Il cammino che ha portato all’affermazione del divieto assoluto di tortura e delle pene o trattamenti degradanti, ormai presente in tutti i documenti internazionali di tutela dei diritti dell’uomo ed in molte costituzioni internazionali, è stato lungo e irto di difficoltà legate soprattutto al fatto che, nel diritto comune, la tortura era considerata strumento processuale di cui avvalersi per la ricerca della verità e regolarmente inserita nell’ordo iudiciaris. Essa era resa necessaria dall’esigenza di reprimere adeguatamente i delitti, perché l’interesse pubblico di ordine era più importante dell’ingiustizia e dell’inumanità di tale strumento probatorio. Per questo i giuristi cercarono opportune cautele per garantire l’utilizzabilità del risultato processuale così ottenuto1, che rimase come strumento probatorio per oltre cinque secoli; erano, così, prescritte le forme da osservare, le cautele da seguire, i moduli da compilare per consentire che il rigoroso esame garantisse la confessione2.
Solo nel XVIII secolo, con la rivoluzione dell’Illuminismo, nacque un organico pensiero abolizionista sintetizzato nell’importante De tortura ex foris Christianorum proscribenda, pubblicato nel 1705 da Christian Thomasius, condiviso in Italia da illustri figure quali Cesare Beccaria e Pietro Verri: l’autore, dopo aver studiato la tortura sulla base del diritto esistente, la sottopose a severa critica “…secondo i principi della ragione e dell’equità…”, definendola ingiusta, inutile, inumana ed incivile e, quindi, da abolire.
Sotto la spinta di tali correnti di pensiero tra la seconda metà del 1700 e la prima del 1800 molti ordinamenti europei cancellarono la tortura giudiziaria. La condanna a morte, eseguita con tecniche efferate quali impalatura, bollitura, arrostimento e le punizioni corporali pubbliche rimasero, però, pene legali e forme comuni di castigo fino alla fine del XVIII secolo, perché considerate il metodo più efficace per il mantenimento della struttura sociale esistente e per la difesa dell’ordine di una classe contro il disordine dell’altra: il fondamento teorico della pena – supplizio era legato all’idea giusnaturalista dell’uguaglianza tra delitto e pena, che ben si esprimeva nella “legge del taglione”.
L’Illuminismo segnò l’inizio del “problema penale”, di cui la qualità della pena è uno degli aspetti e la dignità della persona un accessorio fondamentale, che portò ad un nuovo assetto del sistema giuridico delle sanzioni. La detenzione apparve essere la più “umana” e, al tempo stesso, la più funzionale delle forme di pena, perché graduabile quantitativamente in rapporto alla gravità dei reati. L’incarcerazione divenne, così, sanzione penale. Poiché brutali potevano essere alcuni aspetti della vita carceraria (sovraffollamento, precarie condizioni igieniche, abbrutimento della personalità), verso la fine dell’800 nacque un vasto movimento riformatore proiettato verso la creazione di un “carcere ideale” in cui la disciplina e la risocializzazione del detenuto erano considerati i fini da raggiungere.
Attualmente il mito della risocializzazione è stato messo da parte e ha determinato un “pessimismo penologico”3. Le posizioni più avanzate, l’abolizionista e la riduzionista, partono dalla comune affermazione del fallimento del concetto della pena “utile”, differenziandosi, però, sul concetto di necessità di mantenere un sistema legale di punizione, negata dai primi e affermata dai secondi. Tali argomenti sono stati comunque oggetto di discussione degli organi di tutela dei diritti umani di Strasburgo.
La tortura, dunque, è un metodo di coercizione fisica o psicologica, talvolta inflitta con il fine di punire o di estorcere delle informazioni o delle confessioni; molte volte è accompagnata dall’uso di strumenti particolari atti ad infliggere punizioni corporali. Come già detto, furono molti i pensatori e gli scrittori che denunciarono l’uso di questa pratica barbara e sanguinosa (per l’Italia si ricordi Cesare Beccaria e il suo scritto Dei delitti e delle pene del 1764). Ai giorni nostri, nonostante tra i principi ispiratori dell’odierna comunità internazionale vi sia l’imperativo del rispetto della dignità inerente la persona umana, cui non può sottrarsi nessun ordinamento giuridico, in molti paesi del mondo la tortura è usata sia come soluzione per punire i criminali sia come mezzo per estorcere informazioni, come più volte denunciato da varie associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani tra le quali Amnesty International.
