Il sapere può essere inteso come “scienza dell’essere” o come “scienza dei fondamenti e delle procedure conoscitive” (Cartesio) e, certamente, come fonte di verità, di prestigio, condizione di libertà (S. Paolo) e risorsa per la generalità.
La conoscenza si rivela un efficace rimedio per evitare l’insorgere di pregiudizi e per superare convinzioni e, quindi, la determinazione meramente ideologica di scelte e condotte.
Tuttavia, la logica umana sarebbe necessariamente logica del finito e non avrebbe, così, la possibilità di raggiungere il concetto del divino-infinito, se non nell’esperienza mistica: l’uomo deve, quindi, avere coscienza dei propri limiti intellettuali (c.d. dotta ignoranza) e della totale sproporzione tra l’infinito e la mente umana. In tal senso, Dio non è, pertanto, attingibile dalla ragione umana la quale procede in base al tradizionale principio di non contraddizione e di conoscenza mediante contrapposizioni.
Dio sarebbe coincidenza degli opposti (Cusano).
Al più, l’uomo potrebbe giungere alla conoscenza di Dio, necessaria per conseguire la salvezza, partendo da un processo razionale (c.d. prova ontologica di S. Anselmo d’Aosta) e, quindi, vi sarebbe la possibilità di riconoscere razionalmente l’esistenza di Dio (Voltaire).
L’esistenza di Dio, comunque, non potrebbe essere ricavata dal concetto razionale in quanto ciò che, di per sé, è pensato come esistente può essere anche pensato come non-esistente. Anche il criterio della causalità non potrebbe essere applicato poiché l’uomo non ha diretta esperienza dell’effetto e della causa (Hume).
Diversamente, si è sostenuto che l’idea di Dio possa essere maturata indipendentemente da un processo di carattere razionale e dimostrativo o da una visione finalistica (Rousseau): tale idea sarebbe valida per il fatto che l’uomo, oltre al corpo, possiede un’anima (Condillac).
Particolare importanza è stata, in alcuni casi, attribuita all’esperienza.
Le idee innate non sarebbero, cioè, presenti nella mente di tutti gli uomini bensì si costituirebbero nella mente attraverso l’esperienza. Quest’ultima è possibile perché qualcosa esiste fuori dell’uomo: tale realtà esterna viene conosciuta prima con il senso esterno (sensazione) e dall’elaborazione interiore di questo materiale esterno (riflessione) derivano altre idee. L’intelletto, quindi, conosce solo ciò che viene offerto dalla sensazione o che viene elaborato dalla riflessione.
Il sapere, così, è fatto di parole-concetti nati dalla semplice esperienza: ogni conoscenza è, quindi, il frutto dell’attività pensante del soggetto e non il riflesso di una realtà esterna già data (Locke). Le idee, quindi, non sarebbero soltanto quelle innate, e tra queste il senso religioso (Campanella), ma anche quelle avventizie (soppravenute dall’esterno) e quelle fittizie (costruite dal soggetto pensante) (Cartesio). In sostanza, ogni conoscenza avrebbe origine empirica e sensibile (Voltaire).
Le idee, distinte in “semplici” (o primarie), “complesse” (a loro volta distinte in idee “di modo”, “di relazione” e “di sostanza”) e “generali”, sarebbero prodotte dalla mente e non sarebbero, per se stesse, vere o false: si avrà conoscenza vera, comunque, quando si riuscirà a stabilire, per intuizione o dimostrazione, un accordo ovvero un rapporto di inerenza e coerenza, tra le idee (Locke).
La realtà, quindi, sarebbe del tutto riducibile a ciò che si percepisce con i sensi: ciò, però, è sempre e soltanto un’idea. Andare oltre questi contenuti di coscienza ed immaginare sostanze oggettivamente esistenti per se stesse costituirebbe un arbitrio. L’esperienza, peraltro, sarebbe costituita soltanto da contenuti della coscienza e, cioè, da un assieme di idee e l’esistere consisterebbe soltanto ed in quanto qualcosa viene percepito (Berkeley).
