SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. LA FATTISPECIE – 3. L’ABUSO DEL DIRITTO: DISCIPLINA, EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE, CRITICITÀ; 3.1 Le disposizioni antielusive interne; 3.2 L’abuso nel diritto comunitario; 3.3 La giurisprudenza della Corte di Cassazione dal 2002 al 2006; 3.4 La giurisprudenza della Corte di Cassazione del 2008-2009; 3.5 L’evoluzione giurisprudenziale dopo le sentenze delle SS.UU. del 2008; 3.6 Le principali criticità connesse alla fattispecie dell’abuso del diritto – 4. LE STATUIZIONI SULL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA SENTENZA 1372/2011; 4.1 I tratti caratteristici dell’abuso del diritto già definititi dalla giurisprudenza di Cassazione; 4.2 Gli elementi di novità – 5. CONCLUSIONI
1. PREMESSA
La sentenza n. 1372 del 21 gennaio 2011 della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, relativa ad un caso di disconoscimento da parte dell’Amministrazione degli effetti fiscali di una fusione per incorporazione di alcune società facenti parte di un gruppo, costituisce un importante precedente nel quale il Giudice delle leggi sembra aver compreso il rischio che può portare l’applicazione indiscriminata del principio dell’abuso del diritto.
Nella riferita decisione, infatti, viene evidenziata la necessità del cauto utilizzo di tale istituto, soprattutto nelle ipotesi in cui l’attività d’impresa riguardi gruppi societari i quali, per forza di cose, sono mossi da logiche economiche e finanziarie diverse da quelle del singolo imprenditore.
La Corte, peraltro, richiamando i precedenti giurisprudenziali comunitari in materia, afferma la necessità di verificare che l’operazione oggetto di accertamento rientri in una normale logica di mercato, escludendone il carattere abusivo in presenza di ragioni extra fiscali le quali non si identificano necessariamente nel conseguimento di una redditività in tempi brevi, potendo avere anche scopi di natura meramente organizzativa funzionali ad un miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa.
Infine, riferendosi al caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour si spingono oltre, affermando, in modo innovativo rispetto al passato, “ che il sindacato dell’Amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa da quelle giuridicamente possibili (…) solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale”.
I detti principi – sebbene espressi in relazione all’art. 10 della Legge 29 dicembre 1990 n. 408 che ha costituito la prima norma antielusiva a carattere tendenzialmente generale e l’antecedente storico dell’attuale art. 37-bis del Dpr n. 600/73 introdotto con il D.Lgs. 8 ottobre 1997 n. 358 – costituiscono un importante arresto che attesta il chiaro ripensamento della Suprema Corte rispetto alle discutibili posizioni in tema di elusione fiscale assunte dal medesimo Giudice a partire dal 2005.
2. LA FATTISPECIE
Il gruppo Biochem dopo aver acquisito il controllo delle società italiane IFCI Clonesystem s.p.a. e Chemila s.p.a., nel 1994 acquisiva il controllo di Ares Diagnostic Holding BV (società di diritto olandese) a capo del gruppo svizzero Serono, operante in Italia con Ares Serono Diagnostici s.p.a. e Biodata s.p.a..
Biochem, poi, una volta trasferito il controllo di IFCI e di Chemila ad Ares Diagnostic Holding BV, nel 1995 trasferiva a Chemila – a titolo oneroso finanziato con prestiti da terzi – il pacchetto azionario di Biodata al fine di unificare sotto la stessa direzione attività produttive della stessa natura esercitate in una realtà industriale.
Il 31 dicembre del 1995 veniva poi perfezionata la fusione per incorporazione di Biodata in Chemila e nel 1997 Biodata s.p.a. e Ares Serono Diagnostici s.p.a. (nel frattempo già trasferite a IFCI Clonesystem s.p.a. ) venivano fuse per incorporazione in quest’ultima che assumeva la denominazione di Biochem Immunosystem Italia s.p.a. poi divenuta Adaltis Italia s.p.a..
Tanto premesso, l’Ufficio delle Entrate di Tivoli emetteva un avviso di accertamento IRPEG, ILOR e tributo straordinario (per oltre 2 miliardi e trecento milioni di lire) relativo all’ anno di imposta 1995 notificato alla Biochem Immunosystem Italia s.p.a. (poi Adaltis Italia s.p.a.) avente ad oggetto:
– la ripresa a tassazione di interessi passivi su prestiti da terzi volti a finanziare il capitale della società Biodata nell’ambito di una operazione di ristrutturazione aziendale;
– il disconoscimento delle perdite relative all’anno 1994 (portate in deduzione nella dichiarazione 1995), in quanto ritenute indeducibili in conseguenza dell’avvenuta emissione di altro avviso di accertamento relativo all’anno 1994.
L’Ufficio delle Entrate, in applicazione dell’art. 10 della Legge n. 408 del 19901, disconosceva i vantaggi fiscali derivanti dall’operazione di riorganizzazione aziendale sostenendo la natura elusiva dell’operazione, sia perché diretta all’abbattimento del reddito attraverso l’assunzione dei relativi costi, sia perché, ad avviso dell’ente impositore, lo stesso risultato poteva essere ottenuto mediante fusione tra le due società, assoggettata ad una tassazione più onerosa. Infatti, l’Ufficio delle Entrate contestava l’acquisto del pacchetto Biodata s.p.a. da parte di Chemila s.p.a e la successiva fusione per incorporazione della prima nella seconda ritenendo che lo stesso risultato potesse essere conseguito direttamente con la fusione senza previo acquisto del pacchetto azionario avvenuto con un pesante indebitamento verso i finanziatori dell’operazione.
3. L’ABUSO DEL DIRITTO: DISCIPLINA, EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE, CRITICITÀ
Prima di passare ad esaminare il contenuto della sentenza in commento, in considerazione del fatto che in essa è stata ripresa e meglio definita la nozione di abuso del diritto, si ritiene opportuno ripercorrere le tappe evolutive che hanno portato alla creazione del citato istituto in modo da apprezzare meglio la svolta compiuta dalla Cassazione.
Pertanto, nei paragrafi successivi:
– si inquadreranno le norme antielusive interne attualmente in vigore;
– si analizzeranno le più importanti pronunce della Corte di Giustizia sull’abuso del diritto nell’ambito dell’imposizione indiretta le quali hanno costituito il presupposto su cui la Cassazione ha introdotto il principio dell’abuso del diritto;
– si citeranno le principali sentenze della Corte di Cassazione dal 2000 fino a oggi, soffermandosi sulle note pronunce del 2008, con le quali la Corte riunita a SS.UU. ha stabilito l’immanenza della clausola antiabuso nel nostro ordinamento;
– si porranno in evidenza, infine, le numerose criticità relative al neo istituto dell’abuso del diritto.
3.1 Le disposizioni antielusive interne
L’inquadramento e la definizione dell’abuso del diritto non può prescindere ovviamente dalla nozione di evasione e quindi del suo ‘derivato’ abuso del diritto.
L’evasione consiste in comportamenti illeciti, finalizzati a non rendere conoscibile all’Erario l’esistenza del presupposto imponibile, oppure finalizzati ad occultare, in tutto o in parte, la base imponibile su cui andrebbe calcolata l’imposta dovuta in forza del presupposto imponibile noto2 3.
In buona sostanza, con l’‘evasione’ (o ‘non-elusione’) il contribuente si sottrae ai propri obblighi fiscali, nascondendo fatti veri, affermando circostanze false o applicando erroneamente (in buona o mala fede) la normativa sulla determinazione dell’imposta4.
Con l’‘elusione’, invece, il contribuente, al fine di risparmiare, aggira il presupposto di determinati obblighi o divieti stabiliti dall’ordinamento tributario5.
In altre parole, l’‘evasione’ (o ‘non-elusione’) è una violazione diretta della norma, mentre l’‘elusione’ (al ricorrere di alcuni presupposti determinati che verranno specificati oltre) è una trasgressione indiretta della disposizione tributaria obbligatoria.
Nel nostro ordinamento tributario non è prevista – al momento – una disposizione antielusiva generale che vieti l’impiego abusivo del diritto tributario, stabilendo l’inopponibilità al fisco delle operazioni di natura elusiva in presenza di alcune caratteristiche comuni e generali, senza prevedere una descrizione analitica delle singole fattispecie e uno specifico regime tributario. Sussistono, invece, alcune norme antielusive volte a fronteggiare fenomeni elusivi tipizzati, come quelle che limitano il riporto delle perdite nel caso di operazioni straordinarie (art. 172 del TUIR6 ) e quelle che limitano la deducibilità delle spese di pubblicità o di rappresentanza (art. 108 del TUIR7).