Come molti ricordano, particolare impressione e polemiche nell’opinione pubblica mondiale suscitarono le torture consumate da parte del personale militare statunitense all’interno della prigione di Abu Ghraib, in Iraq, nel corso del 2003. Vi sono poi sospetti che trattamenti assimilabili alla tortura siano applicati, o lo siano stati, nel carcere statunitense di Guantanamo Bay (base militare americana in territorio cubano). Tra queste vi è stata la privazione del sonno e l’esposizione al freddo, per ammissione delle stesse autorità statunitensi.
Trattamenti di questo tipo costituiscono atti sanzionati dal diritto penale di ciascuno Stato contraente la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, come è noto, all’articolo 3 vieta espressamente queste pratiche. Inoltre, con la ratifica della Convenzione europea, gli Stati hanno assunto un obbligo positivo di far sì che tali trattamenti non possano essere inflitti a nessuno. Sono state proprio la (scomparsa) Commissione e la Corte europea4 a ritenere che l’articolo 3 della CEDU impone agli Stati una sorta di obbligo di comportamento positivo: ovvero, essi hanno l’obbligo di proteggere “ogni persona soggetta alla loro giurisdizione” contro una situazione irrimediabile di pericolo obiettivo di maltrattamento. Le autorità nazionali, quindi, non possono in alcun modo esimersi da tale obbligo sostenendo di non essere in grado di prevenire eventuali maltrattamenti che possono essere inflitti da forze di polizia, militari e/o altri funzionari.
Un breve esame comparativo della giurisprudenza internazionale sui casi di tortura ci porta a dover segnalare la significativa differenza che si ha tra gli organi di Strasburgo e quelle del Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite con riguardo alle varie forme di maltrattamenti. Mentre i primi distinguono tra tortura e trattamenti inumani e degradanti, il secondo non fa alcuna distinzione basata sul livello di intensità delle sofferenze.
Sono stati molti i ricorsi presentati nel tempo alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che hanno dato vita ad una giurisprudenza che ha enucleato tutta una serie di criteri, a partire da situazioni concrete, che permettono di prospettare delle definizioni tendenti a delimitare i diversi trattamenti vietati. Nel valutare se un trattamento è inumano la giurisprudenza ritiene che è da considerare se è stato applicato a lungo con premeditazione e ha causato se non delle vere lesioni, almeno delle vive sofferenze fisiche, mentali o la presenza di disturbi di carattere psichiatrico. È qualificato inumano quel trattamento che “provoca volontariamente sofferenze mentali e fisiche di una particolare intensità”. È considerato degradante, invece, quel trattamento, meno grave del trattamento inumano, che “umilia fortemente l’individuo davanti agli altri e che è in grado di farlo agire anche contro la sua volontà o coscienza”. In sostanza, nel descrivere se un trattamento è degradante bisogna vedere se l’azione sia di natura tale da creare nelle sue vittime sentimenti di paura, d’angoscia e di inferiorità capaci di umiliare ed avvilire la loro resistenza fisica e morale. La tortura non ha una definizione autonoma5 rispetto alle due precedenti categorie di trattamenti ma è da considerarsi una forma aggravata di un trattamento inumano e, dunque, in grado di causare sofferenze più intense. Come la Corte ha affermato: «Pour déterminer s’il y a lieu de qualifier de torture une forme particulière de mauvais traitement, il faut tenir compte de la distinction que comporte l’article 3 entre cette notion et celle de traitements inhumains ou dégradants. Il apparaît que cette distinction a été incluse dans la Convention pour marquer de l’infamie spéciale de la “torture” les seuls traitements inhumains délibérés provoquant de fort graves et cruelles souffrances»6.
