La “curva di Laffer” o della crescita felice

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1. Il prof. Arthur Laffer e il “teorema da tovagliolo”

Si deve risalire al “precedente” della “teoria della semina dell’oro”, prospettata dal Gatto e dalla Volpe a Pinocchio, per ritrovare, nella storia delle discipline economiche, un concetto, tanto ingegnoso quanto vacuo, come quello enunciato dal professore dell’Università della California del Sud Arthur Betz Laffer, Sr., nel lontano 1974, nel corso di un cocktail pomeridiano presenziato da personaggi del calibro di Dick Cheney e Donald Rumsfeld, i quali in seguito girarono la “dritta” al candidato repubblicano alle presidenziali USA del 1980, Ronald Reagan.

Come in ogni saga holliwoodiano-californiana che si rispetti, il cantore ufficiale – ovvero l’editorialista del Wall Street Journal col pallino dell’economia Jude Wanninski, presente al capitale convivio(1) – narra che il Laffer, forse memore dell’efficacia drammatica della sequenza di un classico di genere diretto dal grande Hitchcock(2), tracciò precisamente su un tovagliolo il diagramma di sintesi della “straordinaria intuizione”, stando almeno all’icona del presunto originale conservata dal “centro studi” fondato da Wanninski stesso(3).

Per vero, nel 2004, lo stesso Laffer, con una sorta di “outing accademico”, cercò di allontanare elegantemente da sé il sospetto di essere l’inventore di un’inutile scarabocchio(4), chiamando in causa, prima, l’illustre (quanto misconosciuto) “storico e filosofo arabo del XIV secolo Ibn Khald?n“ e, poi, nientemeno che il guru del “capitalismo sociale”: John Maynard Keynes(5).

Sarà, invece, a motivo del sostegno ottenuto dagli autorevoli sponsor, che quella che nacque come una trovata giornalistica(6), non esaurì le sue “potenzialità” nel dopo cena californiano, restando, invece, per più di un ventennio, il fondamento dell’ “ideologia fiscale” ufficiale di Paesi quali Inghilterra e Stati Uniti e persistendo, ancora oggi, come una delle più accreditate leggende economiche della mitologia “neocon”.

E’ bene, allora, apprestare un’analisi del fenomeno procedendo con un certo ordine e confidando nella benevolenza del lettore.

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2. La crescita felice secondo la “curva di Laffer”

L’originario “schizzo econometrico” di Laffer era, per necessità, molto artigianale. Il tutto va, dunque, ricondotto ad una rappresentazione quantomeno più “accademica”.

E dunque: se indichiamo sull’asse delle ascisse le aliquote e su quello delle ordinate il gettito – potrebbe aver sapientemente illustrato il professore – spostandosi verso destra, vediamo che all’aumentare delle aliquote, il gettito dapprima cresce (consideriamo infatti il tratto OL), una volta raggiunto il massimo, inizia a decrescere (tratto L). In particolare si può verificare che si riesce ad avere lo stesso gettito (proiezione di M ed N sulle ordinate) con aliquote diverse, in particolare TM <TN. La spiegazione – avrà inoltre puntualizzato il docente – è semplice: all’aumentare dell’aliquota, poiché il debito di imposta aumenta, il beneficio di cui un soggetto gode lavorando per un’ora al netto di imposta si riduce sempre di più. Supponiamo che ad esempio in M ci sia una tassazione pari a 10 minuti per ora, cioè l’individuo, quando l’aliquota è TM, per ogni ora di lavoro, lavora 50 minuti per sé e 10 per lo Stato.

