Premessa
L’art. 2 della L. 212 del 27/07/2000 (c.d. statuto del contribuente), rubricato “chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie”, stabilisce alcune regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi in materia tributaria.
Comune finalità di queste regole è quella di privilegiare la semplicità di interpretazione delle norme tributarie. Ed infatti, è chiara l’esigenza che ogni precetto normativo sia formulato evitando qualsiasi ambiguità semantica e sintattica e rispettando, per quanto possibile, sia il principio della semplicità che quello della precisione; è inoltre opportuno che ogni atto legislativo contenga una disposizione che indichi espressamente le disposizioni abrogate in quanto incompatibili con la nuova disciplina recata. Lo stesso principio deve valere per le disposizioni prorogate in regime transitorio.
È, altresì, privilegiata la modifica testuale (“novella”) di atti legislativi vigenti, evitando modifiche implicite o indirette.
A tutt’oggi, però la mancanza in alcune disposizioni della chiarezza tanto raccomandata, crea per assurdo problemi allo stesso legislatore.
Si inizia con brevi cenni sull’evoluzione normativa degli ultimi venti anni circa, in merito alla tassa di smaltimento dei rifiuti urbani.
- Dal 1993 al 1997: VIGENZA TARSU
Con la L. 23/10/1992 n. 421 fu conferita delega al Governo per la razionalizzazione delle discipline normative in materia di finanza territoriale. Tale delega portò all’emanazione del D.Lgs. del 15 novembre 1993, n. 507 (“revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale”), attraverso il quale il Legislatore, pur mantenendo pressoché inalterato l’impianto generale della TARSU, ne ha ridefinito i caratteri rendendo più marcata la sua natura di “tassa”, attraverso il rafforzamento del legame tra la sua corresponsione e la prestazione del servizio pubblico di rimozione dei rifiuti.
- Dal 1997 al 2006: VIGENZA TIA
- 1997-1999: il 2 marzo 1997, è entrato in vigore il D.Lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997. Lo stesso decreto, all’art. 49, contiene una norma abrogativa espressa, che così stabilisce: “La tassa per lo smaltimento dei rifiuti di cui alla sezione II dal Capo XVIII del titolo III del testo unico della finanza locale, approvato con regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175, come sostituito dall’articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, ed al capo III del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 è soppressa a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio, disciplinato dal regolamento di cui al comma 5, entro i quali i comuni devono provvedere alla integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani attraverso la tariffa di cui al comma 2”.
Allo stesso comma, la norma di cui all’art.49 stabilisce altresì l’istituzione di un regime transitorio per il graduale adeguamento da parte dei Comuni del regime di prelievo, passando dall’applicazione di un tributo non più vigente alle regole della nuova normativa in materia di gestione del servizio rifiuti, la quale, a differenza dell’istituto previgente, prevede la copertura integrale dei “costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico”.
- 1999- 2002: nel 1999 viene emanato il regolamento (D.P.R. 158 del 27/04/1999) attuativo del D.Lgs. 22/1997. L’art. 11 del D.P.R.158/1999 rubricato “disposizioni transitorie” detta disposizioni per disciplinare il regime transitorio per il graduale adeguamento alla nuova normativa in materia di rifiuti, stabilendone inizialmente la durata massima di “tre anni”.
- 2002-2003: la L. 27 dicembre 2002, n. 289 (Finanziaria 2003), all’art. 1, ha modificato da “tre anni” a “quattro anni” il termine di cui all’art.11 del D.P.R. n. 158 del 27 aprile 1999.
- 2003-2004: il termine per l’adeguamento alla TIA di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 158 del 27 aprile 1999 è stato modificato da “quattro anni” a “cinque anni” dalla L. n. 299 del 27 dicembre 2003 (Finanziaria 2004).
- 2004-2005: il termine per l’adeguamento alla TIA di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 158 del 27 aprile 1999 è stato modificato da “cinque anni” a “sei anni” dall’art. 1, comma 523, della L. n. 311 del 30 dicembre 2004 (Finanziaria 2005).