I trattamenti vietati negli interrogatori di persone arrestate
Come è possibile osservare dando uno sguardo alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è molto frequente (anche se non è sempre presente) il richiamo all’utilizzo di trattamenti inumani e degradanti per estorcere delle informazioni, delle confessioni o altro. Soffermandosi sugli interrogatori di persone arrestate da forze dell’ordine, è possibile osservare tutta una serie di ricorsi presentati alla Corte europea concernenti, appunto, i maltrattamenti subiti dai ricorrenti durante interrogatori ad opera delle forze di polizia. A tal proposito è possibile analizzare sinteticamente alcune celebri sentenze della Corte europea di Strasburgo che hanno rappresentato, nel corso degli anni, una significativa evoluzione della giurisprudenza europea sull’articolo 3 della Convenzione di Roma.
Una celebre sentenza riguardante un ricorso tra stati emessa dalla Corte è stata il caso Irlanda c. Regno Unito. Nel 1971, durante un periodo particolarmente caldo sul fronte degli scontri fra separatisti cattolici e unionisti protestanti nell’Irlanda del Nord, si verificarono alcuni episodi di violenza nei centri speciali per la conduzione degli interrogatori, in particolare in quello denominato Palace Barracks. Questi luoghi di detenzione temporanea, creati con la legislazione d’emergenza in vigore durante quegli anni, diventarono presto famosi come centri in cui le forze militari di sicurezza e gli organi di polizia inglesi riuscivano ad ottenere, con ogni mezzo, confessioni e informazioni da parte dei terroristi dell’Ira o presunti tali. Quando il caso giunse davanti alla Corte europea, la Commissione aveva già espresso la propria posizione circa la violazione dell’articolo 3 della Convenzione e dunque la sussistenza di forme di tortura e trattamento disumano che, però, vennero giudicati episodi isolati imputabili ai singoli autori materiali. Lo Stato ricorrente, invece, intendeva ottenere dalla Corte una sentenza che, oltre a definire tortura le pratiche conosciute come “le cinque tecniche di interrogatorio” (la costrizione a stare in piedi con le mani appoggiate contro un muro per molte ore; l’incappucciamento per tutto il periodo della detenzione; gli intensi rumori e forti sibili inflitti; la privazione del sonno e la nutrizione a base esclusivamente di acqua e pane prima degli interrogatori), mai contestate dal Regno Unito, accertasse la sussistenza di una consuetudine attribuibile direttamente allo Stato. Le ragioni addotte dal Governo irlandese per supportare il proprio punto di vista mirano a sottolineare l’utilizzo, tutt’altro che sporadico, della violenza grave durante gli interrogatori, non solo nei luoghi sopra richiamati ma anche in molti altri dell’Irlanda del Nord durante il lasso di tempo fra il 1971 e il 1974.
Lo scopo del ricorso alla Corte è chiaro: ottenere una condanna che, accertando la tortura compiuta dai membri delle forze dell’ordine inglesi, in luoghi di detenzione ufficiali, attribuisca direttamente allo Stato britannico la responsabilità per i gravissimi maltrattamenti. La Corte invece con una sentenza del 29 aprile 1976, esprime un parere che tradisce in pieno le aspettative irlandesi. Sul piano sostanziale, la Corte non ritiene provati né gli elementi costitutivi della tortura, così come intesa ai fini della Convenzione, né la sussistenza di una pratica attribuibile allo Stato chiamato in causa. Tuttavia, quello che ai fini di questo ragionamento è importante osservare è la prima conclusione alla quale giungono i giudici di Strasburgo. La Corte, pur affermando la violazione dello stesso articolo 3, non concordò con la qualificazione di tortura data dalla Commissione alla condotta in esame (le cinque tecniche di interrogatorio). I giudici europei avendo definito la tortura come “deliberati trattamenti disumani atti a provocare sofferenze particolarmente gravi e crudeli”7 e, marcando la distinzione tra tortura e trattamento disumano nell’intensità delle sofferenze inflitte, hanno deciso che le cinque tecniche di interrogatorio utilizzate dalle forze dell’ordine del Regno Unito nell’Irlanda del Nord non avevano integrato gli estremi della tortura, bensì quelli del trattamento disumano e degradante.
