È costituzionalmente illegittima la presunzione assoluta di inammissibilita’ al gratuito patrocinio nel processo penale. corte costituzionale – sentenza 14-16 aprile 2010, n.139 (g.u. n.16, 21 aprile 2010)

Come già da tempo preannunciato da buona parte della dottrina penalistica1, la scure della censura di illegittimità costituzionale si è abbattuta sulla previsione di cui al comma 4-bis dell’art.76 del D.P.R. n.115/2002 (T.U. delle disposizioni in materia di spese di giustizia), dai più considerata illegittima e irrazionale, che prevede una vera e propria presunzione assoluta di superamento dei limiti di reddito nell’ambito della valutazione per l’ammissibilità del patrocinio a spese dello Stato, avuto riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.416-bis c.p.; 291-quater D.P.R. n.43/73; 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi degli artt.80 e 74 del D.P.R. n.309/90, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, escludendo in radice la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione al beneficio in parola, l’indisponibilità di un reddito superiore ai limiti indicati nell’art.76, comma 1 dello stesso D.P.R. n.115/02.

Come appunto immaginabile all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo comma 4-bis dell’art.76 d.P.R. 115/02, non si è dovuto attendere molto affinchè la questione di legittimità costituzionale del comma in parola, per violazione degli articoli 3 e 24, commi 2 e 3 Cost., finisse sul tavolo del giudice delle leggi.

I Tribunali monocratici di Catania e di Lecce (nella sezione distaccata di Campi Salentina) hanno agito da apripista in tal senso e la Corte Costituzionale, ritenendo le relative ordinanze di rimessione analoghe ed aventi oggetto le medesime questioni, ha ritenuto opportuno procedere ad una trattazione unitaria, riunendo i relativi procedimenti.

Nell’argomentare in ordine alla fondatezza delle questioni così sollevate, la Corte rileva preliminarmente come la norma censurata istituisce una presunzione di possesso di un reddito maggiore rispetto a quello minimo previsto dalla legge che, se ritenuta assoluta, non ammette prova contraria e rende pertanto prive d’effetto e ininfluenti eventuali indagini da parte dell’autorità giudicante onde verificare, come previsto per legge, le reali condizioni economiche dell’imputato.

Si tratta dunque per la Corte di una vera e propria presunzione iuris et de iure; il che emerge ancora più apertamente dal riscontro del dato testuale della norma in discussione: per i soggetti ivi indicati “il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti”.

La norma chiosa semplicemente in tal guisa “con l’uso perentorio del presente indicativo”, intendendo così precisare la ovvia conclusione cui deve pervenire il giudice – dovendo egli semplicemente limitarsi ad appurare la sussistenza di una o più condanne definitive per taluno dei reati indicati dalla norma – senza peraltro chiarire le condizioni e i metodi per svolgere gli accertamenti, facoltativi od obbligatori, sul reddito del richiedente.

Era ovvio a tutti che l’intento del legislatore fosse quello di sottrarre l’ambito del patrocinio gratuito a tutti coloro che, in possesso di ingenti ricchezze procurate mediante le attività delittuose indicate dalla norma, potessero “paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato per dettato Costituzionale (art.24, comma 3) ai soli “non abbienti”.

Una simile eventualità, del resto, sarebbe ancora più concreta a fronte “dell’estrema difficoltà di accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalle attività delittuose della criminalità organizzata”.

Ma così opinando, si finisce per sacrificare in un colpo solo i diritti fondamentali della persona, il principio di eguaglianza e il diritto di difesa costituzionalmente garantiti.

Per tale motivo la Corte ha inteso ulteriormente precisare che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il diritto di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (Cfr.Corte Cost., sent.n139 del 1982, n.333 del 1991 e n.225 del 2008)…e che “l’irragionevolezza della presunzione si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa” (sent.n.41 del 1999).

La disposizione oggetto di censura non può dunque sottrarsi, secondo la Corte, ad un giudizio di irragionevolezza, atteso il carattere perentorio della presunzione importata nel corpo dell’art.76 in commento.

Bene riferisce inoltre la Corte, laddove ricorda con la propria decisione che nella rubrica di cui al comma 4-bis dell’art.76, vengono inclusi anche reati “non necessariamente riferibili, nella prospettiva del singolo autore, ad un contesto di criminalità organizzata”. Così, ad esempio, per i casi di detenzione illecita aggravata di sostanze stupefacenti, annoverate tra le fattispecie ostative, ma di per sé non sintomatiche a priori di una “stabile dedizione ad attività criminali particolarmente lucrose”. Altro motivo, questo, di irragionevolezza del dettato legislativo.

Si tenga inoltre presente che dalla comune esperienza, così come avvalorato anche dalla giurisprudenza ordinaria, deriva che “esiste una sensibile differenza tra la posizione ed il reddito dei capi delle associazioni criminali e la cosiddetta manovalanza del crimine, spesso compensata con somme di scarsa entità, che non consentono disponibilità economiche consistenti…”.

Parificando indiscriminatamente i capi ai gregari delle associazioni criminose, si finisce per applicare analoghe misure a situazioni che possono essere – ed anzi spesso sono – grandemente distanziate e squilibrate sotto il profilo economico.

Ne consegue che seppur si possano supporre situazioni di “non abbienza” a carico dei meri compartecipi alle organizzazioni criminali, essi vengono accolti dal legislatore del patrocinio gratuito alla stregua dei loro capi (che dalle attività delittuose hanno invece potenzialmente lucrato importanti profitti), essendo indistintamente impedito ad entrambe le figure di accedere al beneficio per sola presunzione di legge.