Immaginiamo che in L l’imposta sia pari al 50%, quindi per ogni ora di lavoro è come se l’individuo lavorasse 30 minuti per sé e 30 per lo stato. A destra di L, per ogni ora di lavoro, i minuti di lavoro per lo Stato crescono mentre diminuisce la parte a disposizione del singolo. In N potrebbe accadere che il nostro soggetto sia costretto, data l’aliquota elevata, a lavorare 50 minuti per lo Stato e 10 per sé. Tale fatto potrebbe indurre l’individuo a modificare la scelta tra tempo libero e lavoro, favorendo il primo e causando una riduzione del reddito imponibile. Questo spiega il perché in M, con un reddito elevato e aliquota bassa, riusciamo ad ottenere lo stesso gettito che si ha in N, dove l ‘aliquota è alta ma il reddito è basso. Se è possibile raggiungere lo stesso gettito con due aliquote è meglio scegliere quella che ha effetti distorsivi minori sull’attività privata (nell’esempio proposto TM).

In sostanza, il grafico in questione consiste in una linea parabolica che relaziona imposte ed entrate fiscali. Una “curva a campana” che mette cioè in relazione l’aliquota di imposta (asse delle ascisse) con le entrate fiscali (asse delle ordinate). Sempre il dotto professore deve poi anche aver rivelato – ai suoi estasiati quanto un pò “pinocchi” interlocutori(7) – che l’ingegnoso teorema valeva per rappresentare il “peso” del fisco sull’economia privata, oppure per osservare il rapporto che, per un soggetto “i-esimo”, esiste tra i tributi pagati ed il suo reddito. Va precisato che una best practice dell’impianto grafico della curva dovrebbe dar conto, soprattutto, dell’ “ingegnosità fiscale” della scoperta, ovvero dell’assunto secondo il quale “riducendo le tasse le entrate fiscali non diminuiscono, anzi aumentano” (almeno sino ad un certo punto).

La curva deve, quindi, atteggiarsi come segue:

E’ con queste “fattezze”, infatti, che essa evidenzia il “punto B” che intercetta il fattore chiave dell’equilibrio fra i canoni dell’ “economia naturale”, propagandati dalla cd. Supply-Side economics(8), e l’altrettanto “naturale” propensione dei “produttori” a recepire un tax self assessment accettabile, vale adire l’aliquota ideale ovvero quella che, favorendo l’armonia fra produzione della ricchezza e “giusta contribuzione”, mantiene il gettito fiscale sempre al massimo livello di compatibilità sociale. Com’è dato rilevare ictu oculi, l’aliquota “ideale” è una sola, la sua misura il 30%.

Se si preferisce, più enfaticamente: la percentuale rappresentativa di un livello di pressione fiscale complessiva “sopportabile” è pari a un terzo della ricchezza prodotta.

Per l’appunto: il segreto di una… crescita felice!

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3. Il modello e le sue aporie

Per quanto non direttamente riconducibile ad un’osservazione empirica – il che, come si dirà appresso, è poi è il vero tallone d’Achille dell’intero teorema – la “verità scientifica” accreditata dalla “curva di Laffer” poggia su principi economici elementari: vale la legge della domanda e dell’offerta e vale il principio del costo opportunità. In altre parole, esiste un punto oltre il quale la pressione fiscale non rende più conveniente una certa impresa economica a meno di incentivare l’imprenditore a riorientare l’investimento.

Il “modello” proposto da Laffer colloca tale possibilità, quale dato oggettivo, nella dinamica di ogni sistema impositivo, al cui interno appunto si ritrova un limite naturale di efficienza. Sul piano strutturale, inoltre, esso apre la porta ad almeno TRE concetti chiave:

  • distribuzione del gettito in funzione della pressione fiscale: maggiore è l’imposta, maggiore è l’evasione, per cui ad un aumento delle imposte “oltre limite” corrisponde una diminuzione del gettito fiscale, per effetto di “auto protezione”;
  • tra le due “aliquote limite teoriche” di un sistema di tassazione, 0 e 100, ambedue a gettito zero, c’è il gettito massimo, rappresentato dall’aliquota di equilibrio, che assicura il massimo di efficienza del sistema;
  • una seria politica fiscale deve porsi l’obbiettivo di ridurre le imposte sul reddito sino al break point fiscale, generando in tal modo il massimo del gettito ottenibile col minimo sacrificio necessario.