Un’altra autorevole decisione della Corte europea di Strasburgo, degna di essere sinteticamente citata per le due importanti novità giurisprudenziali alle quali è giunta, è il caso Tomasi c. Francia in cui, il signor M. Tomasi, lamentava di aver subito da parte di alcuni funzionari di polizia (perché ritenuto un terrorista da parte delle autorità francesi), tutta una serie di maltrattamenti quali: schiaffi, calci, pugni, sputi, essere posto completamente nudo davanti ad una finestra, ecc. La Corte, accertando la violazione dell’articolo 3, ha ritenuto queste violenze essere trattamenti disumani e degradanti ma, ed è questa la prima nuova importante affermazione, ha aggiunto che nulla può giustificare che vengano inflitti trattamenti vietati dalla disposizione dell’articolo 3, neanche nel caso in cui i reati di cui una persona è accusata siano particolarmente gravi (come quelli commessi sullo sfondo della grande criminalità o del terrorismo, ad esempio). Dunque, il divieto di sottoporre una persona a tortura o a trattamenti e pene inumani o degradanti ha carattere assoluto: «Les nécessités de l’enquête et les indéniables difficultés de la lutte contre la criminalité, notamment en matière de terrorisme, ne sauraient conduire à limiter la protection due à l’intégrité physique de la personne»8. La seconda importante novità che viene fuori dal caso Tomasi c. Francia è la cosiddetta presunzione di causalità che impone al governo chiamato in causa, di offrire una plausibile spiegazione circa le lesioni riportate dal ricorrente, determinando così l’inversione dell’onere della prova.
Una nuova violazione dell’articolo 3 è stata rilevata dalla Corte europea il 28 luglio 1999 nella sentenza Selmouni c. Francia. Arrestato per reati connessi alla droga dalla polizia giudiziaria nel novembre 1991, Ahmed Selmouni, cittadino dalla doppia nazionalità marocchina e olandese, viene trattenuto per tre giorni a Bobigny. Il ricorrente si rivolge a Strasburgo lamentando maltrattamenti subiti durante il suo fermo di polizia. La Corte nella sua pronunciazione ha affermato che era stato “chiaramente stabilito che il signor Selmouni [aveva] subito violenze ripetute e prolungate durante vari giorni di interrogatorio”9. La Corte ha dichiarato anche che la violenza psicologica e fisica inflittagli – come per esempio calci e pugni, pestaggi con una mazza da baseball e un manganello, minacce e sevizie sessuali, tirate di capelli e altri trattamenti umilianti – “hanno provocato dolori particolarmente gravi e crudeli”10. I giudici di Strasburgo, constatando le brutalità poste in essere dalla polizia, abbassa la soglia di gravità richiesta per l’applicazione dell’articolo 3, qualificando tali violenze non già come trattamenti inumani e degradanti, ma come veri e propri atti di tortura. In questo modo la sentenza si manifesta particolarmente interessante perché rappresenta un punto di arrivo dell’evoluzione giurisprudenziale dell’interpretazione della nozione di tortura avendo (le violenze): «provoqué des douleurs et des souffrances “aigues” et revetent un caractère particulièrement grave et cruel. De tels agissements doivent être regardés comme des actes de torture au sens de l’article 3 de la Convention»11. Dunque, richiamandosi alla definizione di tortura contenuta nella Convenzione contro la tortura del 1984, la Corte ha valutato se le sofferenze inflitte al ricorrente fossero “aigues” come stabilito dall’articolo 1 della stessa Convenzione ONU.
Abusi all’interno delle carceri
Di diversa considerazione è la questione, anch’essa valutata dalla Corte europea, relativa alle violenze perpetrate all’interno delle carceri a danno dei detenuti. Pur non contenendo alcuna disposizione concernente espressamente il trattamento delle persone detenute, i giudici europei hanno più volte affermato che la detenzione non priva l’interessato delle garanzie dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione. I giudici di Strasburgo, nella consapevolezza che nella sanzione penale è insita l’umiliazione del condannato, hanno voluto evitare che l’esecuzione della pena potesse aumentare quel senso di umiliazione.
Nel caso Tyrer c. Regno Unito, la Corte stabilisce che una pena non può perdere la sua natura degradante solo perché è ritenuta essere, o realmente è, un effettivo deterrente o un mezzo per controllare il crimine. Soprattutto, come i giudici puntualizzano, non è mai permesso far ricorso a pene che sono contrarie all’articolo 3, qualunque possa essere il loro effetto deterrente.
