Non costituisce tentata truffa l’esposizione del contrassegno assicurativo falsificato

Tramite una discutibile, anche se non isolata, attività decisionale esegetica, la seconda sezione della Suprema Corte è giunta ad affermare la massima in epigrafe, secondo cui non darebbe corpo al reato di tentata truffa ai sensi degli articoli 56 e 640 del codice penale, la materiale esposizione sul parabrezza dell’autovettura di un disco contrassegno assicurativo, unitamente al relativo attestato, materialmente falsificato.

Il ragionamento seguito dalla Corte, prende “stranamente” le mosse da una giurisprudenza in materia assai risalente (cfr.Cass.pen.sez.II, 9 maggio 1989, De Cesare; 30 giugno 1988, Ricucci), al fine di ribaltare il contrario orientamento sino ad allora dominante, secondo cui la materiale esposizione sul parabrezza dell’autovettura del contrassegno falsificato, andrebbe sicuramente ad integrare il delitto consumato di truffa, atteso che l’agente, facendo risultare l’adempimento dell’obbligo fiscale, si sottrae al pagamento del maggior importo dovuto all’erario (cfr.tra le varie decisioni: Cass.pen.Sez.Un., 21 giugno 1986, Giovannelli; Cass.pen.sez.II, 28 settembre 1989, Zito; Cass.pen.sez.II, 14 novembre 1988, Scancelli; V. sul punto: Cass.pen. Giuffrè, n.03/2010).

A tutto concedere, la rinnovata lettura proposta dalla seconda sezione, pur strizzando l’occhio a decisioni piuttosto datate, deve comunque ritenersi sostanzialmente condivisibile, presentandosi in forma chiara e approfondita, offrendo validi spunti per una puntuale decifrazione della struttura e degli elementi costitutivi, anche impliciti, della fattispecie incriminatrice in discorso, andando finanche a contrapporsi alla visione che era già stata cristallizzata dalle Sezioni Unite.

La vicenda, per il vero, è giunta all’attenzione della seconda sezione della Corte dopo un lunghissimo periodo, essendo la decisione in primo grado intervenuta [e poi ovviamente sottoposta a doppio gravame] già nel marzo dell’anno 2000, quando il Pretore di Reggio Calabria aveva condannato A.A. alla pena di mesi 6 di reclusione ed euro 100,00 di multa per il reato di tentata truffa, avendo appunto esposto sul parabrezza della propria vettura un contrassegno assicurativo, e relativo certificato, materialmente falsificato.

Nelle proprie argomentazioni, come detto più sopra, la S.C. tenta anzitutto di dare sfogo ad una esauriente attività interpretativa tastando il polso alla corretta struttura del reato in parola, premettendo subito come nello schema tradizionale della truffa appaia agevole l’individuazione di un requisito implicito, costituito dall’atto di disposizione patrimoniale quale elemento interposto scaturente dall’errore, nonché causa dell’altrui danno con ingiusto profitto (la truffa, del resto, sarebbe proprio caratterizzata da questi tre principali eventi).

Osserva inoltre che, pur ammettendosi la possibile esistenza di un atto dispositivo di segno omissivo, la condotta di esposizione del contrassegno falsificato in discorso difetta della presenza di un qualsiasi atto di disposizione patrimoniale, non potendosi esso individuare nella circostanza che gli organi preposti alla verifica dello stesso contrassegno, indotti in errore, non abbiano contestato l’evasione tributaria, né tantomeno nel fatto che lo stesso erario si sia limitato a tollerare gli effetti conseguenti all’inadempienza dell’agente, al momento del versamento della somma più modesta rispetto a quella effettivamente doverosa.

In tale caso invero, sempre secondo la S.C., il delitto di truffa non potrebbe nemmeno supporsi, difettando l’essenziale collaborazione della vittima.

Vi è di più inoltre: nemmeno può dirsi sussistere nel caso in esame la necessaria sequenza “artifizio – induzione in errore – profitto” tipica del reato di truffa, posto che il profitto sarebbe in realtà attuato istantaneamente mediante versamento della somma inferiore al dovuto, e quindi la degenerazione del contrassegno risulterebbe diretta a dissimulare il profitto già conseguito.

Secondo i supremi giudici, in buona sostanza, si deve ritenere che tra contravventore e pubblica amministrazione non sussisteva, prima della falsificazione, alcun rapporto di debito tributario o di altra natura e dunque la condotta fraudolenta giammai avrebbe potuto riconnettersi ad un danno dell’erario, neppure estendendo al massimo il concetto dell’atto dispositivo a carattere omissivo.

Il profitto realizzato era costituito unicamente dalla circolazione senza copertura assicurativa; un fatto pertanto “del tutto neutro agli effetti di un ipotetico danno erariale, proprio perché quella condotta non era destinata a spostare risorse economiche del soggetto in ipotesi truffato, all’autore di tale condotta”.

A simili conclusioni era del resto giunta altra partizione giurisprudenziale (Cfr.Cass.pen.sez.VI, 25 giugno 2001, Sopracasa), allorché aveva avuto occasione di analizzare una vicenda relativa alla produzione di falsa documentazione prodotta a supporto di un ricorso al Prefetto avverso un ordinanza-ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa per violazione della normativa sulla circolazione stradale, precisando in tale contesto come – del pari – non potesse ritenersi integrato il delitto di tentata truffa, atteso che nel procedimento previsto per l’accertamento della sanzione amministrativa l’autorità deputata ad irrogare la sanzione non realizza alcun atto di tipo negoziale, incidente sul patrimonio della P.A. rappresentata, ovvero del trasgressore, in quanto pone in essere unicamente un atto autoritativo di tipo “ablatorio”, peculiare espressione dell’esercizio di un munus tipico e specifico, cioè quello di applicare sanzioni.

Appare allora evidente come anche in siffatta situazione non possa ravvisarsi alcuna indole dispositiva e negoziale dell’atto (l’accertamento della violazione), dal quale poi fare conseguire la manifestazione del “danno” patrimoniale presupposto come elemento costitutivo fondamentale del delitto di truffa, posto che nessuna lesione del bene tutelato potrà ipotizzarsi laddove la condotta ingannevole sia rimasta circoscritta all’elusione dell’accertamento di infrazioni amministrative, che costituiscono già di per sé il profitto ottenuto dal trasgressore.

 

Avv.Alessandro Buzzoni

Avv. Buzzoni Alessandro

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