Detto ciò, va peraltro aggiunto che, in realtà, sebbene, come detto, al momento non sia configurabile nel sistema tributario italiano una norma antielusiva ‘aperta’, comunque esiste una disposizione ‘parzialmente aperta’ che, pur limitando il proprio ambito di applicazione a specifiche operazioni, non prevede una disciplina analitica delle fattispecie interessate.
Tale norma è l’art. 37–bis del Dpr 29 settembre 1973 n. 6008 che prevede la facoltà dell’Amministrazione finanziaria di disconoscere gli atti, i fatti o i negozi:
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privi di valide ragioni economiche
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volti ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti
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posti in essere mediante comportamenti diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario.
La citata disposizione di legge, al comma 3, prevede la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi sopra indicati solo se “siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni: a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; c) cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenze d’ imposta; e) operazioni di cui al decreto legislativo 30-12-1992, n. 544, recante disposizioni per l’ adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d’ attivo e scambi di azioni; f) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di bilancio, aventi ad oggetto i beni ed i rapporti di cui all’articolo 81, comma 1, lettere da c) a c-quinquies), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; f-bis) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo di cui all’ articolo 117 del testo unico delle imposte sui redditi; f-ter) pagamenti di interessi e canoni di cui all’ art. 26-quater , qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno Stato dell’Unione europea”.
In altre parole, dalla lettura della norma emerge in modo evidente che si può configurare e contestare l’elusività di una specifica operazione solo ed esclusivamente nel caso in cui ricorra una delle situazioni tipiche individuate dal legislatore puntualmente nell’art. 37–bis, comma 3, Dpr n. 600/73. Al di fuori dello specifico ambito della disposizione non è, quindi, possibile eccepire l’elusione, con la conseguenza che la fattispecie concreta che non sia inquadrabile tra le ipotesi a)/f–ter) rientrerà necessariamente tra i casi consentiti dalla legge non rappresentativi di elusione ex art. 37–bis, D.P.R. n. 600/73.
Sulla materia la dottrina più autorevole9 ha precisato che i comportamenti inopponibili all’Amministrazione finanziaria sono quelli per i quali si verificano contemporaneamente le seguenti quattro condizioni: a) si tratti di comportamenti privi di valide ragioni economiche; b) si tratti di comportamenti diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario; c) si tratti di comportamenti diretti ad ottenere riduzioni d’imposte, o rimborsi, altrimenti indebiti; d) si tratti di comportamenti che, nel loro ambito, comportano l’utilizzo di una o più delle operazioni indicate al comma 3 dello stesso art. 37–bis Dpr n. 600/73. Mancando, pertanto, anche uno solo dei requisiti di cui sopra, il comportamento non può essere considerato elusivo.
Anche nella Relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358 con cui è stato introdotto l’art. 37-bis viene precisato che la norma antielusione scatta solo se il contribuente ha utilizzato una delle operazioni specifiche indicate al comma 3 della citata norma. Pertanto, affinché la norma antielusione possa essere applicata occorre che almeno uno degli atti, fatti e negozi (anche collegati tra loro) previsti al comma 1 dell’art. 37–bis del Dpr n. 600/73 sia un’operazione di quelle indicate al successivo comma 3 dello stesso articolo10. Ne consegue che operazioni diverse da quelle tassativamente menzionate non possono comunque essere considerate ‘elusive’, anche se l’unica ragione economica che ha indotto il contribuente a farle è quella di conseguire un vantaggio fiscale.
Negli stessi termini si è espressa anche la stessa Amministrazione finanziaria la quale, in più occasioni, ha affermato che “l’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, consente all’Amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti, a condizione che nell’ambito di tale comportamento siano utilizzate una o più delle operazioni specificamente individuate dal comma 3”11.
Perciò, prima di tutto è necessario stabilire se l’operazione sia o meno elusiva, ossia diretta ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento e ad ottenere riduzioni di imposta o rimborsi altrimenti indebiti; se l’operazione non è elusiva, la valutazione del requisito delle valide ragioni economiche diventa irrilevante ai sensi dell’art. 37-bis, Dpr n. 600/73.
In altre parole, vi è una sorta di ‘sequenza di controllo’ che deve essere seguita per accertarsi che il contribuente abbia agito elusivamente: innanzitutto verificare l’aggiramento di obblighi o divieti per ottenere risparmio di imposta e, solo in caso positivo, controllare la esistenza di valide ragioni economiche. Se queste ultime non vi sono, allora (e solo allora) sarà configurabile una ‘condotta elusiva’ ex art. 37-bis del Dpr. n. 600/73.
3.2 L’abuso nel diritto comunitario
Il concetto di abuso del diritto è un principio generale immanente nell’ordinamento comunitario, poiché attiene alla corretta interpretazione e applicazione della normativa europea.
L’evoluzione della nozione di abuso del diritto nella normativa tributaria comunitaria si deve alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, la quale, attraverso la propria attività interpretativa, ha dato concretezza alle clausole antiabuso contenute nelle direttive in materia di Iva e in materia di imposte dirette.
Già dalla seconda metà degli anni ‘90, la Corte di Giustizia ha introdotto alcuni concetti di carattere generale, pur non dando una definizione compiuta della nozione di abuso del diritto12.
La pronuncia che viene considerata come il leading case in tema di abuso del diritto comunitario è la sentenza Halifax del 21 febbraio 2006 (C–255/02), nella quale i Giudici di Lussemburgo hanno sancito che, in ambito Iva, le operazioni abusive sono quelle che, nonostante l’applicazione formale delle condizioni dettate dalla normativa comunitaria e dalla legislazione nazionale che la traspone, procurano un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni. Deve, altresì, risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo essenziale delle operazioni sia l’ottenimento di un vantaggio fiscale.
Per parlare di abuso del diritto, si deve quindi in primo luogo stabilire se in astratto l’operazione si ponga in contrasto con la normativa comunitaria e poi, se del caso, se lo scopo dell’operazione sia il perseguimento del risparmio d’imposta.
Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia, inoltre, da un lato ha precisato che sono abusivi i comportamenti caratterizzati dalla realizzazione di situazioni create artificiosamente con l’unico scopo di ottenere un vantaggio fiscale e, dall’altro, ha circoscritto l’immediata applicabilità del divieto comunitario di abuso al solo ambito delle imposte armonizzate (Iva, accise ed imposte doganali) tralasciando il comparto relativo all’imposizione diretta13.
Rispetto alla sanzionabilità del comportamento abusivo, nella pronuncia è stato, altresì, specificato che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non può condurre all’applicazione di una sanzione – dato che per la sua configurazione sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco – bensì semplicemente ad un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte.
Nel 2008, a seguito di rinvio pregiudiziale promosso dalla Corte di Cassazione italiana, i Giudici di Lussemburgo sono tornati sull’argomento dell’abuso del diritto con la sentenza Part Service del 21 febbraio 2008 (C–425/06) chiarendo che:
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il primo elemento del comportamento abusivo è il perseguimento del vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria ad uno o più obiettivi delle direttive in materia;
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il vantaggio fiscale deve essere lo scopo essenziale e, pertanto, non è necessario che tale scopo sia anche l’unico scopo dell’operazione;
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il Giudice nazionale deve innanzitutto verificare se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria ad uno o più obiettivi della sesta direttiva e, successivamente, se abbia costituito lo scopo essenziale della soluzione contrattuale prescelta;
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quando un soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento di Iva. Al contrario, il soggetto passivo ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale14.
Laddove si verifichi una situazione di contrasto tra normativa interna e fonti comunitarie, spetterà al Giudice nazionale verificare, di volta in volta, se vi è spazio per una “interpretazione conforme” delle norme interne al diritto comunitario e decidere di tener conto, sulla base di elementi oggettivi, del comportamento abusivo o fraudolento dell’interessato per negargli eventualmente la possibilità di fruire delle disposizioni di diritto comunitario invocate.
3.3 La giurisprudenza della Corte di Cassazione dal 2002 al 2006
Il percorso compiuto dalla Cassazione per approdare alla attuale nozione di abuso del diritto è stato contorto e non privo di contraddizioni.
In un primo momento, il Supremo Giudice ha negato la contestabilità di operazioni economiche poste in essere in conformità agli schemi legali, ma dirette ad ottenere risparmi fiscali indebiti, affermando che atti, fatti e negozi posti in essere dal contribuente potessero essere causa di disconoscimento o riqualificazione fiscale esclusivamente in presenza di una norma espressa che ne prevedesse la natura elusiva.
Quale esempio di tale orientamento, si annoverano le sentenze n. 3979 del 3 aprile 2000, n. 11351 del 3 settembre 2001 e n. 3345 del 7 marzo 2002, nell’ambito delle quali i giudici di legittimità – pronunciandosi su operazioni di dividend washing e dividend stripping – ne avevano dichiarato la legittimità in considerazione del fatto che, all’epoca del compimento delle dette operazioni, non erano vigenti norme che permettessero di perseguire tali condotte15.