La “coscienza immaginante” non sarebbe, quindi, una coscienza che realizza qualcosa: quando immaginiamo qualcosa, irrealizziamo il nostro oggetto, produciamo un’idea di verità che si basa sull’assenza (J.P. Sartre).
Per un verso, è stato affermato che ogni forma di conoscenza sarebbe riducibile alla sola sensazione. Certi modi di essere della mente (memoria, comparazione o giudizio) sarebbero soltanto sensazioni debitamente trasformate: ogni processo di sviluppo partirebbe dalla sensazione e quest’ultima sarebbe, altresì, la matrice primaria di ogni successivo atteggiamento (Etienne Bonnot de Condillac, 1714-1780). Tutta la vita della coscienza sarebbe, pertanto, il prodotto della sensazione (Claude Adrien Helvetius, 1715-1771).
L’esperienza sensibile offrirebbe, altresì, la possibilità di costruire nuove teorie scientifiche (Wolff). La conoscenza sensibile non sarebbe, quindi, inferiore a quella logica bensì sarebbe autonoma da questa: essa non spiegherebbe le concatenazioni causali di un fenomeno bensì coglierebbe il fenomeno nel suo significato estetico (Alexander Gottfried Baumgarten, 1714-1762).
Per altro verso, invece, la sensazione sarebbe un momento soltanto iniziale della conoscenza (Locke).
Si è dato, così, importanza all’intelletto, più della conoscenza sensibile. Anzi. Bisognerebbe contare sulla mente e non sull’esperienza sensibile: l’uomo, grazie all’intelletto, sarebbe, quindi, artefice di se stesso (Bruno).
L’emissione di un determinato giudizio indica l’accostamento di un certo attributo ad un soggetto ma tale accostamento, in quanto frutto soltanto della sensazione che unisce più o meno arbitrariamente fatti e costruisce collegamenti di cui non si comprende il nesso, può essere del tutto arbitrario o soltanto occasionale, non necessario ed inesatto: non sarebbe possibile, infatti, ricavare da una serie di osservazioni un principio generale universale in quanto l’esperienza sensibile sarebbe condizionata da un elemento che la precede e che deve essere considerato come innato.
I contenuti dell’intelletto sono, cioè, forniti dai sensi ma ciò è possibile soltanto perché l’intelletto è già di per sé una capacità a priori che ordina e struttura: la mente umana opererebbe per mezzo di modalità innate, sempre identiche a se stesse (Kant). Quindi, l’anima avrebbe una sua struttura ed una serie di possibilità innate, non “compiute e perfette” (Cartesio), intese come pure possibilità di estrinsecarsi nel momento dell’esperienza. Diversamente, è stato affermato che l’uomo non sarebbe dotato di virtù e di valori innati bensì sarebbe il frutto del mondo in cui vive (Helvetius).
Bisognerebbe distinguere tra “verità di ragione”, quelle verità pensabili senza contraddizione (le c.d. essenze) e di cui Dio è il garante, e “verità di fatto”, su cui si fonda la realtà del mondo ed esistenti grazie al principio di “ragion sufficiente”, quelle verità non necessarie in quanto il loro contrario può essere pensato.
Anche la sequenza delle verità di fatto è presente nella mente divina.
In base a tale principio, un evento si verifica secondo una sequenza di eventi che lo precedono e che la mente umana non può o può, sotanto fino ad un certo punto, ricostruire: cioè, “vi è una ragione nella natura perché esista qualcosa piuttosto che nulla o questo più che quell’altro” (Leibniz). Tutte le verità di fatto sarebbero, peraltro, riducibili a verità di ragione (Christian Wolff, 1679-1754).
La realtà naturale scaturirebbe da “centri di forza”, dotati di un’attività originaria e regolati secondo una precisa armonia prestabilita da Dio, singolarmente autonomi e posti in una gerarchia e secondo una legge di continuità, tendenti ad un fine da realizzare in armonia con il tutto: l’unica realtà che produce l’estensione ed il pensiero è, quindi, un’attività unitaria ed organica di natura spirituale. In tal modo, nell’universo è rispettata la giustizia ovvero l’ordine o la perfezione relativa alle menti. Infine, l’uomo, grazie alla propria coscienza che vive l’esperienza delle “piccole percezioni”, può darsi spiegazione del passaggio tra un’idea ed un’altra e tra un atto ed un altro (Leibniz).