- 2005-2006: il termine per l’adeguamento alla TIA di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 158 del 27 aprile 1999 è stato modificato da “sei anni” a “sette anni” dall’art. 1, comma 134, della L. n. 266, 23 dicembre 2005 (Finanziaria 2006).
- Dal 2006 a oggi: VIGENZA CODICE DELL’AMBIENTE
- Il 29 aprile del 2006 è entrato in vigore il D.Lgs. n. 152 del 03 aprile 2006 (c. d. Codice dell’ambiente), che all’art. 264 contiene una norma abrogativa espressa del D.Lgs. n. 22 del 05 febbraio 1997, mentre l’art. 238, comma 6, stabilisce un termine, inizialmente di sei mesi, per l’emanazione del regolamento di attuazione della nuova normativa.
- 2006-2007: la L. n. 296 del 27 dicembre 2006 (Finanziaria 2007) ha stabilito all’art.1, comma 184, lett. a) che “ il regime di prelievo relativo al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti adottato in ciascun comune per l’anno 2006 resta invariato anche per l’anno 2007 e per il 2008”.
- 2008-2009: il D.L. n. 208 del 30 dicembre 2008, convertito, con modificazione, dalla legge n. 13 del 27 febbraio 2009, recante “misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente” ha stabilito all’art. 5, comma 1, che “all’art. 1, comma 184, della legge 27/12/2006 n. 296, sono apportate le seguenti modifiche: a) alla lettera a), le parole: «e per l’anno 2008» sono sostituite dalle seguenti: «e per gli anni 2008 e 2009»”.
- 2010 e 2011: manca del tutto per l’anno 2010 una norma di proroga del regime transitorio previsto dall’art.1, comma 184, della L. n. 296 del 27 dicembre 2006, così come, invece, prevista per gli anni precedenti.
E poiché l’articolo 23 della Costituzione stabilisce una riserva di legge in materia tributaria, non è più possibile per i Comuni richiedere il pagamento della Tarsu, in quanto non esiste più alcuna norma di fonte primaria che legittimi l’applicazione della relativa legge (D.Lgs. 507 del 15 novembre 1993). E pertanto gli eventuali regolamenti emanati dai Comuni e applicativi della Tarsu saranno da considerarsi, inevitabilmente, illegittimi.
Il legislatore, inoltre, come si specificherà meglio nel prosieguo della presente relazione, ha previsto l’applicabilità della Tariffa Integrata Ambientale anche in assenza del regolamento di attuazione del Codice dell’Ambiente.
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La tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU)
La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) fece, per la prima volta, la propria apparizione nel novero dei tributi con la legge n. 366 del 20 marzo 1941.
Infatti, prima di tale intervento normativo, vi era unicamente un corrispettivo privatistico a fronte del servizio individuale di raccolta dei rifiuti interni.
Successive modifiche apportate alla L. 366/1941 furono il D.P.R. 10/09/1982, in attuazione delle direttive CEE n. 75/442, n. 76/403 e n. 73/319 in materia di rifiuti, con il quale divenne obbligatoria l’istituzione del tributo, e il D.L. n. 66 del 2/03/1989 convertito dalla L. 144 del 24/04/1989.
Infine, con la L. 23/10/1992 n. 421 veniva conferita delega al Governo per la razionalizzazione delle discipline normative in materia di finanza territoriale. Tale delega portò all’emanazione del D.Lgs. del 15 novembre 1993, n. 507 (“revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale”), attraverso il quale il Legislatore, pur mantenendo pressoché inalterato l’impianto generale della TARSU, ne aveva ridefinito i caratteri rendendo più marcata la sua natura di “tassa”, attraverso il rafforzamento del legame tra la sua corresponsione e la prestazione del servizio pubblico di rimozione dei rifiuti.