Nel 2005 la Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente in materia di dividend washing, nelle sentenze n. 20816 del 26 ottobre 2005, n. 20398 del 21 ottobre 2005 e n. 22932 del 14 novembre 2005 e, diversamente dalle decisioni precedenti, ha invece affermato la possibilità di qualificare un atto o una serie di atti come elusivi, anche in assenza di una specifica norma antielusiva, facendo richiamo agli istituti civilistici quali:
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la nullità per frode alla legge di cui all’art. 1344 del codice civile poiché le norme tributarie appaiono norme imperative poste a tutela dell’interesse generale del concorso paritario alle spese pubbliche (art. 53 Cost.);
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la nullità per difetto di causa di cui agli articoli 1418, comma 2 e 1325 n. 2) del codice civile dei contratti, in quanto dagli stessi non consegue per le parti alcun vantaggio economico, all’infuori del risparmio fiscale.
Nel 2006, sulla scorta della citata sentenza Halifax della Corte di Giustizia, la Cassazione, nella sentenza n. 10535 del 5 maggio 2006, ha abbandonato il precedente iter argomentativo fondato sul rinvio a istituti di matrice civilistica. La Corte, infatti, ha considerato sussistente anche nell’ordinamento interno il concetto generale di abuso del diritto di origine comunitaria quale presupposto per il disconoscimento della detraibilità di operazioni Iva volte a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale senza una reale e autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche.
Quattro mesi dopo, nella sentenza n. 21221 del 29 settembre 2006, i Giudici di legittimità si sono spinti oltre, affermando sorprendentemente l’applicabilità del principio comunitario di abuso del diritto in tutti i settori della fiscalità e, dunque, anche nell’ambito delle imposte dirette16.
E’ stata la svolta con cui l’istituto di origine comunitaria dell’abuso del diritto è entrato all’interno del nostro sistema e con cui, di fatto, si è consentito all’Amministrazione finanziaria di contestare operazioni elusive ben oltre i limiti fissati dallo stesso legislatore con l’art. 37-bis del Dpr n. 600/73.
L’estensione operata dalla Corte di Cassazione del principio comunitario di abuso del diritto anche al comparto interno delle imposte dirette ha provocato notevoli critiche fondate soprattutto sull’inappropriata applicazione da parte del Giudice di legittimità del concetto di abuso del diritto comunitario oltre l’ambito dei tributi armonizzati, peraltro in contrasto con le stesse indicazioni della Corte di Giustizia Europea.
3.4 La giurisprudenza della Corte di Cassazione del 2008-2009
Anche alla luce delle censure sopra riferite, la Cassazione, ormai determinata nel suo disegno, ha continuato il processo di elaborazione del principio di abuso del diritto e, con la sentenza n. 8772 del 4 aprile 2008, il Giudice delle leggi ha specificato che:
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non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria gli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano abuso di diritto e che, quindi, si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale;
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incombe sul contribuente fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico;
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il principio dell’inopponibilità delle operazioni perfezionate in abuso del diritto può essere introdotto anche nel giudizio di Cassazione a condizione della pendenza di un contenzioso relativo a comportamenti elusivi o fraudolenti.
Nella sentenza n. 25374 del 17 ottobre 2008, la Corte di legittimità – riprendendo le argomentazioni già svolte nelle sentenze n. 21221 e n. 22023 del 2006 – ha affermato che la nozione di abuso del diritto assume il ruolo di clausola generale dell’ordinamento tributario e che la sua matrice comunitaria comporta, da un lato, un ambito operativo esteso a tutte le fattispecie di entrate tributarie (oltre le ipotesi di armonizzazione normativa relativa all’imposta sul valore aggiunto, accise, prelievi doganali) e, dall’altro, l’obbligo per il Giudice nazionale di applicazione d’ufficio anche al di fuori di specifica deduzione e allegazione di parte.
A causa della persistenza delle censure della dottrina circa la non operatività dell’assunto generale comunitario rispetto alle imposte dirette di diritto interno, alla fine del 2008, le SS.UU. della Corte di Cassazione hanno posto fine alle critiche con le sentenze n. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008 e n. 15029 del 26 giugno 2009, con le quali, distaccandosi dalla propria precedente posizione, hanno ancora una volta ribadito la sussistenza nell’ordinamento interno di una clausola generale antiabuso affermando, però, che essa trova la sua fonte direttamente nella Carta costituzionale, ed in particolare nell’art. 53 della Costituzione.
In particolare, con le dette sentenze, la Corte ha statuito:
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che la fonte del principio di abuso del diritto, in tema di tributi non armonizzati17, quali, ad esempio, le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano. I principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Costituzione) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Costituzione) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Ne consegue che deve ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale;
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che siffatto principio non può in alcun modo ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 della Costituzione in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali;
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che il divieto di abuso del diritto è principio immanente del sistema giuridico, derivando direttamente dalla Costituzione e, pertanto, può essere eccepito anche ‘ex post’ in relazioni a fatti avvenuti prima della sua elaborazione da parte della Cassazione;
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che l’inopponibilità del negozio abusivo all’erario è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, pur riconoscendo l’onere in capo all’Amministrazione finanziaria di far valere la pretesa tributaria nell’atto impositivo. Ciò sulla base del fatto che sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste dall’ordinamento a vantaggio dell’Amministrazione finanziaria in una materia, come quella tributaria, che non rientra nella disponibilità della medesima Amministrazione.
3.5 L’evoluzione giurisprudenziale dopo le sentenze delle SS.UU. del 2008
A seguito delle sentenze delle Sezioni Unite del 2008 – 2009, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha emesso una cospicua quantità di decisioni, con le quali ha tratteggiato l’ambito di applicazione dell’abuso del diritto e i limiti della sua rilevabilità. La materia tuttavia è in continua evoluzione e, di conseguenza, il concetto di abuso del diritto si integra e accresce giorno per giorno.
Tra le numerose pronunce risultano di interesse:
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la sentenza n. 1465 del 21 gennaio 2009, relativa ad un caso di abuso incentrato sul difetto di inerenza di taluni costi sopportati da una società italiana – nel contesto della costituzione di una joint venture – per ammortamenti, interessi passivi e canoni indeducibili. Con tale decisione, la Corte di legittimità, interpretando in senso evolutivo le sentenze delle SS.UU. del 2008, ha fornito ulteriori precisazioni sul tema dell’abuso e della ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario affermando che:
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l’abuso costituisce una modalità di aggiramento della legge tributaria utilizzata per scopi non propri come forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico;
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compete all’Amministrazione finanziaria allegare i fatti e gli elementi costitutivi della pretesa tributaria e, nella specie, le circostanze a dimostrazione dell’oggettiva natura elusiva delle operazioni poste in essere dal contribuente. Nell’esercizio del potere di accertamento e nell’apprezzamento e valutazione degli elementi e circostanze di fatto e della tipologia di negozi giuridici posti in essere dal contribuente, l’Amministrazione finanziaria è chiamata allo svolgimento di un’attività di cognizione di natura altrettanto complessa ed elaborata, dovendosi confrontare con l’evoluzione degli strumenti giuridici e delle interrelazioni fra soggetti economici sovente necessarie per conseguire maggiori livelli di competitività. La medesima Amministrazione è tenuta, altresì, a esplicitare i motivi per cui una operazione è ritenuta abusiva, mettendo a confronto l’asserito comportamento abusato con il comportamento fisiologico aggirato onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica se non per pervenire a quel risultato elusivo;
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analogamente il contribuente è chiamato ad assolvere l’onere di illustrare e giustificare le motivazioni di carattere economico – concrete, effettive ed essenziali – poste a fondamento delle scelte operate nell’esercizio dell’attività d’impresa;
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la sentenza n. 12042 del 25 maggio 2009, nella quale la Corte – pronunciandosi in merito ad un’operazione relativa a un complesso aziendale ceduto da una stabile organizzazione non residente a favore di una società appartenente allo stesso gruppo – ha sancito l’applicabilità del principio anti–abuso anche ai fini dell’imposta di registro, escludendo dal valore del compendio aziendale le passività di natura finanziaria in quanto iscritte con chiaro intento elusivo al fine di sottrarre materia imponibile a tassazione;
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la sentenza n. 25127 del 30 novembre 2009, con la quale i Giudici di legittimità hanno sancito l’applicabilità della clausola generale dell’abuso del diritto anche all’ICI. In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che la simulazione di un vincolo di pertinenza, ai sensi dell’art. 817 c.c., al fine di ottenere un risparmio fiscale va inquadrato nella più ampia categoria dell’abuso di diritto;
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la sentenza n. 12249 del 19 maggio 2010, con la quale la Suprema Corte ha esteso il principio dell’abuso del diritto anche ai contratti tipici, privi di valide ragioni economiche e messi in atto solo per ottenere un indebito risparmio di imposta. Prima di tale pronuncia, infatti, la Corte di Cassazione aveva rilevato l’abuso del diritto nell’ambito di contratti atipici, posti in essere con l’intento esclusivo di sottrarsi agli obblighi fiscali ( contratti di sale and leaseback o di frazionamento di leasing, etc.);
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la sentenza n. 20030 del 22 settembre 2010 con cui la Corte di Cassazione, pronunciandosi in merito alla simulazione di contratti di soccida, ha ribadito il principio già espresso nella sentenza n. 1465 del 2009 in base al quale incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno abusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate18.