Ulteriore annotazione che la Corte prende accuratamente a sostegno del proprio impianto argomentativo, è quella relativa all’irrilevanza, ai fini della norma censurata, “dei percorsi individuali successivi alla condanna definitiva per uno dei reati indicati dal comma 4-bis, che può essere molto risalente nel tempo, senza che abbia rilievo un eventuale accertato allontanamento del soggetto istante dal contesto criminale di maturazione del fatto2.

La mancata previsione di ben individuati limiti di tempo per l’operatività della presunzione in esame, impedisce secondo la Corte “che si possa tenere conto di un eventuale percorso di emancipazione dai vincoli dell’organizzazione criminale, perfino nell’ipotesi in cui il soggetto sia imputato di un reato, anche colposo, che nulla abbia a che fare con la criminalità organizzata”.

Ed è a tal fine facilmente immaginabile la condizione di chi, in quanto partecipe ad un sodalizio associativo di stampo criminoso, versi in concrete difficoltà nel reperire attività lavorative e in ambito sociale e che, in quanto implicato in procedimenti penali, non possa istruire una appropriata difesa per manifestare la propria lontananza dal crimine contestato, a cagione di una reale situazione di indigenza il cui riscontro resta in ogni caso precluso al giudice per dettato legislativo.

La norma censurata pertanto, “imprime sui soggetti in essa indicati uno stigma permanente e incancellabile, che incide, comprimendolo, sul diritto fondamentale di difesa, così come configurato dall’art.24, commi 2 e 3 Cost.

Ma vi è dell’altro.

Secondo la Corte, “non può ritenersi irragionevole [terminologia alquanto di moda negli ultimi tempi per le massime autorità giudiziarie] che, sulla base della comune esperienza, il legislatore presuma che l’appartenente ad una organizzazione criminale, come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza dal beneficio dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Ciò che contrasta con i principi costituzionali è il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli artt.3 e 24 commi 2 e 3 Cost. Si deve quindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria”.

In definitiva, la Corte riconosce che la presunzione importata dal legislatore non può essere definitivamente abbandonata, ma per la corretta operatività di essa sancisce e rafforza, anche per i soggetti di cui al comma 4-bis in esame, l’obbligo in un ottica “costituzionalmente orientata”, della prova contraria da fornirsi ad opera dell’istante, documentando analiticamente la ricorrenza dei presupposti di reddito necessari per accedere al beneficio del patrocinio gratuito.

Il richiedente dovrà quindi palesare mediante idonee allegazioni il suo stato di “non abbienza”, mentre il giudice dovrà appurare l’attendibilità di tali allegazioni, impiegando ogni necessario elemento di indagine.

Non potrà di certo ritenersi bastevole in tali situazione l’allegazione di una semplice autocertificazione (come richiesto generalmente dalla legge per la domanda di ammissione al beneficio), ma, “viceversa, che vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai quali si possa desumere in modo chiaro e univoco l’effettiva situazione economico-patrimoniale dell’imputato”.

Anche il soggetto condannato per alcuno dei reati di cui al comma 4-bis dell’art.76 del D.P.R. 115/02, pertanto, potrà godere del beneficio del patrocinio statale in favore dei non abbienti, qualora il riscontro del giudice in siffatte evenienze si mostri incline all’ammissibilità.

Alla luce del recente arresto della Corte Costituzionale, dunque, la presunzione in parola non deve più intendersi come assoluta (iuris et de iure), ma solamente relativa (iuris tantum), che ammette cioè la prova contraria, nei termini sopra descritti.

 


Avv.Alessandro Buzzoni

Rimini

 

1 Tra i quali, senza false modestie, si ascrive anche il sottoscritto, laddove nel proprio volume (IL GRATUITO PATROCINIO Spiegato a mia nonna, 2^ ed., FAG Edizioni, Milano, 2010, pagg.41 e segg., già sollevava forti dubbi di legittimità e ragionevolezza dell’intervento normativo operato con il nuovo comma 4-bis dell’art.76 D.P.R. 115/02, che introduce una “apposita presunzione normativa di superamento dei limiti di reddito” per una data categoria di soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, “in quanto indegni per tipologia d’autore”…creando una vera e propria- utilizzando e anticipando le parole che poi la Corte Cost.farà proprie con la sentenza in commento – presunzione iuris et de iure di insussistenza delle condizioni reddituali…”; Cfr.in dottrina, SECHI, Le innovazioni in materia di patrocinio a spese dello Stato…, in Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, Lorusso, Cedam, 2008; CORBETTA, Modifice al t.u. in materia di spese di giustizia, in AA.VV., Decreto sicurezza, tutte le novità, Ipsoa, 2008; RUSSO, Modifiche alle disposizioni sul gratuito patrocinio, in Il decreto sicurezza, a cura di Scalfati, Giappichelli, 2008; CASSIBA, Le modifiche al d.P.R. n.115 del 2002…in MAZZA-VIGANO’, Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, Giappichelli, 2008; DI DEDDA, Le modifiche al processo penale, in AA.VV., Sistema penale e sicurezza pubblica…,Cacucci, 2008; VELANI-MATTEUCCI-DE GIORGIO, L’irrigidimento delle soluzioni procedimentali…in La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, a cura di Giunta-Marzaduri, Giuffrè, 2010; per tutti si veda più approfonditamente in Cass.pen. n.09/2010, Giuffrè.

2 Altro aspetto trattato anticipatamente dallo scrivente nel proprio manuale già cit.

Avv. Buzzoni Alessandro

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