Il decreto legislativo n.22 del 5 febbraio 1997 (cd. decreto Ronchi) ha radicalmente innovato la disciplina previgente in materia di rifiuti solidi urbani, ponendosi nella prospettiva di una maggiore tutela dell’ambiente (laddove incoraggia il riciclaggio, il recupero e il riutilizzo dei rifiuti) e di un trattamento più equo nei confronti degli utenti. Preliminarmente, è opportuno precisare che la normativa sui rifiuti solidi urbani presenta una fisionomia piuttosto complessa, essendosi sviluppata nel tempo attraverso una serie di norme modificative di disposizioni preesistenti; ne è derivato un quadro normativo che, a sua volta, ha generato problemi interpretativi ed attuativi di diversa portata.
L’art. 49 del decreto Ronchi, ha segnato il passaggio dalla tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU) alla tariffa di igiene ambientale (TIA), con l’obiettivo primario di consentire ai comuni la copertura totale dei costi relativi al servizio rifiuti e, di seguito, di incentivare le imprese a ridurre notevolmente la quantità dei rifiuti prodotti, con vantaggi economici ed ambientali di indubbio rilievo.
Ed infatti, l’art. 49 del D.Lgs. 22/1997, al primo comma stabilisce che “ La tassa per lo smaltimento dei rifiuti di cui alla sezione II dal Capo XVIII del titolo III del testo unico della finanza locale, approvato con regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175, come sostituito dall’articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, ed al capo III del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 è soppressa a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio, disciplinato dal regolamento di cui al comma 5, entro i quali i comuni devono provvedere alla integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani attraverso la tariffa di cui al comma 2”.
Si analizzano di seguito le caratteristiche peculiari della TARSU anche al fine di meglio comprendere la giurisprudenza che si è sviluppata sulla materia ed anche per rendere ancora più evidenti le differenze strutturali della stessa sia rispetto alla TIA1 che alla TIA2.
Ed infatti, le maggiori difficoltà si presentano proprio adesso, poiché, come meglio si spiegherà nei successivi paragrafi, è stato previsto dal legislatore che la nuova Tariffa Integrata Ambientale sia attualmente applicabile mediante i regolamenti attualmente in vigore.
Tornando alla Tarsu, l’art. 62 del D.lgs. 507 del 1993 stabiliva i presupposti di applicazione della Tarsu individuandoli nella semplice occupazione o detenzione “di locali ed aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio e’ istituito ed attivato o comunque reso in via continuativa”.
A tal proposito la Corte di Cassazione, proprio recentemente ha potuto chiarire il valore di presunzione legale relativa del presupposto impositivo della Tarsu, come appena descritto. Nella sentenza del 31/01/2011, n. 2202, la Suprema Corte ha, infatti, sancito che “il presupposto impositivo della Tarsu è soltanto la detenzione o la disponibilità di immobili, mentre la prova della non idoneità a produrre rifiuti o la sua sottoposizione a regimi impositivi più favorevoli incombe al contribuente.”
Appare evidente che la Corte ha considerato sussistente, in capo possessori di immobili, una presunzione legale relativa di produzione dei rifiuti, che gli stessi contribuenti possono superare al fine di ottenere eventuali riduzioni o esenzioni dal pagamento del tributo.
Le circostanze di fatto che comportano esenzioni, riduzioni, o agevolazioni devono necessariamente, ad ogni modo, essere contenute nella dichiarazione originaria o nelle successive variazioni.
L’art. 62 cit, prevede altresì alcune ipotesi di requisiti che potrebbero comportare la non debenza del tributo, o comunque un’obbligazione ridotta. Prevede, infatti, la norma che: “Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell’anno”.
Nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. Ai fini della determinazione della predetta superficie non tassabile il comune può individuare nel regolamento categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi alle quali applicare una percentuale di riduzione rispetto alla intera superficie su cui l’attività viene svolta.
Nelle unità immobiliari adibite a civile abitazione, in cui sia svolta un’attività economica e professionale, può essere stabilito dal regolamento che la tassa è dovuta in base alla tariffa prevista per la specifica attività ed è commisurata alla superficie a tal fine utilizzata. 5. Sono esclusi dalla tassa i locali e le aree scoperte per i quali non sussiste l’obbligo dell’ordinario conferimento dei rifiuti solidi urbani interni ed equiparati in regime di privativa comunale per effetto di norme legislative o regolamentari, di ordinanze in materia sanitaria, ambientale o di protezione civile ovvero di accordi internazionali riguardanti organi di Stati esteri”.