L’esperienza sarebbe riducibile all’assieme globale dei contenuti di coscienza, procurati dalla percezione, ovvero le impressioni: queste suscitano delle tracce nella mente, le idee che, quindi, sono il ricordo delle impressioni.
Le idee possono essere scomposte e ricomposte soprattutto in base a determinati principi associativi (somiglianza, contiguità spazio-temporale e causalità): il principio di causalità, in particolare, induce a ritenere, grazie ad una certa esperienza, che è esistita una certa causa o che avverrà un dato effetto. Tale sequenza di due fenomeni non mostra, però, un’intrinseca ed assoluta necessità del rapporto, ed inoltre la concatenazione è infinita ed inconcludente, bensì è costruita secondo l’esigenza causale dalla natura del pensiero umano.
Tutte le idee non sorrette o non suscitate da un’impressione precedente, peraltro, sarebbero pure invenzioni.
L’uomo, a sua volta, è un assieme di impressioni, idee ed emozioni che si susseguono ed offrono un quadro continuamente mutevole dei contenuti coscienziali: non esisterebbe, quindi, un centro spirituale e sostanziale. Anche le scelte sarebbero il frutto dei sentimenti e degli impulsi passionali: la ragione avrebbe soltanto la funzione di prenderne atto. La conoscenza, così, sarebbe il risultato dell’abitudine o di sentimenti emotivi e l’esperienza non sarebbe, quindi, un assieme di acquisizioni capace di dare legittimità all’esperienza di fatto (David Hume, 1711-1776).
L’esperienza sensibile, quindi, presa per se stessa, non sarebbe sufficiente per creare un sapere razionale avente valore universale: le sensazioni fornirebbero immagini soltanto soggettive in quanto di reale ed oggettivo ci sarebbero esclusivamente i corpi o corpuscoli in movimento (Hobbes). La conoscenza sensibile, cioè, offrirebbe soltanto limitate e probabili cognizioni (Butler).
Necessita, quindi, il ragionamento (o calcolo dei termini verbali).
Peraltro, esperienza diretta (empirismo) ed astratto razionalismo, presi separatamente, sarebbero destinati a fallire: sarebbe necessario, quindi, raccogliere i dati dalla viva esperienza e rielaborarli intellettualmente (Bacon): il valore delle idee non si configurerebbe, infatti, nell’indicare l’essenza delle cose bensì nel cogliere le strutture di fenomeni mentali, i c.d. concetti.
La verità risiederebbe, quindi, nella relazione tra parole e contenuti mentali e non nelle cose: la verità sarebbe, quindi, una struttura della mente umana che dispone concetti secondo le proprie regole (Hobbes).
Seguendo soltanto la ragione, pertanto, ognuno può trovare il più nobile e preciso senso della propria esistenza (John Toland, 1670-1722).
Tuttavia, la strumentalizzazione della ragione, ovvero l’uso politico-economico di essa, può far emergere larghe aree di “anomia” ovvero di mancanza o ambiguità delle norme di comportamento.
Già nel 1700, nella Francia “illuministica”, la ragione viene proposta per ovviare ai dogmi metafisici, morali, religiosi e politici, definiti “pregiudizi”.
Anche la storia sarebbe frutto della ragione ovvero di un’azione consapevole dell’uomo.
La ragione deve, altresì, divenire strumento di razionalizzazione del potere in modo da costruire una società retta da istituzioni razionali e governata da un soggetto in nome della ragione (Voltaire): in tal senso, anche le religioni rivelate cederanno il posto ad una religiosità del tutto razionale con cui l’uomo vivrà un’esistenza morale autonoma (Lessing).
La religiosità, però, costituirebbe una sorta di ragione superiore (Pascal).
L’unica verità certa sarebbe, cioè, quella che può essere offerta dalla fede religiosa: la religione non sarebbe, infatti, un insieme di dottrine bensì Dio che parla all’uomo (Socrate). Questa la verità oggettiva.
E da Dio gli uomini imparano la vera umanità (Ratzinger, 2005): vivere senza Dio sarebbe, infatti, soltanto una sofferenza (Dostoevskij).