L’aspetto importante di tale decisione è che il Giudice di legittimità ha sancito l’onere a carico dell’Amministrazione finanziaria di documentare il vantaggio fiscale conseguito dal contribuente. L’enfasi posta sull’onere di prova documentale in capo all’Amministrazione finanziaria lascerebbe intendere un ripensamento da parte della Cassazione sul principio della rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice – in ogni stato e grado del giudizio – della natura abusiva dell’operazione, ancorché in assenza di contestazione nell’atto impositivo, come affermato nelle pronunce SS.UU. della Cassazione del 2008;
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la sentenza n. 22994 del 12 novembre 2010 (che rappresenta un antecedente logico della sentenza 1327/2010 in commento) con la quale i Giudici di legittimità, oltre ad affrontare il tema del rapporto tra abuso del diritto ed elusione (peraltro, a parere di chi scrive, con considerazioni non condivisibili in quanto volte ad affermare l’equivalenza tra le operazioni fittizie ed elusive), hanno offerto importanti aperture a favore del contribuente sottoposto ai controlli dell’Amministrazione finanziaria sulle sue scelte economiche19.
3.6 Le principali criticità connesse alla fattispecie dell’abuso del diritto.
a) I rapporti tra l’art. 37–bis del D.P.R. n. 600/73 e la nozione di abuso del diritto.
Pur con le differenze presenti in ciascuna delle sentenze citate, dall’analisi della segnalata rassegna giurisprudenziale emerge il dato costante in base al quale, secondo la Cassazione, l’abuso del diritto, sebbene non trasfuso in alcuna norma giuridica, è regola immanente nell’ordinamento tributario, perché direttamente discendente dalla Carta costituzionale.
Sembrerebbe, pertanto, doversi desumere che il principio di abuso del diritto possa essere invocato in via residuale tutte le volte in cui un’operazione elusiva non rientri nell’elencazione tassativa di cui all’art. 37– bis del Dpr n. 600/73.
Detto ciò, va tuttavia puntualizzato che il rapporto tra l’una e l’altra fattispecie si presenta problematico in quanto – appurato che gli elementi essenziali della fattispecie dell’abuso del diritto non sono definiti normativamente – nell’ambito dell’attività di verifica, l’Amministrazione finanziaria, ormai con sempre maggiore frequenza e con l’avallo degli stessi Giudici, configura come ‘abusive’ operazioni che invece rientrano nell’elencazione tassativa di cui al comma 3, dell’ art. 37–bis.
Tale configurazione non è di scarso rilievo, poiché mentre per le ipotesi di cui all’art. 37–bis del Dpr n. 600/73 le garanzie procedimentali poste a tutela del contribuente sono espressamente indicate nella disposizione di legge, nel caso dell’abuso del diritto, in mancanza di una norma di riferimento, non vi è alcuna garanzia espresse.
In particolare, il legislatore fiscale, nell’ipotesi in cui un’operazione rientri nell’alveo dell’art. 37– bis del Dpr n. 600/73 ha previsto una serie di tutele:
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l’avviso di accertamento deve essere emanato, a pena di nullità, previa richiesta di chiarimenti al contribuente nella quale devono essere indicati i motivi per cui si ritiene che l’operazione oggetto di accertamento è qualificabile come elusiva;
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fermo restando quanto disposto dall’art. 42, l’avviso di accertamento deve essere specificatamente motivato, a pena di nullità, in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente;
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le imposte o le maggiori imposte accertate sono iscritte a ruolo, in deroga ai principi generali relativi alle imposte dovute in pendenza del giudizio, solo dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.
Le riferite garanzie vengono meno, invece, nell’ipotesi di contestazioni di comportamenti abusivi. Ciò, ovviamente, favorisce condotte arbitrarie da parte dell’Amministrazione finanziaria, in contrasto con i principi basilari di lealtà e correttezza e determinando in capo al contribuente un’assoluta incertezza rispetto agli strumenti utilizzabili per partecipare al contraddittorio, ad armi pari, con l’Amministrazione finanziaria20.
b) La modificazione dell’oggetto del giudizio in corso di causa.
L’assenza di una procedura da seguire nella fase di accertamento di condotte ‘abusive’ assume importanza anche alla luce della rilevabilità dell’abuso del diritto da parte del Giudice in ogni stato e grado del processo, per effetto di quanto affermato nelle sopra riportate sentenze della Cassazione (sent. nn. 30055, 30056 e 30057 a SS.UU. del 23 dicembre 2008).
Tale situazione implica la insussistenza di tutela per il contribuente non solo nella fase pre–giudiziale ma anche in quella giudiziale, in quanto questi potrebbe ritrovarsi ad affrontare per la prima volta la contestazione di abuso del diritto in una fase già avanzata del processo, con ovvie conseguenze sull’esercizio del diritto di difesa.
Inoltre, come se non bastasse, si attribuisce al Giudice tributario un potere amplissimo consistente nella possibilità di superare i termini previsti, a pena di decadenza, per il compimento dell’accertamento fiscale che, ai sensi dell’art. 43 del Dpr n. 600/73, sono cogenti.
Ad avviso di chi scrive, inoltre, tale modus operandi non è in linea con il principio di immodificabilità dell’oggetto del giudizio, ex art. 7 ed art. 24 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 nonché dell’art. 183 del c.p.c..
Tale principio (c.d. divieto di ‘mutatio libelli’), prevede, ai sensi dell’art. 99 c.p.c., che è nella esclusiva disponibilità delle parti l’introduzione e la gestione del giudizio. Per effetto di ciò, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., una volta definite le proprie posizioni processuali, le parti non possono modificare le eccezioni e le conclusioni già formulate, ed il giudice può chiedere solo chiarimenti nell’ambito dei ‘fatti allegati’ dalle parti. Ulteriore manifestazione del summenzionato divieto di ‘mutatio libelli’ è altresì l’obbligo del Giudice, fissato dall’art. 112 c.p.c., di pronunciarsi nell’ambito della domanda e non oltre i limiti di essa, così come delineata dalle parti con i rispettivi atti introduttivi.
Come ha chiarito la Cassazione anche in tempi recenti, “si realizza la mutatio libelli qualora si avanzi una pretesa oggettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema di indagine e si spostino i termini della controversi, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare, in tal modo, il regolare svolgimento del processo”21.
Queste ‘regole’, stabilite dal codice di procedura civile, valgono anche per il processo tributario in base a quanto stabilito dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/92 il quale prevede che i giudici tributari applicano le norme processuali civili quando siano compatibili con il giudizio tributario e quando nulla disponga la normativa relativa a tale processo.
Detto ciò, comunque, si aggiunge che il principio di immodificabilità dell’oggetto del giudizio trova riscontro anche in ambito tributario. Infatti, l’art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 546/92 prevede l’esercizio dei poteri istruttori da parte della Commissione Tributaria ‘nei limiti dei fatti dedotti dalle parti’ e l’art. 24, comma 2, D.Lgs. n. 546/92 ammette solo l’integrazione dei motivi ed esclusivamente se vi è stato il deposito di nuovi documenti.
Come opportunamente chiarito dalla dottrina più autorevole, “la materia del contendere del processo tributario è delimitata, da un lato, dalla motivazione dell’atto impugnato, dall’altro, dai motivi del ricorso”22. “Il principio della domanda vi opera nel doppio senso che spetta alla parte il potere monopolistico dell’instaurazione del processo e che ad essa unicamente compete il potere di determinarne l’ambito; data la natura del suo oggetto, il processo è rigidamente strutturato e non tollera mutamenti di domanda, esigendo, anzi, una rigorosa corrispondenza tra chiesto e pronunciato”23. Per effetto di ciò, è stata esclusa per le Commissioni Tributarie “qualsiasi loro funzione supplente e sostitutiva rispetto all’operato dell’Ufficio fiscale e dello stesso contribuente; in particolar modo le Commissioni non possono confermare l’imposta accertata o accogliere il ricorso per ragioni diverse da quelle indicate, rispettivamente, nell’atto impositivo o nel ricorso”24. Di conseguenza, “nessun potere può riconoscersi alla Commissione in tema di individuazione dei fatti di causa” 25. E quindi “il giudice non può indagare sui fatti ulteriori rispetto a quelli posti a fondamento dell’atto impugnato (ed indicati nella motivazione) o indicati dalle parti nel processo”26.