Orbene, a voler ricollegare tale impianto ad una qualche “ascendenza storica”, sarebbe forse il caso di riformulare il tutto in termini di “paradosso di Laffer”.

La trovata del professore sembra, infatti, essere un fantasioso riadattamento in chiave fiscale del concetto di rendita del consumatore sviluppato dei marginalisti, lungo la linea di pensiero che dagli ingénieurs-économistes alla Jules Dupuit porta alla summa monetarista di Alfred Marshall. Posto che, secondo l’evidenza classica, il massimo che un consumatore è disposto a pagare per un determinato bene viene detto “prezzo di riserva”, se un individuo è disposto a pagare 100, ma ottiene infine lo stesso bene a 70, avrà un surplus (qui più che altro psicologico) di 30. Il surplus (o rendita) del contribuente si atteggerebbe, invece, a differenza positiva effettiva fra il quantum – in termini imposte – che un individuo-produttore è disposto a pagare allo stato per ricevere in cambio un servizio, astratto e indeterminato, e il “limite di mercato” all’incremento lineare del gettito, anch’esso riguardato alla stregua di un “bene disponibile”. Insomma: l’equivalente dell’aliquota ideale a garanzia del “gettito complessivo reperibile sul mercato”.

Non va poi trascurato che il modello lafferiano raccoglie, più o meno consapevolmente, le “suggestioni matematiche” introdotte nelle teorie economiche nei primi del Novecento dalla cosiddetta scuola formalista, nel tentativo alquanto disperato di salvare l’approccio matematico “classico” dagli effetti corrosivi della teoria degli insiemi(9). Per tale scuola, “(…) lo sviluppo della matematica doveva essere assolutamente libero da qualsiasi vincolo derivante dal dato empirico e l’unico requisito da rispettare era quello della coerenza logica delle argomentazioni. Il successo della soluzione formalista fece sì che in molte discipline l’analogia meccanica venisse sostituita dall’analogia matematica, mentre le spiegazioni dei fenomeni venivano sciolte dal vincolo empirico”(10).

In tale ottica metodologica, non è così paradossale che la picconata all’applicazione della Curva di Laffer arrivò dall’impossibilità teorica della determinazione empirica del famoso “punto B”, ovvero del limite al prelievo al di là del valore corrispondente al massimo del gettito, oltre il quale il gettito stesso si riduce.

Commentando la teoria di Laffer, il premio Nobel per l’economia James Tobin definisce “ridicola” l’idea su cui essa si regge(11). Una condanna severa che, tuttavia, è giustificata dal fatto che sul piano empirico resta irrisolto il nodo nell’elasticità del cosiddetto punto di equilibrio, con ciò rimanendo questo una pura astrazione. Secondo i critici più netti, infatti, la curva disegnata da Laffer rappresenta quantomeno una semplificazione estrema; una teoria difettosa che conduce inevitabilmente a una politica difettosa. Se è certamente vero che aliquote smodatamente alte possono rallentare, sebbene non arrestare completamente, la crescita economica, la relazione tra il limite percentuale di aliquota marginale, l’entità elevata delle imposte pagate dai “ricchi” e la crescita economica debole, è una correlazione molto più complessa di quanto lo schema di Laffer presuppone.

Al limite, è infatti possibile tassare totalmente il reddito prodotto come, ad esempio, avveniva nell’ex Unione sovietica che, pur non essendo un modello di equilibrio economico era capace di sostenere uno dei più grandi apparati militari del mondo ed esercitare il dominio politico sull’Europa Orientale, con redditi nazionali assoggettati, almeno il linea di principio, ad una tassazione del 100%. La relazione tra reddito nazionale, crescita economica e aliquota applicata non è dipendente dall’utilizzo delle risorse derivanti dal gettito. La curva di Laffer non tiene conto di tutto ciò; i suoi proponenti rimangono attestati sull’idea “pre-economica” che occorre tagliare le tasse per aumentare il gettito(12).

