Accogliendo il ricorso della Procura di Milano, la quale aveva considerato la decisione della Corte di Appello priva della valutazione delle condizioni di sussistenza del delitto di peculato, la Suprema Corte di Cassazione ha previsto che la condotta del curatore fallimentare che si appropria del denaro dell’imprenditore fallito integra il reato di peculato e non quello di truffa.
La sentenza in commento, pertanto, costituisce un valido fondamento giuridico atto a delineare la differenza tra i due reati di peculato (art. 314 c.p.) e truffa (art. 640 c.p.).
Il peculato viene considerato come una forma di appropriazione indebita, commessa da un pubblico ufficiale, di denaro o altre utilità di cui si abbia la disponibilità a causa della carica che si riveste. A tal proposito la Cassazione ha a suo tempo rilevato che occorre una necessaria relazione tra il soggetto attivo e la cosa e tra la cosa e la Pubblica Amministrazione, indipendentemente dalla titolarità del bene, il quale può appartenere alla Pubblica Amministrazione o ad un terzo. (Cass. Pen. Sez. VI del 24/06/2004 n. 34517).
Il tutto dimostra come ai fini della configurazione del reato ex art. 314 c.p. occorra il possesso del bene che può essere inteso anche come mera disponibilità giuridica dello stesso.
Prima, però, di proseguire con l’analisi della sentenza in commento, occorre, innanzitutto, rilevare come il curatore fallimentare si inserisce all’interno dell’art. 314 c.p.
Il curatore fallimentare è considerato un pubblico ufficiale secondo l’espressa previsione dell’art. 30 Legge Fallimentare, suffragata, in aggiunta, dalla norma generale di cui all’art. 357 c.p..
Secondo tale disposizione, infatti, è innegabile che il curatore sia un organo dell’ufficio fallimentare il quale concorre alla “formazione e alla manifestazione” della volontà della Pubblica Amministrazione attraverso i suoi poteri, le istanze nonché con la costante partecipazione negoziale agli atti del fallimento.
Con la sentenza n. 3327 gli Ermellini hanno evidenziato che secondo consolidata giurisprudenza, è stata propriamente delineata la differenza tra i reati di peculato e truffa, chiarendo che per la sussistenza del primo il possesso di denaro è antecedente della condotta appropriativa, mentre nella seconda ipotesi delittuosa la condotta prevalente, attuata attraverso artifici e/o raggiri, è finalizzata a permettere al soggetto agente di acquisire il possesso del denaro stesso al fine di appropriarsene (Cass. Sez. VI 6753 del 4/06/1997).
Analizzando il fatto specifico, il curatore fallimentare si appropriava delle somme di denaro di cui aveva la disponibilità in funzione del suo ufficio. Accedeva, infatti, ai conti correnti del fallimento grazie all’autorizzazione del giudice delegato ricevendo, in tal modo, denaro dalla Banca. Di conseguenza, in qualità di curatore distribuiva tali somme ai vari creditori trattenendo, però, per sé ulteriori importi.
In tale contesto, la Cassazione ha sostenuto che la falsificazione attuata non rappresentava il raggiro o, meglio ancora, l’artificio per mezzo del quale il curatore riusciva ad ottenere la concreta disponibilità del denaro che, al contrario, veniva acquisito soltanto attraverso le autorizzazioni che il giudice rilasciava in funzione del ruolo rappresentato, in un momento che è antecedente la parziale alterazione delle autorizzazioni.
Questo passaggio è di assoluta importanza in quanto fornisce la chiave di lettura per una corretta identificazione del peculato alla luce del caso in oggetto della pronuncia.
Come anticipato si evince come per integrare il possesso del bene pubblico, ai fini dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 314 c.p. deve intendersi non soltanto la materiale detenzione del bene, bensì anche la sua disponibilità giuridica, ravvisabile ogni qual volta il soggetto agente ( Curatore fallimentare nel caso di specie) sia in grado, attraverso un atto dispositivo di sua competenza, di ingerirsi nel maneggio o nella disponibilità di denaro con l’intento di appropriarsene in un momento successivo (Cass. Sez. VI n. 11633 del 22/01/2007).
La Corte, pertanto, sottolinea come la falsa documentazione sia solo strumentale al materiale passaggio delle maggiori somme rispetto a quelle autorizzate dal Giudice Delegato, poiché la disponibilità del denaro è avvenuta già nella qualità di curatore fallimentare “sia pure con l’integrazione costituita dall’autorizzazione del medesimo Giudice Delegato al pagamento dei creditori”.
La Cassazione sottolinea come “è vero che in quanto curatore fallimentare non aveva la disponibilità delle somme incassate nell’esercizio delle sue funzioni, tuttavia tale parziale disponibilità (giuridica) veniva integrata e concretizzata ogni volta che riceveva dal giudice delegato le autorizzazioni ad effettuare i pagamenti ai vari creditori, ancor prima che la medesima le falsificasse nell’importo e nei destinatari”.
Può concludersi che il curatore fallimentare quale organo dell’ufficio fallimentare e pubblico ufficiale, è entrato in possesso delle somme di denaro la cui disponibilità è derivata dal provvedimento giudiziario che lo ha autorizzato al pagamento dei creditori, configurando l’ipotesi di reato di peculato.
Russomanto Antonella
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