Alla luce di tali inequivocabili elementi i quali escludono un potere cognitivo e decisionale del Giudice che travalichi l’ambito della controversia così come definita dalle parti, dunque, si può ben affermare che “non possano essere rilevate d’ufficio dallo stesso giudice, né di merito né di legittimità, le eccezioni favorevoli all’Amministrazione finanziaria, compresa quella consistente nella natura fiscalmente abusiva del negozio posto in essere dal contribuente”27.
Alla luce del quadro sopra illustrato, dunque, è chiaro che il cambiamento, in corso di causa, del ‘thema decidendum’ non sia adeguato alle regole consolidate sopra citate risultanti sia dalle norme di legge, sia dalla giurisprudenza di legittimità sia dall’opinione dei più illustri esperti della materia.
c) L’applicazione retroattiva del principio di abuso del diritto anche a fatti antecedenti alla sua elaborazione.
Altro profilo di non poco conto connesso all’introduzione del principio di abuso del diritto è rappresentato dall’affermazione della sua applicazione anche a vicende avvenute ben prima della sua enunciazione da parte della Cassazione.
Ciò, a nostro avviso, contrasta sia con il divieto di irretroattività ex art. 11 delle preleggi (applicabile anche nell’interpretazione delle norme di diritto), sia con il principio di buona fede ed affidamento ex art. 10 dello Statuto del Contribuente.
Per quanto attiene al divieto di irretroattività, si evidenzia che l’art. 11 delle ‘disposizioni sulla legge in generale’ stabilisce che la legge non ha effetto retroattivo. Il suddetto principio ovviamente è riferibile tanto alle norme (che appunto non devono avere efficacia retroattiva, salvo espressa previsione) quanto alla loro interpretazione giurisprudenziale di legittimità la quale, qualora muti rispetto al passato, non può essere applicata a fatti rispetto ai quali, quando compiuti, valevano principi interpretativi completamente diversi.
La ‘rilevanza normativa’ della interpretazione di legittimità trova conferma nello stesso codice di procedura civile il quale prevede la ricorribilità in Cassazione anche per ‘violazione e falsa applicazione di norme di diritto’ (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) allorquando la decisione di secondo grado si collochi in contrasto non solo con l’espressa norma di legge ma anche con la lettura interpretativa del ‘fatto’ compiuta dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Infatti, “va opportunamente precisato che il sindacato di legittimità ex art. 360 c.p.c. opera anche nei casi in cui gli standards valutativi si pongano in contrasto con regole che si configurano, per applicazione giurisprudenziale come diritto vivente”28
Si evidenzia che secondo la Corte Costituzionale, “l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 delle preleggi) e, se pur non elevato, fuori dalla materia penale, a dignità costituzionale, rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini”29.
In relazione al principio di buona fede ed affidamento ex art. 10 dello Statuto del Contribuente, la Cassazione osserva che “il contribuente è ammesso ad invocare [tale principio] a propria tutela (…) nel ricorso di determinate condizioni caratterizzate a) dall’apparente legittimità dell’azione dell’Amministrazione finanziaria, b) dalla buona fede costituita dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza e c) dalla concomitante sussistenza di ulteriori circostanze idonee a comprovare tali condizioni”30.
La stessa Cassazione ha meglio chiarito che “il principio dell’affidamento legittimo del contribuente nei comportamenti della Pubblica Autorità costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento (ricavabile dagli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione) che ha trovato sanzione in esplicite norme di legge (ad esempio, nella L. n. 212/2000, “Statuto del contribuente”), ma che vige a prescindere ed oltre la portata delle norme stesse. Perciò è applicabile anche a comportamenti anteriori alla L. n. 212/2000, in riferimento ai rapporti con i comuni, ed in relazione alla debenza dell’imposta (e non solo in relazione alla debenza di sanzioni e interessi)”31.
Orbene, non vi è dubbio che, con l’enunciazione del principio di abuso del diritto, caratterizzato da connotati ampi e generici, la Cassazione abbia inciso su principi consolidati e contenuti in precise disposizioni di legge con gravi effetti sulle garanzie del contribuente.
d) La sanzionabilità dell’abuso del diritto.
Un’ulteriore questione particolarmente critica e problematica attiene all’applicabilità, da parte dell’Amministrazione finanziaria, delle sanzioni amministrative (D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471) per effetto del recupero a tassazione dovuto al disconoscimento degli effetti fiscali di un comportamento rivelatosi abusivo.
Sul punto si registrano due diversi orientamenti dottrinali:
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la prima tesi32 sostiene l’applicabilità delle sanzioni non solo quando vi sia la diretta evasione della norma ma anche nel caso in cui venga contestato un comportamento abusivo. Ciò che fa scattare le sanzioni è il mero fatto di aver indicato impropriamente nella dichiarazione dei redditi determinati ricavi o costi o un’imposta inferiore rispetto a quella dovuta;
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la seconda tesi33, che sembra essere maggiormente condivisibile, esclude l’applicabilità delle sanzioni relative al comportamento abusivo del contribuente sul presupposto che la sanzione sia rappresentata già di per sé dal recupero a tassazione34 che discende dal disconoscimento degli effetti fiscali di un comportamento che, dal punto di vista giuridico–formale, non ha violato alcuna disposizione di legge.
A sostegno della seconda tesi, due sono le argomentazioni:
– innanzitutto l’esistenza del principio di legalità che impone la tassatività e determinatezza della fattispecie, il divieto di applicazione analogica nonché la irretroattività. Infatti, il presupposto dell’applicazione della sanzione deve essere previsto dalla legge in modo espresso e non può essere enucleato per via interpretativa da norme, anche se di rango costituzionale, come l’art. 53 della Costituzione35;
– in secondo luogo, l’incoerenza derivante dall’applicazione della sanzione alla fattispecie di abuso del diritto a cui non si collega alcuna violazione delle norme tributarie, ma soltanto un loro aggiramento.
In via giurisprudenziale, un importante margine di apertura verso la non applicazione delle sanzioni ai comportamenti abusivi, si è avuto con le sentenze della Corte di Cassazione n. 12042 del 25 maggio 2009 e n. 22994 del 12 novembre 2010.
Nella prima la Sezione tributaria della Cassazione ha stabilito che devono essere disapplicate le sanzioni in presenza di abuso del diritto poiché per tali ipotesi c’é incertezza sul corretto quadro normativo da applicare. Secondo il Giudice di legittimità il contrasto all’elusione deve essere attuato con prudenza e come correttivo eccezionale e, pur essendo vero che gli accertamenti “antiabuso” possono contenere l’irrogazione di sanzioni amministrative, è altrettanto vero che il contribuente può chiederne la disapplicazione per obiettiva incertezza normativa. A tale proposito si fa presente che la giurisprudenza precedente36 ha ritenuto di individuare tra i sintomi dell’ incertezza normativa oggettiva, tra l’altro, i casi di “difficoltà di individuazione delle disposizioni normative dovuta al difetto di esplicite disposizioni di legge” ovvero difficoltà “di confezione e di determinazione del significato della formula dichiarativa della norma giuridica individuata”.
Nella sentenza n. 22294/2010, il Giudice di legittimità, ribadendo quanto già indicato nella precedente sentenza n. 8487 del 2009, ha stabilito che il contrasto all’abuso del diritto, quando non vi sia una condotta fraudolenta, non ha come finalità quella di penalizzare il contribuente che non abbia commesso violazioni, ma quella di garantire l’eguaglianza del trattamento fiscale attraverso la riconduzione al regime fiscale proprio delle operazioni impropriamente sottratte a tale regime.
Da tale assunto, pertanto, sembrerebbe assodato che i Giudici di legittimità propendano per la non applicazione tout court delle sanzioni amministrative nel caso di contestazioni di comportamenti abusivi.
4. LE STATUIZIONI SULL’ABUSO DEL DIRITTO DELLA SENTENZA 1372/2011
Tornando alla sentenza 1372/2011 in commento, si evidenzia che la Corte di Cassazione nella prima parte della decisione ha fatto rinvio alla nozione di abuso del diritto riprendendo alcuni concetti già esplicitati in altre occasioni dalla medesima Corte, per evolvere, poi, in un secondo momento, verso statuizioni molto innovative.
4.1 I tratti caratteristici dell’abuso del diritto già definititi dalla giurisprudenza di Cassazione
In via preliminare i Giudici di legittimità hanno ribadito i tratti caratteristici del concetto di abuso del diritto ovvero:
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la sussistenza di una clausola generale antielusiva, di matrice comunitaria per quanto attiene ai c.d. tributi armonizzati e di matrice costituzionale (art. 53 della Costituzione), quali le imposte dirette, non riservati alla competenza degli organi comunitari;
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la riferibilità ad operazioni distinte e collegate tra loro, ove compiute al principale scopo di realizzare un risparmio fiscale.