Nella negazione di ogni verità oggettiva si nasconderebbe una contraddizione insuperabile rispetto all’atto stesso con cui questa negazione è posta, atto che pretende, almeno implicitamente, di essere oggettivamente valido (card. Ruini, 2008).
Peraltro, affermare che Dio non esiste o che la stesso vocabolo sia un’espressione ed un prodotto dell’umana debolezza (Einstein, 1954) è insufficiente perché non determina la natura del Dio che nega ed il modo con cui viene operata tale negazione (card. Scola, 2008).
Non bisognerebbe, poi, attenersi a criteri di valore fondati su collaudati pregiudizi bensì spingersi nell’elaborazione dell’esperienza: qui si può trovare il criterio, tutto soggettivo, per valutare un evento. In altri termini, conoscere se stessi (Socrate) e nel confronto con le esperienze altrui si può costruire un criterio di giudizio etico. La consapevole rinuncia ad ogni ambizione di centralità nell’universo può, quindi, fornire quella saggezza che è equilibrio consapevole, senso della misura e rifiuto di ogni enfatizzazione del sentimento umanistico dell’esistenza (Michel de Montaigne).
Anche se l’intero creato è opera di Dio, la teologia dovrebbe, comunque, servire soltanto a comprendere i misteri della fede e non la natura delle cose sensibili (Galilei): la fede religiosa aspira ad una visione del bene-Dio in assoluto e, perciò, a qualcosa che non potrebbe rientrare nell’ambito del mondo sensibile e naturale dove, invece, la vita morale ed intellettuale sarebbe del tutto fondata sull’attività dell’anima “materiale” (Telesio).
L’esperienza religiosa, inoltre, non potrebbe avere un fondamento naturale bensì sarebbe un fatto istintivo e sorgerebbe dalle comuni passioni umane (Hume).
Fede religiosa e ricerca filosofica o ragione critica non possono coincidere (Hobbes) ed andrebbero, quindi, separate, tollerandosi reciprocamente (Bruno).
La vera conoscenza sarebbe, quindi, soltanto quella che permette di cogliere le qualità oggettive delle cose (Democrito, Galilei).
Pertanto, il primato delle teorie della conoscenza spetterebbe alla scienza, intesa sin dal 1600 nell’Europa occidentale come progresso: la giustificazione etica della scienza umana risiederebbe nel compito di risalire l’intera sequenza degli eventi (Leibniz). Inoltre, essendo la filosofia l’unione intima ed immediata dell’uomo con Dio, il conoscere naturale e scientifico assumerebbe anche valore morale (Nicolas Malebranche, 1638-1715).
La scienza, pur dovendo operare per la verità e nella più ampia autonomia, senza interferenze religiose o politiche (Pascal), con il metodo “osservazione-ipotesi-esperimento”, non dovrebbe, però, mirare a cogliere il perché in assoluto dei fenomeni naturali ma il come degli stessi (Galilei).
L’uomo, per spiegare la realtà sensibile, non dovrebbe, poi, ricorrere ad entità astratte o a supposti principi fisici non verificabili bensì badare alle cose nella loro immediatezza, all’esperienza e, quindi, ad una prospettiva costruita sperimentalmente (Voltaire).
Una conoscenza vera e propria deve essere chiara e distinta (Wolff). La scienza, quindi, dovrebbe evitare ogni supposizione che non possa essere provata sperimentalmente: ogni discorso fuori dal verificabile non può essere scientifico bensì morale, religioso, etico (Newton).
La scienza, comunque, non può sondare l’uomo interiore ovvero le “ragioni del cuore”: soltanto la morale, la filosofia e la religione potrebbero affrontare tale aspetto (Pascal).
La conoscenza potrebbe nascere dal discorso tra individui (Platone) e, comunque, dovrebbe far “partorire le anime” (Socrate).
La conoscenza, oltre che dall’esperienza, sarebbe costituita da tre diversi livelli, sensibile (fondata sull’opinione e sull’immaginazione e, quindi, produttiva di una visione morale inadeguata), razionale ed intellettuale (Spinoza) ovvero, poste in una diversa sequenza, da sensibilità, intelletto e ragione (Kant).