4. Requiem per un’ideologia?

Il professor Laffer magari non passerà alla storia per la sua insipida teoria ma, per dirla con Galbraith, “nella scienza economica è spesso preferibile, dal punto di vista professionale, essere associati a un errore del tutto rispettabile che a una verità non del tutto provata”, soprattutto se la posta in gioco è molto più consistente del prestigio accademico.

La curva di Laffer è stato uno dei “fondamentali nobili” della Supply-Side Economics, strategia del consenso su base economica attuata dall’amministrazione Reagan a partire dai primi anni 80, perché con un ragionamento somministrato a un parlamentare su un tovagliolino da Martini, Laffer sostenne che, trovandosi l’economia sul versante B-C della curva, diminuendo l’imposizione fiscale le entrate sarebbero aumentate(13).

Starving the beast! Affamare la “bestia“! Era questa, invero, la posta in gioco. E ancora lo è, quantomeno per gli iperliberisti irriducibili e moralizzatori del welfare “fiscalista e sprecone”.

Starving the beast! Fu l’espressione usata dall’amministrazione Reagan al fine di abbattere la spesa pubblica, ribaltando il concetto “utilitaristico” di disavanzo socialmente orientato, ereditato dall’economia di guerra “annobilita” dal New Deal. Nell’ideologia dei repubblicani USA, la “bestia” simboleggiava infatti il government, il Leviatano che voracemente ingoia il sacrosanto profitto nella voragine dello “stato sociale”: dall’indennità di disoccupazione alla pianificazione previdenziale, dalla Social Security al Medicare. Un’ideologia camuffata da teoria economica o, più banalmente, una strategia di accelerazione semplicistica del profitto? La questione appare, invero, più complessa: la Supply-Side Economics si è sviluppata all’ombra del monetarismo prima, della teoria delle aspettative razionali poi. Pur se privi di un supporto analitico adeguato – come appunto nel caso dell’invenzione di Laffer – questi orientamenti di politica economica traggono forza dal consenso, “antropologico” prima ancora che scientifico, costruito attorno all’idea della capacità del mercato di assicurare, già soltanto con i suoi automatismi strutturali, la piena occupazione.

In effetti, l’amministrazione Reagan le tasse le diminuì – o sarebbe più corretto dire che le rimodulò secondo un “punto di equilibrio” politicamente pre-definito – ma la spesa pubblica e il deficit non vennero altrettanto ridotti. La tesi di fondo secondo cui, per risolvere la crisi economica misurata dalla crescita ipertrofica del deficit del bilancio federale, era necessario ridurre il carico fiscale riducendo le aliquote delle imposte sui redditi e tenere alti i tassi di interesse per domare l’inflazione, si rivelò un fallimento.

Fallì, l’obiettivo di portare in pareggio il bilancio federale, a causa dell’incremento – di derivazione prettamente politica – delle spese militari. In prospettiva storica, “crebbero perciò assieme l’indebitamento delle imprese e delle famiglie e il debito pubblico federale“(14). Questo perché, come spiega l’antropologa Jane Jacobs, “quando queste teorie venivano applicate, gli alti tassi di interessi rendevano i prestiti non economici per i produttori e portarono alla bancarotta (o vicino alla bancarotta) molti di essi. Quando invece la produzione si contraeva e la disoccupazione aumentava, l’abbassamento delle tasse non produceva gli effetti sperati e serviva solo ad aumentare il debito pubblico. Insomma, le misure che volevano combattere l’inflazione si traducevano nella rovina dei produttori e dei lavoratori, mentre le misure che volevano aiutare i produttori si trasformavano in un elevato debito pubblico”(15).