La Corte sostiene che si considerano abusive le pratiche che, pur formalmente rispettose del diritto interno e comunitario, siano poste in essere al principale scopo di ottenere benefici fiscali contrastanti con la ratio delle norme che introducono il tributo o che prevedono esenzioni o agevolazioni. Il carattere abusivo è escluso soltanto dalla presenza di valide ragioni extrafiscali. Più avanti, poi, la Corte – disattendendo la tesi sostenuta dalla società in base alla quale affinché l’operazione sia ritenuta abusiva lo scopo di risparmio fiscale deve essere esclusivo – richiama il principio sancito dalla Corte di Giustizia (sentenza Part Service) secondo cui la presenza di ragioni economiche marginali o non determinanti non esclude il carattere abusivo dell’operazione.
4.2 Gli elementi di novità
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L’onere probatorio ripartito: espressione della libertà d’impresa e di iniziativa economica e nel diritto di difesa.
Nel ribadire che incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegare perché la forma giuridica (o il complesso di forme giuridiche) impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa e, di contro, che è onere del contribuente provare l’esistenza di un contenuto economico dell’operazione diverso dal mero risparmio fiscale, i Giudici di legittimità affermano che tale regime trova espressione nei diritti costituzionalmente protetti della libertà d’impresa e di iniziativa economica di cui all’art. 42 della Costituzione, nonché nel diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione.
Sottolineando la necessità del rispetto del riparto dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente, la Cassazione non fa altro che richiamare la regola di cui all’art. 2697 del codice civile in base al quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Tale regola trasposta nel giudizio di impugnazione di un atto o provvedimento impositivo implica che l’Amministrazione finanziaria deve fornire la prova degli elementi costitutivi della fattispecie che genera la pretesa37. Infatti, “è principio del tutto pacifico che è l’amministrazione pubblica e non il contribuente che deve provare la fondatezza delle proprie pretese fiscali, in applicazione dei principi generali sull’onere della prova previsti dall’art. 2697 c.c.”38 39.
In merito al sindacato delle scelte imprenditoriali antieconomiche compiute dal contribuente, è necessario, innanzitutto, individuare quando tale sindacato possa essere effettuato.
L’antieconomicità di un’operazione esprime un depauperamento patrimoniale o economico o finanziario che, rispetto alle logiche di impresa, è non conveniente, irragionevole, abnorme, anormale40.
La presenza di un’evidente irragionevole e antieconomica gestione aziendale, tale da adombrare il sospetto di una non veritiera esposizione dei valori contabili, può essere senza dubbio elemento per procedere alla formulazione di eventuali contestazioni ovvero per procedere ad indagini più approfondite, ma non può costituire l’esclusivo fondamento delle stesse senza violare il principio di libertà imprenditoriale riconosciuto dalla stessa Corte di Cassazione41.
La giurisprudenza di legittimità ha da sempre affermato che la negazione di un costo sostenuto da un’impresa ha giustificazione solo quando la spesa che si intende dedurre sia sproporzionata ed insensata42 lapidariamente affermando che il fisco non può certo interferire nel merito delle scelte imprenditoriali, disconoscendo la deducibilità di costi né sindacare sulla necessità o meno di un costo.43
Invero, per negare l’inerenza (e sindacare le scelte d’impresa) occorre che in concreto sia configurabile, tra le esigenze aziendali e le caratteristiche della spesa, una discrepanza così manifesta ed abnorme da far ritenere oltrepassata la sfera di discrezionalità dell’imprenditore44.
Del resto, già nel 2004 la Cassazione aveva sottolineato che non è possibile “sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione. (…) Le ragioni inerenti l’attività produttiva possono derivare, oltre che esigenze del mercato, anche da organizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti”45.
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I limiti all’applicazione della nozione di abuso del diritto: l’invito alla cautela nell’applicazione del principio
La Corte invita all’applicazione del principio dell’abuso del diritto secondo cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa.
I Giudici di Piazza Cavour prendono atto che l’esigenza di cautela è particolarmente sentita nei tempi recenti nei quali, a causa di un uso sempre più disinvolto dei c.d. tax shelters (detassazione degli utili), gli ordinamenti giuridici devono individuare adeguate forme di contrasto, anche all’infuori di una codificazione della clausola generale anti abuso (es. Gemania e U.S.A .).
I Giudici avvertono, inoltre, che la cautela che deve guidare l’applicazione del principio – qualunque sia la sua matrice – deve essere massima quando si tratti di ristrutturazioni societarie, specie se le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi d’imprese (a differenza invece delle operazioni finanziarie, di artificioso frazionamento di contratti o di anomala interposizione di stretti congiunti).
Ciò dipende dal fatto che la strategia sul mercato dei gruppi di imprese non può essere valutata come quella dell’imprenditore singolo in quanto non finalizzata al conseguimento di una redditività in tempi brevi.
Tale principio era stato enunciato dalla Commissione Europea nella sua Comunicazione del 198446 e più volte condivisa dalla Corte di Giustizia in materia di aiuti di Stato nelle imprese pubbliche allo scopo di definire il comportamento dell’investitore in economia di mercato che, nel caso di un gruppo d’imprese, può essere guidato, nel fornire misure di sostegno alle imprese del gruppo, da criteri non coincidenti con la redditività immediata della misura, per cui la stessa non può considerarsi aiuto incompatibile col mercato comune47.
Trasferendo, pertanto, la regola alla problematica dell’abuso del diritto – nella quale si tratta pur sempre di verificare se l’operazione rientra in una normale logica di mercato – i Giudici di legittimità ritengono che il carattere abusivo deve essere escluso per la compresenza, non marginale, di ragioni extra fiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione, ma possono essere anche di natura meramente organizzativa, e consistere in miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa. Tale è la regola emergente dal sistema, sul modello comunitario, che prende in considerazione soltanto il contenuto oggettivo dell’operazione.
Peraltro, secondo la Corte, il medesimo esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dal Trattato sull’Unione Europea non può essere limitato per ragioni fiscali. In particolare, i Giudici rinviano al diritto di stabilimento comunitario che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte comunitaria, comporta una libertà di scelta delle forme societarie, sia pure dettata da ragioni esclusivamente fiscali48.
Sulla base delle argomentazioni svolte, la Corte conclude che il sindacato dell’Amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale. In particolare, non può essere considerata abusiva la scelta di mantenere in piedi un distinto soggetto giuridico, invece di dar luogo alla creazione di un unico soggetto, in quanto, tale scelta non appare artificiosa, né come tale poteva considerarsi soltanto perché aveva comportato un maggiore risparmio fiscale.
5. CONCLUSIONI
Alla luce del nuovo orientamento qui analizzato e delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, appare quantomai evidente l’urgenza di dare una soluzione in via sistematica al problema dell’abuso del diritto.
Un primo riscontro potrebbe derivare dalla valutazione che sarà operata dalla Corte di Giustizia in risposta alle questioni di pregiudizialità poste con le ordinanze n. 18055 del 4 agosto 2010 e n. 22309 del 3 novembre 2010 dalla Corte di Cassazione italiana49.
A livello interno, tuttavia, si auspica una definizione normativa della materia.
Infatti, se è vero che l’abuso del diritto deriva direttamente dall’art. 53 della Costituzione (principio di capacità contributiva) che impone il rispetto della eguaglianza sostanziale, vale a dire a identica capacità contributiva corrisponde identica tassazione, è pur vero che l’impianto costituzionale è caratterizzato anche dal principio della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione che impone la predeterminazione normativa delle fattispecie rientranti nella nozione di abuso.
Non è possibile accettare che la giurisprudenza si sostituisca al legislatore e lo supplisca nella funzione legislativa che spetta al Parlamento. E’ infatti il legislatore a dover stabilire le regole che l’Amministrazione finanziaria e i contribuenti devono seguire e che i Giudici tributari devono applicare50.
L’esigenza di un intervento legislativo, infatti, si fonda sul presupposto che, mancando uno schema applicativo della clausola generale antiabuso, lo strumento lascia sia all’Amministrazione finanziaria sia ai Giudici tributari un margine discrezionalità eccessivo che si pone in contrasto:
– da un lato con i principi di eguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione, del buon andamento dell’Amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione e del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, in quanto l’Amministrazione finanziaria non è orientata nell’attività di accertamento delle condotte “abusive” da regole procedurali e di comportamento;
– dall’altro con il principio della terzietà e imparzialità del Giudice di cui all’art. 111 della Costituzione, poiché riconoscendosi al Giudice tributario la possibilità di rilevare d’ufficio le condotte abusive in ogni stato e grado del processo, sembrerebbe non darsi il giusto peso agli obblighi di obbiettività ed equità che la Costituzione impone alla figura giudicante.
