionale.
Le SS.UU. giungono a tale soluzione partendo dalla considerazione che gli artt. 8 e 9, da un lato, e l’art. 16, dall’altro, hanno tra esse, oggetti, scopi e rationes legis assolutamente diversi, in quanto i primi due hanno riguardo alla definizione dell’imposta, mentre il terzo ha riguardo alla definizione delle liti, in funzione di una riduzione del contenzioso in atto.
Per le SS.UU., l’art. 16, per le disposizioni in esso contenute (pendenza della lite al 29.9.02; valore della lite; pagamento del 10% del valore della lite in caso di soccombenza dell’Ufficio e del 50% in caso di soccombenza del contribuente; 30% nel caso in cui non sia stata emessa ancora una sentenza) non prevede alcuna rinuncia all’accertamento dell’imposta, il cui potere è stato già esercitato, ma autorizza l’A.F. a transigere l’esito della lite a determinate condizioni, comunque positivi, e con effetti deflativi del contenzioso, con la conseguenza che non sussistono motivi per la sua disapplicazione da parte del giudice italiano.
Sulla legittimità delle disposizioni di cui al predetto art. 16, oltre alle argomentazioni sopra illustrate, non possono sorgere dubbi anche in considerazione di altre “due argomentazioni che assumono carattere decisivo: a) da un lato il principio dell’affidamento, che costituisce un valore guida dell’intero ordinamento ed è in materia tributaria specificamente affermato e garantito dall’art. 10 dello Statuto del contribuente, …; b) dall’altro, ammettere l’inapplicabilità della sospensione dei termini …, significherebbe paradossalmente paralizzare proprio l’azione dell’amministrazione in ordine al recupero dell’imposta, in evidente contraddizione con le ragioni ultime della sentenza della Corte di giustizia alla quale vorrebbe farsi ossequio”.
La sentenza della Corte di giustizia ha prodotto conseguenze anche sull’art. 12 della L. 289/02 (rottamazione dei ruoli), in base al quale i debitori possono estinguere il debito senza corrispondere gli interessi di mora e con il pagamento di una somma pari al 25% dell’importo iscritto a ruolo e delle somme dovute al concessionario a titolo di rimborso, per le spese sostenute per le procedure esecutive eventualmente effettuate dallo stesso.
Le SS.UU. (sentenza n. 3674 del 17.2.2010) sostengono che tale articolo non è “una norma che prevede la definizione agevolata dell’imposta (come le disposizioni di cui agli artt. 8 e 9, direttamente investite dalla sentenza della Corte di giustizia), né una norma che regola la definizione delle liti pendenti (come la disposizione di cui all’art. 16), ma una norma che interviene nella fase della riscossione, riducendo l’importo che il contribuente deve pagare ad una percentuale del dovuto”.
A parere delle SS.UU., la rottamazione delle cartelle, inerenti la riscossione dell’Iva, integrando i presupposti di una rinuncia definitiva dello Stato alla riscossione (cosi come la Corte di giustizia aveva ritenuto per gli artt. 8 e 9) degli importi dovuti, è incompatibile con il sistema Comune dell’Iva, perché “non risponde al principio di effettività, in quanto non garantisce la riscossione di quanto dovuto dal contribuente in esito ad un accertamento definitivo di un debito tributario per il quale è stata emessa la cartella di pagamento”.
Da tale principio discende che l’art. 12 deve essere disapplicato dal Giudice italiano, con la conseguenza che il pagamento della cartella è inefficace ad estinguere il debito tributario.
Il Giudice italiano, chiamato a dirimere controversie inerenti l’imposta sul valore aggiunto, non dovrà tenere conto della rottamazione dei ruoli, del condono tombale e dell’integrativa semplice (definizione dell’imposta), mentre dovrà dare attuazione alle altre norme che non riguardano la definizione dell’imposta, come ad esempio che riguardano la proroga dei termini (definizione delle liti pendenti).
Francesco Lucifora
Giudice presso la Commissione tributaria provinciale di Ragusa.
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