Applicabilità della TARSU alle piazzole autostradali
In merito a quanto detto circa la presunzione legale relativa di producibilità dei rifiuti, vi è un’interessante sentenza della Corte di Cassazione, n. 5559 del 2011, nella quale il contribuente, nella specie la società di gestione di un’autostrada, è riuscita a dimostrare la non debenza del tributo per oggettiva impossibilità di fruizione del servizio comunale. La Suprema Corte ha, quindi, ritenuto fondata la questione rilevata dalla società contribuente e ha conseguentemente sancito che: “La società contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 59 e 62 e del D.Lgs. n. 285 del 1998, art. 14 (nuovo C.d.S.) per avere la C.T.R. erroneamente interpretato ed applicate le norme richiamate, in quanto, nella specie, l’art. 62 D.Lgs. n. cit., non è rilevante, non rientrando l’oggetto del giudizio nelle ipotesi in esso contemplate; ne’ sarebbe applicabile la riduzione di cui all’art. 59, comma 2. Sostiene la società che la TA.R.S.U. non sarebbe comunque applicabile in quanto le piazzole di sosta de quibus, pur essendo ubicate nel territorio del Comune di Follo, non sono suscettibili ad usufruire del servizio comunale in quanto sono prive di qualunque via esterna di accesso e/o di collegamento con quel territorio, non essendo presenti caselli per l’ingresso e/o l’uscita dall’autostrada e perché l’attività di pulizia e smaltimento rifiuti è affidata per legge alla stessa società autostradale ai sensi del D.Lgs. n. 285 del 1998, art. 14 (nuovo C.d.S.). Né, infine, è applicabile la disciplina relativa alla riduzione della tariffa , non potendo le piazzole usufruire del servizio per le ragioni sopra esposte, mentre tale diminuzione è applicabile nelle ipotesi in cui il servizio, pur non essendo utilizzato dal contribuente, è comunque astrattamente fruibile. Il ricorso è fondato. Dall’esame della disciplina normativa in materia di rifiuti si evince che la tesi prospettata dalla società ricorrente è in parte condivisibile. È pur vero che nella normativa in materia di rifiuti tra le esenzioni espressamente contemplate dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, non sono comprese le autostrade e le aree ad esse pertinenziali, tuttavia il comma 5 prevede che: “Sono esclusi dalla tassa i locali e le aree scoperte per le quali non sussiste l’obbligo dell’ordinario conferimento di rifiuti solidi urbani interni ed equiparati in regime di privativa comunale per effetto di norme legislative o regolamentari, di ordinanze in materia sanitaria, ambientale o di protezione civile ovvero di accordi internazionali riguardanti organi di Stati esteri”. Il D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 14 (nuovo C.d.S.), che contempla i poteri e i compiti degli enti proprietari delle strade a sua volta al comma 1 prevede: “Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi;”e nel successivo comma 3, chiarisce che: “Per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito”. Conseguentemente, poiché la norma contenuta nel nuovo codice della strada (D.Lgs. n. 285 del 1992) deve essere considerato come norme speciale, come tale può derogare alla disciplina generale in materia di rifiuti contenuta nel D.Lgs. n. 507 del 1993. Conseguentemente dall’esame della presente normativa emerge senza ombra di dubbio che l’attività di raccolta e di gestione dei rifiuti nell’ambito delle aree autostradali e delle relative pertinenze compete al concessionario dell’autostrada”.
Conseguenze annullamento regolamento
L’art. 68, primo comma, D.Lgs. 507/1993 stabilisce che ai fini dell’applicazione della Tarsu, i Comuni devono provvedere all’emanazione di un apposito regolamento, determinando altresì gli elementi che esso deve contenere.
Il regolamento, quindi, è fondamentale ai fini di una legittima applicazione della Tassa.