Come detto, dunque, la Corte ha indicato che, per quanto concerne il campo di applicazione dell’articolo 3, la detenzione ordinaria non vi rientra in quanto tale. Nella sentenza Raninem c. Finlandia del 16 dicembre 1997, per esempio, la Corte ha affermato che l’uso delle manette non si può considerare una importante violazione dell’articolo 3 nella misura in cui non eccede le necessità e non espone una persona alla degradazione pubblica.
Nel caso Bollan c. Regno Unito che riguardava il mantenimento di un detenuto nella sua cella per ragioni disciplinari e che l’ha condotto al suicidio, la decisione di irricevibilità della Corte del 4 maggio 2000, a differenza di quanto disposto nella sentenza Keenan c. Regno Unito del 3 aprile 2001, si è fondata sul fatto che gli elementi raccolti nel corso dell’inchiesta hanno confermato che non vi era alcuna ragione di pensare che questi rischiava di suicidarsi, e inoltre la detenzione dell’interessato nella sua cella fu di breve durata.
La Corte, piuttosto, sanziona le forme di maltrattamenti che sono inflitti volontariamente in maniera violenta e non giustificata. Nel caso Aydin c. Turchia del 25 settembre 1997, la violenza sessuale durante una detenzione è stata assimilata alla tortura.
Una sentenza degna di particolare attenzione e che sottolinea anche la difficile realtà in Italia dei detenuti e di chi subisce la carcerazione preventiva, emerge dal caso Labita c. Italia, sollevato dal signor Benedetto Labita arrestato il 21 aprile 1992 con l’accusa di appartenere ad un’organizzazione mafiosa. Nel 1994, il Labita, presenta ricorso alla Commissione Europea dei diritti dell’Uomo dove denuncia di aver subito, nel carcere di Pianosa, dove era in custodia cautelare, brutalità e maltrattamenti (schiaffi e percosse, insulti e ispezioni corporali durante la doccia, danni alla sua protesi dentaria e agli occhiali, ecc.), da parte degli agenti di custodia. Il 29 settembre 1999 la Commissione, all’unanimità, dichiara ricevibile il ricorso di Labita e trasmette la questione alla Corte per la sentenza definitiva. Il 6 aprile 2000 arriva il verdetto. La Corte, per nove voti contro otto, ritiene che non ci sia stata violazione dell’articolo 3 per quanto riguarda le accuse di maltrattamenti, in quanto il ricorrente avrebbe denunciato con troppo ritardo i maltrattamenti subiti e non ha dunque fornito una prova “al di la di ogni ragionevole dubbio”12 di aver subito dei trattamenti sufficientemente gravi da entrare nel campo di applicazione dell’articolo 3. Tuttavia, all’unanimità, la Corte ritiene violato lo stesso articolo per il mancato svolgimento di indagini ufficiali sulle denunce di maltrattamenti effettuate dal Labita alle autorità italiane. Per l’organo di Strasburgo è importante, infatti, affinché il divieto di cui all’articolo 3 non sia inefficace, che si effettui “un’indagine ufficiale”, la quale “deve poter condurre all’identificazione e alla punizione dei colpevoli”13. Al contrario, la minoranza dei giudici ritiene che il rigore probatorio richiesto deve essere attenuato quando la lamentata violazione è commessa ai danni di una persona privata della libertà. La Corte, quindi, si spacca a metà nel giudizio finale. Per la minoranza dei giudici di Strasburgo, infatti, in queste ipotesi deve valere il principio secondo cui “quando i fatti possono, in tutto o in parte, essere conosciuti soltanto dalle autorità, come accade quando le persone sono in carcere, esistono serie presunzioni che le lesioni e i maltrattamenti si siano prodotti durante la detenzione”. Vi è dunque una presunzione di responsabilità a carico delle autorità.
Per quanto concerne la condizione di isolamento dei detenuti per ragioni disciplinari o di sicurezza, gli elementi che la Corte ha preso in considerazione per valutare se vi era stato un comportamento contrario all’articolo 3 sono diversi e la giurisprudenza si è molto evoluta. Nel caso Krocher e Moller c. Svizzera del 1978, la Commissione considerò le condizioni del ricorrente ristretto in una prigione di alta sicurezza, in isolamento, senza alcuna comunicazione con l’esterno, sorvegliato da una videocamera, costretto ad avere la luce accesa durante tutta la notte per dieci settimane, come non violazione dell’articolo 3. È passato molto tempo da questo tipo di decisione e in questi ultimi anni la Corte ha sempre affermato che l’isolamento sensoriale totale, combinato ad un completo isolamento sociale, può distruggere la personalità del detenuto ed è pertanto necessario valutare la necessità e la giustificazione di tale misura anche se, è il caso di specificarlo, pur stabilendo che lunghi periodi di isolamento sono stati qualificati non desiderabili14, la Corte non ne ha mai riscontrato l’incompatibilità con l’articolo 3.