Non è possibile neppure consentire che un contribuente che si era conformato alla legge, alla giurisprudenza e alla prassi amministrativa esistente in un determinato momento debba difendersi in futuro da eccezioni fatte valere ex novo dai giudici e fondate su presupposti che al momento della violazione non esistevano e non erano neppure prevedibili.
Una previsione legislativa della clausola generale antiabuso consentirebbe da un lato di evitare che il concetto di abuso del diritto venga utilizzato strumentalmente solo al fine di aumentare il gettito e, dall’altro, di ripristinare la certezza del diritto e il rapporto di lealtà e di fiducia tra l’Amministrazione e i contribuenti sancito nello Statuto dei diritti del contribuente e che non può essere ignorato.
Non poche perplessità, inoltre, si ravvisano in merito alle problematiche relative ai rapporti tra l’elusione (normativizzata) ex art. 37– bis del Dpr n. 600/73 e l’abuso del diritto, nonché all’assenza di una regola che disponga degli effetti a livello sanzionatorio della condotta abusiva.
In Parlamento sono state presentate alcune proposte di legge che, tuttavia, a tutt’oggi, sono ancora in attesa di discussione51. Le varie proposte suggeriscono di integrare il contenuto dell’art. 37–bis del Dpr 600/73 anche ai casi in cui la contestazione abbia ad oggetto una condotta abusiva.
A prescindere dalle modalità con le quali verrà realizzato l’intervento normativo (integrazione art. 37–bis del Dpr n. 600/73 o norma ‘ad hoc’), vari sono gli aspetti che dovrebbero essere presi in considerazione dal legislatore:
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sarebbe opportuna una definizione della clausola generale antiabuso in modo tale da escludere dal suo ambito applicativo quei comportamenti che integrino un risparmio di imposta lecito;
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sarebbe utile una specificazione dell’ambito di applicazione del principio generale anti–abuso, vale a dire l’individuazione delle imposte accertabili sulla base del principio generale antiabuso. A tal riguardo si ritiene che debba essere stabilito se l’abuso del diritto riguardi solo le imposte dirette o anche le indirette;
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andrebbero individuate le garanzie procedimentali da rispettare nel caso in cui venga emesso un avviso di accertamento che contesti una fattispecie di abuso del diritto;
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sarebbe utile la specificazione se siano applicabili o meno, in caso di condotta abusiva, le sanzioni penali o amministrative;
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dovrebbe essere espressamente limitato il potere del Giudice di rilevare d’ufficio in ogni stato e grado del processo la condotta abusiva;
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dovrebbe infine, essere prevista una clausola di salvaguardia per quei comportamenti qualificabili come abusivi, ma realizzati prima della entrata in vigore della norma sull’abuso del diritto.
Di tali esigenze si sono fatti portavoce anche i presidenti di Abi, Ania e Confindustria che, con una recente lettera al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, hanno chiesto l’intervento del Parlamento per porre riparo alla situazione di incertezza che si è creata in tema di abuso del diritto. Nel documento allegato alla lettera è possibile cogliere appieno la preoccupazione di queste associazioni di categoria: “L’abuso del diritto viene interpretato dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza come parametro soggettivo circa l’applicabilità o meno, in fattispecie concrete, delle norme di diritto positivo. Tenuto conto che le norme prevedono regimi fiscali differenziati per disciplinare fattispecie equivalenti nel risultato (…) sindacare la scelta operata perché non è quella più onerosa in termini di imposte dovute mina gravemente beni fondamentali quali la certezza del diritto, l’affidamento e la prevedibilità dell’operare di accertatori e giudici. (…) in Italia il fenomeno assume contenuti e forme patologiche, in quanto il ricorso alla nozione di abuso del diritto in sede di accertamento paralizza ogni legittima pianificazione fiscale. Qualsiasi decisione in tal senso deve mettere infatti in conto la possibilità che il comportamento adottato possa essere successivamente contestato per il solo fatto di non aver prescelto la soluzione fiscalmente più onerosa. La nozione di risparmio fiscale diventa in questo modo sinonimo di elusione.
(…) Per queste ragioni è dunque indispensabile una soluzione normativa in tema di abuso del diritto, che abbia il carattere di principio generale dell’ordinamento tributario al pari dello Statuto del Contribuente”.
1 Il citato art. 10 della L. n. 408/90 consentiva all’Amministrazione finanziaria di disconoscere, ai fini fiscali, la parte di costo delle partecipazioni sociali sostenuto e comunque i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta.
2 Cfr. E. ZANETTI, Abuso del diritto: in particolare sulla rilevabilità d’ufficio e sull’applicazione delle sanzioni, in il Fisco n.38/2010, p. 6123.
3 Sul punto si richiama anche l’opinione autorevole di Francesco Tesauro il quale chiaramente sostiene che “evasione è sinonimo di illecito (amministrativo o penale); essa è generalmente realizzata occultando il presupposto dell’imposta. Evasione, in altre parole, significa violazione diretta, aperta di norme fiscali, punita con sanzioni amministrative e/o penali. Chi evade pone in essere il presupposto d’imposta, ma poi si sottrae alle conseguenze fiscali che ne derivano; chi elude evita di porre in essere la fattispecie propria di un dato risultato economico e pone in essere una fattispecie equivalente, cui compete un trattamento fiscale più favorevole. L’elusione, a differenza dell’evasione, è data da un comportamento realizzato ‘alla luce del sole’ (…). L’elusione, insomma, è posta in essere con strumenti leciti, mentre l’evasione, per definizione, appartiene all’area dell’illecito” (F. TESAURO, ‘Nozione di elusione’ in Istituzioni di Diritto Tributario, Parte Generale, 2006, Torino, p. 249).
4 R. LUPI, Manuale Professionale di Diritto Tributario, Milano, 1999, pag. 71.
5 G. ZIZZO, La nozione di elusione nella clausola generale, Corriere Tributario, n. 39/2006, pag. 3088.
6 In base all’art. 172 comma 7 TUIR: “Le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2501-quater del codice civile, senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all’articolo 2425 del codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori. Tra i predetti versamenti non si comprendono i contributi erogati a norma di legge dallo Stato a da altri enti pubblici. Se le azioni o quote della società la cui perdita è riportabile erano possedute dalla società incorporante o da altra società partecipante alla fusione, la perdita non è comunque ammessa in diminuzione fino a concorrenza dell’ammontare complessivo della svalutazione di tali azioni o quote effettuata ai fini della determinazione del reddito dalla società partecipante o dall’impresa che le ha ad essa cedute dopo l’esercizio al quale si riferisce la perdita e prima dell’atto di fusione”.
7 Secondo l’art. 108 comma 2 TUIR: “Le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi. Le spese di rappresentanza sono ammesse in deduzione nella misura di un terzo del loro ammontare e sono deducibili per quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi. Si considerano spese di rappresentanza anche quelle sostenute per i beni distribuiti gratuitamente, anche se recano emblemi, denominazioni o altri riferimenti atti a distinguerli come prodotti dell’impresa, e i contributi erogati per l’organizzazione di convegni e simili. Le predette limitazioni non si applicano ove le spese di rappresentanza siano riferite a beni di cui al periodo precedente di valore unitario non eccedente euro 25,82”.
8 Ai sensi dell’art. 37-bis, comma 1, del Dpr n. 600/73, “sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.
9 P. CORSO, Il comportamento elusivo e il sistema penale tributario, in Corriere Tributario, n. 39/2002, pag. 3512 e ss.
10 Cfr. G. VASAPOLLI – A.VASAPOLLI, Analisi critica della nuova norma antielusiva, in Corriere Tributario n. 50/1997, pag. 3631 e ss.; P. ANELLO – F. DI DOMENICO, Profili applicativi della nuova norma antielusiva, in Corriere Tributario n.18/1998, pag. 1364 e ss.
11 Ris. Min. 05-04-2001, n. 41/E/2001/53927. In senso conforme: Ris. Min. 09-07-2001, n. 116/E; Ris. Min. 28-02-2002, n. 62/E; Ris. Min. 17-07-2002, n. 235/E.
12 Cfr. sentenza Leur-Bloem, C-28/95, sentenza ICI, C- 264/96, sentenza Centros, C- 212/97, sentenza Barbier, C-364/01.
13 Tale principio trova conferma nelle sentenze Cadbury-Schweppes del 12 settembre 2006, causa C-196/04 e Kofoed del 5 luglio 2007, causa C-321/05.
14 A tal proposito di veda anche E. FORTUNA, Abuso del diritto: orientamenti giurisprudenziali e applicazione analogica dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, in il Fisco n. 23 dell’8 giugno 2009, pag. 1-3747.