Nella sentenza n. 2199 del 31/01/2011 la Corte Cassazione, ha affrontato la problematica delle conseguenze dell’annullamento del regolamento previsto dall’art. 68 D.Lgs. 507/1993, sancendo, in particolare, che “L’affermazione dei giudici di merito, secondo cui l’annullamento della delibera tariffaria da parte del giudice amministrativo non avrebbe alcuna conseguenza invalidante sull’atto impositivo del comune costituisce violazione della regola fondamentale che regola gli effetti dell’annullamento giurisdizionale degli atti amministrativi, che quella della retroattività. La pronuncia del TAR comporta, quindi, un effetto di invalidità derivata dell’atto impositivo, del quale la tariffa costituiva presupposto regolatore. L’effetto demolitorio della pronuncia del TAR non poteva essere, quindi, disconosciuto dal giudice tributario che, nella specie, non poteva neppure, stante l’immediata efficacia erga omnes di tale decisione,avente ad oggetto un atto a contenuto generale, conoscere incidenter tantum dell’atto tariffario, ai fini dell’esercizio del potere di disapplicazione. Il Collegio si uniforma pienamente, quindi, ai principi enunciati nella sentenza della Sezione n. 16937/07. Né aveva alcun rilievo il fatto che, l’utente aveva comunque usufruito del servizio, e che il ricorso introduttivo non conteneva alcuna domanda di applicazione del regime tariffario precedente. I poteri decisori del giudice tributario non si esauriscono, infatti, col mero annullamento dell’atto impugnato, dovendo il giudice applicare la disciplina che regola il rapporto tributario; nella specie, quindi, individuare il regime tariffario applicabile, ove ripristinato dall’annullamento giurisdizionale.”
Lettera di collaborazione
L’art. 73 del D.Lgs. 507/1993 dispone per i Comuni una misura di controllo sulla veridicità dei dati contenuti nelle dichiarazioni invitando il contribuente ad esibire o trasmettere atti e documenti, od anche a rispondere a questionari.
La Corte di Cassazione in merito a tale procedimento, ne ribadisce la natura facoltativa, non essendo prevista per i Comuni alcuna comminatoria di nullità per gli atti successivi di riscossione a causa del mancato rispetto della procedura. Al contrario la legge disciplina unicamente i casi di mancato adempimento da parte del contribuente. Per tali motivi, la Suprema Corte sancisce che “ai fini dell’applicazione della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, il Comune ha, in una prima fase del procedimento di accertamento, disciplinata dal Decreto Legislativo n. 507 del 1993, articolo 73, comma 1, il potere di controllare i dati contenuti nelle denunce degli interessati o acquisiti d’ufficio, mediante rilevazione diretta della misura e della destinazione delle superfici imponibili, da svolgersi in collaborazione con l’interessato e con il suo consenso espresso o tacito; in tale prima fase, destinata al consolidamento dei dati contenuti nella denuncia presentata o acquisiti d’ufficio, la mancanza di preavviso al contribuente, non determina la nullità dell’accertamento. Ed invero il mancato rispetto del procedimento, regolato dal Decreto Legislativo 15 novembre 1993, n. 507, articolo 73 per l’accesso agli immobili soggetti alla tassa eseguito per conto del Comune non ne comporta l’illegittimità’, non stabilendo lo stesso articolo 73 alcuna comminatoria in caso delle inosservanze delle disposizioni ivi dettate (Sez. 5, Sentenza n. 5093 del 09/03/2005)”
La tariffa di igiene ambientale (TIA1)
I principi ispiratori del D. Lgs. del 05/02/1997, n. 22 (c.d. Decreto Ronchi) sono orientati alla salvaguardia ambientale attuata mediante la minimizzazione della produzione dei rifiuti ed il recupero di quelli che possono essere nuovamente immessi in cicli secondari. Il Decreto è stato emanato in attuazione alle Direttive n. 91/156/CEE sui rifiuti, n. 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e n. 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio Il fulcro della disciplina non è più lo smaltimento (considerato solo residuale della gestione dei rifiuti), ma la gestione dei rifiuti finalizzata a limitare le quantità da smaltire.