Sempre tenendo in riferimento gli abusi all’interno delle carceri, ma con particolare riferimento al trattamento medico e le condizioni di salute, la giurisprudenza europea ci mostra molti interessanti casi in cui gli organi di tutela della Convenzione hanno più volte affermato che una detenzione in condizioni di grave nocumento alla salute dei detenuti può costituire una pena disumana e degradante. In tali ipotesi è in particolare la mancanza di adeguate cure mediche a sollevare problemi di compatibilità con l’articolo 3. Un interessante caso è quello che concerneva una giovane donna handicappata nei quattro arti, vittima della talidomine, che si lamentava delle condizioni di detenzione a cui era stata sottoposta in virtù dei suoi problemi fisici e che hanno costituito un trattamento degradante ai sensi dell’articolo 3.
Sull’assenza di cure in prigione la giurisprudenze della Commissione e della Corte si è evoluta; il diritto di beneficiare di cure mediche adeguate riconosciuta nel caso Hurtado c. Svizzera del 28 gennaio 1994 si traduce in un’obbligazione positiva degli Stati di proteggere l’integrità fisica delle persone private della libertà.
Per quanto concerne i malati mentali sono stati presentati molti ricorsi concernenti maltrattamenti contrari ai diritti dell’uomo nelle istituzioni psichiatriche giudiziarie. In un interessante caso contro il Belgio, che riguardava la detenzione di un internato nella sezione psichiatrica di una prigione, la Commissione ha affermato che le autorità devono tenere conto delle esigenze particolari della detenzione e sono responsabili dello stato di salute e dei detenuti che gli sono affidati. In particolare è stata discussa, in ambito europeo, l’assenza di una terapia adeguata e l’utilizzazione dei mezzi di contenzione. Nel caso Herczegfalvy c. Austria, del 24 settembre 1993, il ricorrente affermava che le misure sanitarie adottate nei suoi confronti, a seguito di una diagnosi di una malattia mentale, durante la sua detenzione, costituivano un trattamento disumano e degradante in quanto, per diverse settimane, gli erano stati forzatamente somministrati neurolettici, era stato messo in isolamento e, per sua stessa sicurezza, legato al letto. La Commissione ha riscontrato la violazione dell’articolo 3 reputando che le misure mediche prese non erano strettamente necessarie. La Commissione non è stata però seguita dalla Corte che, pur affermando che la protezione dell’articolo 3 si estendeva ai malati mentali, ha più volte affermato e sviluppato la teoria della necessità terapeutica dei mezzi di contenzione, ritenendo che “ne saurait, en général, passer pour inhumaine ou dégradante une mesure dictée par une nécessité thérapeutique”15.
Allo stato attuale, comunque, l’articolo 3 potrebbe essere utilizzato per interrogare la Corte riguardo alcuni diritti fondamentali che sono messi a rischio dalle condizioni di vita in prigione: il sovraffollamento, l’insufficienza di regole di igiene, l’assenza di intimità anche per i bisogni corporali, l’uso dei mezzi di contenzione, l’isolamento tanto sensoriale che sociale, i trasferimenti incessanti dei detenuti. Ci si potrebbe per assurdo domandare se la reclusione in sé, che mette in pericolo gli obiettivi costituzionali della detenzione come la prevenzione e il reinserimento, è suscettibile di costituire un trattamento inumano e degradante.