Se a ciò si aggiunge che neppure reggeva il presupposto, correlato a tale modello di sviluppo, del riposizionamento “sul versante del privato” di parte delle garanzie sociali già assicurate dal welfare pubblico, per mancanza di credibilità del soddisfacimento dell’interesse degli investitori chiamati a surrogare lo “stato sociale”, si vede come l’intero “modello” conteneva in sé tutti i limiti che porteranno ai disastrosi esiti della crisi maturata nel decennio successivo.

Forse anche suo malgrado, “Laffer” pare il sintomo di un malessere profondo, manifestatosi negli ultimi decenni sotto forma di complessi meccanismi di “distruzione creatrice” (assumendo una prospettiva schumpeteriana): un filo rosso che collega la limitazione del ruolo dello stato, le crociate anti-tasse, la negazione del sociale quale terreno di responsabilità collettiva, l’assunzione delle pulsioni dell’individuo alla massimizzazione dei suoi interessi a principio base della crescita economica.(16).

Non esiste la società, esistono solo gli individui”, assicurava negli anni ’80 l’ex Primo Ministro del Regno Unito Margaret Thatcher, con tutta la carica di destrutturazione della “società civile” che ciò comporta. L’enunciato pare oggi l’incontenibile delirio di onnipotenza di una persona – nell’accezione teatrale di “πρ?σωπον”- sempre più ridotta a marionetta.

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1 Wanninski riassumerà la vicenda sul Patriot di Yorktown del 14 giugno 2005.

2 Precisamente: Io ti salverò, film prodotto nel 1945, diretto da Alfred Hitchcock e interpretato da Ingrid Bergman, Gregory Peck, Michael Chekhov e Leo G. Carroll.

3 Il “tovagliolo” in questione dovrebbe essere quello conservato per la storia al Polyconomics Institute (http://www.polyconomics.com/gallery/Napkin003.jpg), “online learning center” fondato dallo stesso Wanninski, e conosciuto anche come “Supply-Side University”.

4 Sarà il Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz, nel suo libro I ruggenti anni novanta (Einaudi, 2004) a definire quella di Laffer “una teoria scarabocchiata su un foglio di carta”.

5 Nell’articolo La Curva di Laffer: Passato, Presente e Futuro, pubblicato sul sito web della Heritage Foundation il 1° giugno, 2004 lo stesso Laffer assicurava: “La cosiddetta “curva di Laffer”, non è stata inventata da me. Per esempio, Ibn Khaldun, filosofo islamico del 14° secolo, ha scritto nel suo lavoro Muqaddimah: “Si dovrebbe sapere che all’inizio di una civiltà economica, la tassazione produce un grande gettito pur basandosi su piccoli prelievi. Alla fine di essa, la tassazione produce, invece, un piccolo gettito pur basandosi su grandi prelievi”’. E ancora: ‘una versione più recente (di chiarezza incredibile) è stata così proposta da John Maynard Keynes’: “When, on the contrary, I show, a little elaborately, as in the ensuing chapter, that to create wealth will increase the national income and that a large proportion of any increase in the national income will accrue to an Exchequer, amongst whose largest outgoings is the payment of incomes to those who are unemployed and whose receipts are a proportion of the incomes of those who are occupied (…). Nor should the argument seem strange that taxation may be so high as to defeat its object, and that, given sufficient time to gather the fruits, a reduction of taxation will run a better chance than an increase of balancing the budget. For to take the opposite view today is to resemble a manufacturer who, running at a loss, decides to raise his price, and when his declining sales increase the loss, wrapping himself in the rectitude of plain arithmetic, decides that prudence requires him to raise the price still more–and who, when at last his account is balanced with nought on both sides, is still found righteously declaring that it would have been the act of a gambler to reduce the price when you were already making a loss.” (John Maynard Keynes, The Collected Writings of John Maynard Keynes, London, Macmillan, Cambridge University Press, 1972).