15 Di ciò, peraltro, aveva preso atto anche la stessa Amministrazione finanziaria la quale, in occasione delle prime due pronunce della Cassazione del 2000 e del 2001, aveva emanato la Circolare n. 87/E/ del 27 dicembre 2002 in cui, rivolgendosi agli uffici locali, addirittura aveva suggerito di abbandonare “le liti nelle quali si controverta solo in via di principio della illiceità tributaria del dividend washing”.
16 Tale principio è stato ribadito anche nella sentenza n. 22023 del 13 ottobre 2006 della Corte di Cassazione.
17 I tributi armonizzati sono l’Iva, le accise ed i diritti doganali.
18 Cfr. A. MARCHESELLI, La cassazione limita la nozione di elusione all’aggiramento dello scopo di legge, in 41/2010, p. 3372.
19 Cfr. G. FRANSONI, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni in Corriere Tributario, n. 1/2011 p. 13.
20 Vale la pena peraltro evidenziare che la Cassazione è stata smentita nella sua lettura riduttiva dell’art. 37-bis del Dpr n. 600/73 anche dalla Consulta che, con una recente ordinanza, ha sottolineato la radicale importanza del contraddittorio nel procedimento tributario stigmatizzando la grave violazione di legge che si realizza ogni volta che gli avvisi di accertamento non siano preceduti dall’indispensabile contraddittorio con il contribuente (Corte Costituzionale, Ord. 24 luglio 2009, n. 244).
21 Cass. Civ., Sez. III, 22 giugno 2007, n. 14573. Conforme: Cass. Civ., Sez. II, 28 marzo 2007, n. 7579.
22 G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Milano, 1996, pag. 118.
23 C. GLENDI, Processo Tributario, Enciclopedia Treccani, Vol. XXIV; Torino, 1991.
24 R. LUPI, Diritto Tributario – parte generale, Milano, 1996, pag. 229.
25 P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1996, pag. 460.
26 F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Vol. 1, Torino, 1991, pag. 349.
27 D. DEOTTO, Percorsi fiscali, Milano, 2009, pag. 287.
28 G. Campeis – A. De Pauli, Il giudizio di Cassazione, Milano, 2006, pag. 80.
29 Corte Costituzionale, Sent. 4 aprile 1990, n. 155.
30 Cass. Civ., Sez. Trib., 10 dicembre 2002 n. 17576.
31 Cass. Civ., Sez. Trib., 22 giugno 2006, n. 21513. Conformi: Cass. Civ., Sez. Trib., 13 novembre 2003, n. 17129. Conformi: Cass. Civ., Sez. Trib., 21 marzo 2001, n. 4050; Cass. Civ., Sez. Trib., 22 novembre 2001, n. 14782.
32 Cfr. E. ZANETTI, Abuso del diritto: in particolare sulla rilevabilità d’ufficio e sull’applicazione delle sanzioni, in il Fisco n.38/2010, p. 6123.
33 Cfr. R. LUPI, Esperienze giurisprudenziali su elusione e sua sanzionabilità, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 7/2007; L. CARDASCIA, Inapplicabilità delle sanzioni per comportamenti elusivi, in Corriere Tributario n. 7/2007, pag. 562 e ss.
34 Cfr. A. BALLANCIN, Esperienze giurisprudenziali su elusione e sua sanzionabilità, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 7/2007 , pag. 637.
35 Sul punto, già la Corte di Giustizia CE, nella nota sentenza Halifax, già citata, aveva negato la sanzionabilità della condotta ‘abusiva’ non perché la stessa non fosse, in sé, illecita, ma perché l’applicazione di una sanzione richiede un fondamento normativo chiaro e univoco.
36 Cass. Civ., Sez. Trib., 28 novembre 2007, n. 24670.
37 Cfr Cass., Sez. Trib., 4 ottobre 2000, n. 13180.
38 Cass. Civ., Sez. Trib., 27 gennaio 2004, n. 1374. Conformi: Cass. Civ., Sez. I, 11 ottobre 1997, n. 9894; Cass. Civ., Sez. Trib., 15 marzo 2004, n. 5263.
39 Per completezza vale la pena di ricordare che la stessa Amministrazione finanziaria ha sottolineato che “esiste una ‘regola generale’ che pone a carico dell’Ufficio, quale attore ‘sostanziale’ del processo tributario, l’onere di provare la fondatezza dei fatti sui quali poggia la pretesa tributaria (…)”. Invero, l’Ufficio può limitarsi anche solo a motivare l’atto impositivo, “salvo, poi, in un’eventuale sede giudiziale, corroborare tale motivazione con l’esibizione di concreti elementi probatori, pena l’annullamento del provvedimento impugnato (…)”Circ. Min. 4 aprile 2002, n. 26/D, Agenzia Dogane.
40 M. PISANI, La valenza presuntiva dei comportamenti antieconomici dell’imprenditore, in Corriere Tributario, 2001, p.1060.
41 Cfr. Cass. Civ., 8 luglio 2005, n. 14428.
42 Tra le tante: Cass. Civ., Sez. Trib, 9 febbraio 2001, n. 1821. Conformi: Cass. Civ., Sez. Trib., 27 settembre 2000, n. 12813; Cass. Civ., Sez. Trib., 30 ottobre 2001, n. 13478; Cass. Civ., Sez. Trib., 30 luglio 2002, n. 11240.
43 Cfr R. LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano 2001, pag. 580. Negli stessi termini anche P. RUSSO, La giurisprudenza della Corte tra disfavore per il formalismo giuridico e valorizzazione delle garanzie del contribuente, in Rassegna Tributaria n. 4/2001, pagg.1079 e ss.
44 R. LUPI, Il controllo di inerenza, in F. Crovato – R. Lupi, Il reddito d’impresa, Milano 2002, pag. 92.
45 Cass. Civ., Sez. Lavoro, 4 novembre 2004, n. 21121.
46 Applicazione degli artt. 92 e 93 del trattato CE alla partecipazione delle autorità pubbliche nei capitali delle imprese, in Boll. CE 9-1984
47 I Giudici, inoltre, sottolineano che la regola dell’investitore di gruppo è stata applicata dalla Corte di cassazione in alcune decisioni (n. 10062/2000 e 1133/2001), con le quali è stata riconosciuta la deducibilità di costi generali addebitati a partecipate o stabili organizzazioni italiane da società madri non residenti, anche se le dette strutture non producevano ricavi.
48 La Corte di cassazione richiama la sentenza Centros, nella quale la Corte di Giustizia è giunta a negare il carattere abusivo della collocazione della sede di una società in uno Stato esclusivamente perché ivi prevista una regolamentazione giuridica più favorevole, anche se non viene ivi svolta alcuna attività d’impresa.
49 Con le ordinanze n. 18055 del 4 agosto 2010 e n. 22309 del 3 novembre 2010 la Corte di Cassazione, mediante rinvio pregiudiziale, ha posto alla Corte di giustizia una serie di quesiti. In particolare, sono state poste le seguenti questioni interpretative riguardanti i profili di abuso del diritto:
– se il principio del contrasto all’abuso del diritto in materia fiscale costituisca un principio fondamentale del diritto comunitario soltanto in materia di imposte armonizzate e nelle materie regolate da norme di diritto comunitario secondario, ovvero si estenda, quale ipotesi di abuso di libertà fondamentali, alle materie di imposte non armonizzate, quali le imposte dirette, quando l’imposizione ha per oggetto ritardi economici transnazionali, quale l’acquisto di diritti di godimento da parte di una società su azioni di altra società avente sede in altre Stato membro o in uno Stato terzo;
– se sussista un interesse di rilevanza comunitaria alla previsione, da parte degli Stati membri, di adeguati strumenti di contrasto all’elusione fiscale in materia di imposte non armonizzate e se a tale interesse osti la non applicazione – nell’ambito di una misura di condono – del principio dell’abuso del diritto riconosciuto anche come regola del diritto nazionale e ricorra, in tal caso, una violazione dei principi ricavabili dall’art. 4, comma 3, del Trattato sull’Unione Europea.
50 Cfr. M. BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra Fisco e contribuente, in Rivista di diritto tributario n. 5/2009, parte seconda, pag. 408. Idem: G. MARONGIU, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principio di legalità, in Corriere Tributario n. 44/2009, pag. 3632.
51 Si rileva che al momento vi sono tre proposte di intervento legislativo all’esame della commissione Finanze della Camera dei deputati per porre rimedio alla situazione di incertezza causata dall’introduzione per via giurisprudenziale dell’istituto dell’abuso del diritto. Su queste tre proposte è partito la settimana scorsa l’esame con la relazione svolta dal relatore Maurizio Leo (autore di una delle tre proposte) e con una serie di audizioni in programma da parte della commissione. Oltre a quella dell’onorevole Leo, le altre due proposte sono state avanzate da esponenti del Pd (primo firmatario Ivano Strizzolo) e da un esponente del Pdl (Giorgio Jannone).
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