La conoscenza intellettuale, generante la consapevolezza dei nessi che legano gli eventi ed i pensieri, è quella massima (Spinoza): l’intelletto, in particolare, opererebbe mediante giudizi logici distinti secondo criteri di quantità, qualità, relazione e modalità (Kant). Al più alto grado della conoscenza corrisponde anche il grado più alto della moralità e questo è il raggiungimento della libertà.
La ricerca della verità, quindi, sarebbe soltanto un problema intellettuale e, perciò, della filosofia, non della fede: la religione avrebbe, invece, il compito di insegnare i suoi precetti morali ai semplici (Spinoza).
La filosofia avrebbe il compito di dare un senso universale alla serie di dati (filologici) e di stabilire alcuni assiomi che permettano di intendere il senso dell’operare dell’uomo.
Il “pensiero”, prodotto delle attività meccaniche del corpo (De La Mettrie), tuttavia, si ridurrebbe ad una presa di coscienza dell’esistenza e non ad un vero sapere dell’esistenza stessa (Vico): la conoscenza diretta della realtà estesa da parte del pensiero sarebbe impossibile poiché il soggetto avrebbe soltanto l’idea dell’estensione materiale e tale idea perderebbe significato, diversamente da quanto affermava Cartesio, in senso oggettivo e naturalistico (Malebranche).
Il mondo naturale e corporeo avrebbe la caratteristica dell’estensione: per un verso, la realtà estesa risulterebbe compresa in un modello meccanicistico (Cartesio); per altro verso, lo stesso concetto di estensione sarebbe addirittura equivoco, dato che l’uomo può pensare l’estensione come finita e come infinita, infinitamente divisibile o indivisibile (Pierre Bayle, 1647-1706). Non è possibile, cioè, intuire e penetrare la ragione totale del fatto e bisognerebbe, così, limitarsi ad una descrizione del tutto esteriore: l’uomo, quindi, non potrebbe conoscere la natura bensì soltanto ciò che ha creato e che crea (verum est factum) (Vico).
Le conoscenze umane sulla natura, cioè, sarebbero valide soltanto in un dato momento storico (Diderot): l’uomo, infatti, tenderebbe ad interpretare la natura secondo il suo stesso modo di essere. Sarebbero questi i pregiudizi (idoli) che impediscono alla mente umana di procedere ad una libera ricerca capace di intendere veramente i fenomeni naturali (Francis Bacon, 1561-1626).
Più in generale, è stato definito pericoloso un eccessivo ottimismo esaltante il sapere umano (Rousseau): ogni prospettiva conoscitiva avrebbe, infatti, limiti invalicabili ed il conoscere potrebbe soltanto mirare ad una sorta di “calcolo probabilistico” (Hume).
Bisognerebbe, quindi, distinguere tra sapienza umana e sapienza divina.
La sapienza di questo mondo è un modo di vivere e di vedere le cose prescindendo da Dio e seguendo le opinioni dominanti, secondo i criteri del successo e del potere. La sapienza divina, invece, consiste nel seguire la mente di Cristo (Benedetto XVI, 30 ottobre 2008).
Ogni forma di sapere, comunque, dovrebbe nascere da cognizioni certe ed evidenti, procedendo da elementi semplici che devono combinarsi nella formazione degli elementi composti. Le regole da seguire sarebbero, in ordine, l’evidenza (non accettare qualcosa come vero che non sia chiaro e distinto), l’analisi, la sintesi e l’enumerazione (con cui ripercorrere i vari passaggi logici): in tale contesto, il dubbio si rivelerebbe strumento di verità in quanto avrebbe il compito di liberare il terreno da ogni facile suggestione sensibile o razionale (Cartesio). Sarebbe da detestare, quindi, l’ottimismo di colui che non dubita (Sciascia).
Il dubbio, da cui discende l’etica del dialogo tra posizioni differenti, non sarebbe, così, il contrario della verità bensì un omaggio che le si fa: la verità cui si giunge, infatti, è suscettibile di essere di continuo riesaminata e riscoperta (Zagrebelsky, 2008).
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