6 Laffer concorda nell’attribuire all’entusiasta Wanninski la definizione ”curva di Laffer”: “Mentre si discuteva della proposta del Presidente Ford per aumentare le tasse (il progetto “WIN” – Whip Inflation Now), io afferrai il mio tovagliolo ed una penna e disegnai una curva sul tovagliolo che illustra l’equilibrio tra aliquote d’imposta e livello di tassazione dei redditi. Wanninski chiamò il grafico ‘La Curva di Laffer’. Laffer conviene, però, di aver utilizzato il concetto in occasione delle sue lezioni all’università. “In seguito ho usato la cosiddetta “Curva di Laffer” in tutte le mie lezioni e con chiunque altro si sia rivolto a me per illustrare l’equilibrio tra aliquote d’imposta e livello di tassazione dei redditi. La mia unica perplessità sulla versione di Wanninski è che il ristorante usava tovaglioli di stoffa e mia madre mi aveva insegnato a non rovinare le belle cose” (La Curva di Laffer: Passato, Presente e Futuro, cit.)

7 Secondo un’ironica valutazione giornalistica “il pregio della curva di Laffer [sta] nel fatto che la si spiega ad un deputato in mezz’ora, e lui può parlarne per sei mesi”. «It has been said that the virtue of the Laffer curve is that you can explain it to a congressman in half an hour and he can talk about it for six months.» (Hal Varian, Intermediate Microeconomics).

8 Si tratta del modello di politica economica che ha caratterizzo l’epoca di Reagan e, ancora oggi, in auge nel variegato mondo degli “economisti neocon”. Secondo Irvin Kristol, l’economista a cui viene riconosciuta la “primogenitura” del modello, il termine stesso “(…) ‘economia dell’offerta’ [Supply-Side Economics] può essere fonte di un’iniziale confusione. Nasce in esplicito contrasto con l’approccio keynesiano il quale pone l’accento sull’esigenza che il governo gestisca e manipoli – attraverso le politiche fiscali e monetarie – la domanda aggregata al fine di mantenere la piena occupazione. L’ ‘economia dell’offerta’ [Supply-Side Economics] sostiene che il governo realmente non può fare ciò.(…)”. Se, invece, “(…) si consente all’impresa di osperare con il minimo di interferenza, investirà e innoverà , così come soddisfarà la domanda di beni che produce“. (Cfr. Flavio Felice, Prospettiva «neocon». Capitalismo, democrazia, valori nel mondo unipolare, Cosenza, 2005).

9 Cfr. Nicola Giocoli, La voce “Economia matematica” da Boccardo a Debreu, in Storia del pensiero economico, University Press, Firenze 2001.

10 Id. Osserva ancora l’autore che “Il ruolo della matematica nelle varie discipline scientifiche veniva dunque radicalmente cambiato; essa non era più uno strumento che interveniva “a valle” per gestire ed elaborare in modo più efficiente e sistematico i dati empirici, ma diventava attraverso l’assiomatizzazione l’imprescindibile ed universale “serbatoio” di strutture e modelli astratti di cui ogni scienziato doveva “preventivamente” impadronirsi per poi riempirli di contenuti diversi in funzione delle singole discipline.“

11 “[The] idea that tax cuts would actually increase revenues turned out to deserve the ridicule…“ (James Tobin, Voodoo curse, in Harvard International Review (1992) 14 (4): 10).

12 Cfr. Sven Brendel, Supply-Side Fallacy. Rubbish Economics In The White House, in CS&P Vol 7. Num 1 Spring 2008.

13 Non va dimenticato che Laffer fece in qualche modo parte della “amministrazione Reagan” quale consulente economico del Presidente nell’ambito dell’ Economic Policy Advisory Board , fra il 1981 e il 1989.

14 Scipione Guarracino, Storia degli ultimi sessant’anni. Dalla guerra mondiale al conflitto globale, Milano 2004, pag. 240.

15 Jane Jacobs, Il fallimento del monetarismo di Chicago, in janejacobs.wordpress.com.

16 Cfr. Alberto Russo, Elements of novelty, known mechanisms, and fundamental causes of the recent crisis, in MPRA Paper No. 21648.

Palana Maurizio

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