In conclusione, è doveroso fare un accenno ad uno strumento giuridico internazionale che costituisce una delle realizzazioni più importanti del Consiglio d’Europa nel campo della protezione non giudiziaria dei diritti fondamentali, ovvero la Convenzione contro la tortura e le altre forme di trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti del 1987. Questa, ricollegandosi all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si prefigge lo scopo di evitare che siano inflitti a chiunque sia privato della libertà, in qualsivoglia luogo di detenzione, trattamenti che possono essere qualificati come inumani, degradanti, o peggio di tortura. Al fine di realizzare questa prevenzione, è stato istituito un comitato di esperti indipendenti costituito da giuristi, medici ed esperti di politiche carcerarie, con il compito di effettuare un controllo preventivo attraverso visite periodiche nei luoghi di detenzione situati sul territorio delle Parti contraenti, da parte del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT). Il CPT compie visite in luoghi quali prigioni, carceri minorili, stazioni di polizia, caserme dell’esercito, ospedali psichiatrici, per constatare come sono trattati coloro che vi sono ospitati e, se necessario, avanzare raccomandazioni. Prima di procedere all’ispezione, il CPT deve informare lo Stato interessato. Le delegazioni del CPT possono accedere senza restrizioni a tutti i luoghi di detenzione e hanno al loro interno completa libertà di movimento. Possono intervistare i detenuti senza testimoni e avere accesso a chiunque possa fornire loro informazioni. A detta di molti esperti questo sistema di controllo preventivo si è rivelato, e potrà diventarlo sempre di più in futuro, un mezzo fra i più efficaci di tutela dei diritti dell’uomo. Dalle constatazioni che sono state eseguite dal Comitato, infatti, sono spesso seguite importanti modifiche, nella regolamentazione e nei comportamenti per quanto riguarda le condizioni di detenzione e, in generale, il trattamento delle persone private di libertà.
Bibliografia essenziale
B. CONFORTI, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2005.
M. DE SALVIA, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2001.
U. DRAETTA, Principi di diritto delle organizzazioni internazionali, Giuffrè Editore, Milano, 1997.
U. VILLANI, La protezione internazionale dei diritti umani, Luiss University Press, Roma, 2005.
1 Cordero, Guida alla Procedura Penale, Torino, 1986, pp. 48-50.
2 Marsini, Arsenale, ovvero pratica della Santa Inquisizione, Genova,1621, parte V.
3 Pavarini, Concentrazione e diffusione del Penitenziario, in La questione criminale, 1978, n° 1, p. 55.
4 Si veda il ricorso n° 10 479/83 Kirkwood c. Regno Unito, decisione della Commissione, 12 marzo 1984.
5 Solo l’articolo 1 della Convenzione internazionale contro la tortura, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 3 dicembre 1984, ne da una definizione che è internazionalmente accettata e che dispone così: «Le terme ‘torture’ désigne tout acte par lequel une douleur ou des souffrances aigues, physiques ou d’une tierce personne des renseignements ou des aveux, de la punir d’un acte qu’elle ou une tierce personne a commis ou est soupçonnée d’aoir commis, de l’intimider ou e faire pression sur une tierce personne, ou pour tout autre motif fondé sur une forme de discrimination quelle qu’elle soit, lorsqu’une telle douleur ou de telles souffrances sont infligées par un agent de la fonction publique ou toute autre personne agissant à titre officiel ou à son instigation ou avec son consentement exprès ou tacite. Ce terme ne s’étend pas à al douleur ou aux souffrances résultant uniquement de sanctions légitimes, inhérentes à ces sanctions légitimes, inhérentes à ces sanctions ou occasionnées par elles».
6 Si veda la sentenza Aydin c. Turchia, del 25 settembre 1997, sul sito internet: www.echr.coe.int.
7 Si veda la sentenza Irlanda c. Regno Unito, del 29 aprile 1976, sul sito internet: www.echr.coe.int.
8 Si veda la sentenza Tomasi c. Francia, del 27 agosto 1992, sul sito internet: www.echr.coe.int.
9 Si veda la sentenza Selmouni c. Francia, del 28 luglio 1999, sul sito internet: www.echr.coe.int.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Si veda la sentenza Labita c. Italia, del 6 aprile 2000, sul sito internet: www.echr.coe.int.
13 Ibidem.
14 Si veda la sentenza Erdem c. Germania, del 9 dicembre 1999, sul sito internet: www.echr.coe.int.
15 Si veda la sentenza Herczegfalvy c. Austria, del 24 settembre 1993, sul sito internet: www.echr.coe.int.
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