Il Decreto Ronchi e il suo regolamento attuativo (D.P.R. 158 del 27/01/1999) hanno previsto una progressiva introduzione da parte dei Comuni della disciplina della TIA (Tariffa di Igiene Ambientale), in sostituzione della TARSU, stabilendo che l’adeguamento dovesse avvenire entro dicembre 2006. Successivamente, però, la L. n. 296 del 27/12/2006 e la L. n. 244 del 24/12/2007, rispettivamente, Legge Finanziaria 2007 e Legge Finanziaria 2008, hanno di fatto sospeso i termini per l’adeguamento da parte dei comuni stabilendo che per gli anni 2007 e 2008, i Comuni dovessero mantenere lo stesso sistema di tassazione del 2006, senza possibilità di attuare il passaggio da un sistema all’altro, costituendo, di fatto, una convivenza forzata dei due regimi di prelievo. Infine, l’art. 5 del D.L. 208 del 30/12/2008, convertito in legge con modificazioni dalla L. n. 13 del 27/02/2009, stabiliva che: “All’articolo 1, comma 184, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) alla lettera a), le parole: «e per l’anno 2008» sono sostituite dalle seguenti: «e per gli anni 2008 e 2009»;
b) alla lettera c), le parole: «31 dicembre 2008» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2009».
Pertanto dal 2006, i Comuni che, a quel tempo, si erano già adeguati alla TIA continuavano ad applicare la TIA (sono circa un sesto dei Comuni Italiani), e i Comuni che, invece adottavano ancora la TARSU, non avevano più la possibilità di modificare il regime di tassazione.
Si è venuta così a creare quella convivenza forzata tra TARSU e TIA, sopravvissuta fino al 31/12/2009 (termine modificato dalla lettera c) dell’art 5 D.L.208/2008 suddetto), quando, come già è stato detto in più occasioni, la TARSU non è stata più oggetto di norma di proroga.
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La Corte Costituzionale sulla natura tributaria della TIA
Nel 2009 la Corte Costituzionale è stata adita per asserita illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 546/1992 nella parte in cui prevede che “appartengono alla giurisdizione tributaria […le controversie relative alla debenza del canone [… per lo smaltimento dei rifiuti urbani”.
Tale presunta illegittimità costituzionale trovava origine nell’assunto che la TIA, in quanto “tariffa” fosse esclusa dal novero dei tributi e, pertanto, anche dalla giurisdizione del giudice tributario.
La Corte Costituzionale, riteneva infondata la questione. Ed in particolare, così sanciva: “Questa Corte, mediante numerose pronunce, ha indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).
Con specifico riferimento alla disciplina della tariffa di igiene ambientale, va preliminarmente preso atto che non è individuabile, allo stato, un’univoca giurisprudenza di legittimità sulla natura di tale tariffa, anche se pare maggiormente attestato l’orientamento che le riconosce natura tributaria. Infatti, ad una pronuncia della Corte di cassazione civile che ha qualificato come non tributaria tale prestazione pecuniaria (sezioni unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto séguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni e differenze linguistiche, hanno invece ricondotto detta prestazione nel novero dei tributi (sezioni unite: ordinanza n. 3171 del 2008, sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006; sezioni semplici: sentenze n. 5298 e n. 5297 del 2009, n. 17526 del 2007). Al fine di determinare la natura (tributaria o extratributaria) della TIA, oggetto di contrastanti opinioni anche nella dottrina, è perciò necessario procedere ad un autonomo ed analitico esame delle caratteristiche di tale prelievo. Al riguardo, non rilevano né la formale denominazione di “tariffa”, né la sua alternatività rispetto alla TARSU, né la possibilità di riscuoterla mediante ruolo.
Quanto all’irrilevanza della denominazione, lo stesso art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce espressamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris (“comunque denominati”). Inoltre, il termine “tariffa” – nella tradizione propria della legislazione tributaria – ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali “tassa” e “tributo”, tanto che anche l’art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una “tassa” e, quindi, un “tributo”) si applica “in base a tariffa”. Va comunque rilevato che, contrariamente a quanto sembrano ritenere il rimettente e la difesa erariale, il termine “corrispettivo” non compare, con riguardo alla TIA, nel cosiddetto “decreto Ronchi”, ma solo nell’art. 238, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 ed è riferito esclusivamente alla tariffa integrata ambientale, estranea alla questione di legittimità in esame.
Quanto alla regola stabilita dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, secondo cui la TIA si applica in luogo della TARSU, va osservato che un tributo (come, nella specie, la TARSU) può ben essere surrogato da un altro tributo o sostituito da una entrata non tributaria, non incontrando il legislatore, al riguardo, alcun vincolo logico o giuridico (nel limite della non manifesta irragionevolezza).
Quanto, infine, alla possibilità per il Comune, prevista dal medesimo art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, di procedere alla riscossione della TIA mediante ruolo, deve sottolinearsi che il ricorso a tale modalità di riscossione è solo facoltativo, e, comunque, ancorché tipico delle entrate tributarie, è consentito dalla legge anche per le entrate extratributarie.
Per una corretta valutazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA), è invece opportuno muovere dalla constatazione che tale prelievo, pur essendo diretto a sostituire la TARSU, è disciplinato in modo analogo a detta tassa, la cui natura tributaria non è mai stata posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza. Conseguentemente, deve procedersi ad una approfondita comparazione tra il prelievo tributario sostituito e quello che lo sostituisce, sotto i profili della struttura, della funzione e della disciplina complessiva della fattispecie dei prelievi.
Dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi. Entrambi mostrano un’identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo.
In primo luogo, quanto al fatto generatore dell’obbligo del pagamento e ai soggetti obbligati – come si è già rilevato al punto 6.1.2. – la TARSU è dovuta, per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, e comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). Analogamente, la TIA – come sottolineato al punto 6.1.3. – è dovuta, per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale, da “chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale” (art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997). Le differenze tra le due fattispecie sono, perciò, minime: la “occupazione o detenzione” di superfici ed il riferimento ai soli rifiuti “interni”, per la TARSU; la “occupazione o conduzione” di superfici ed il riferimento anche ai rifiuti “esterni”, per la TIA. Esse non sono, comunque, tali da far venir meno la comune circostanza che il fatto generatore dell’obbligo di pagamento è legato non all’effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all’utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento.
In secondo luogo, in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi: a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata; b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi; c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.
La rilevata comune struttura autoritativa dei prelievi non viene meno per il fatto che, riguardo alla TARSU, il d.lgs. n. 507 del 1993 individua quale soggetto attivo del tributo il Comune e disciplina specificamente la fase di accertamento e di liquidazione della tassa, prevedendo sanzioni e interessi (artt. 71, 73 e 76); mentre, riguardo alla TIA, l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, da un lato identifica nel gestore del servizio il soggetto che la applica e riscuote (commi 9 e 13) e, dall’altro, non reca alcuna disciplina specifica in tema di accertamento, di liquidazione della prestazione dovuta, di contenzioso e di sanzioni e interessi per omesso o ritardato pagamento. Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nel caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l’accertamento e la riscossione dei due prelievi e la relativa legittimazione a stare in giudizio. In particolare – come visto al punto 6.1.2. – già per la TARSU il Comune aveva la possibilità, con proprio regolamento, di affidare a terzi l’accertamento e la riscossione dei tributi, ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e di delegare ad essi il potere di essere “parti del processo tributario”, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che con ciò venisse meno l’originaria posizione di soggetto attivo del Comune stesso. La normativa riguardante la TIA si differenzia sul punto solo per il fatto che essa pone un collegamento ex lege tra la gestione del servizio e i poteri di accertamento, con la conseguenza che il solo fatto dell’affidamento a terzi della gestione del servizio comporta la delega a questi dei poteri di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo del Comune, analogamente a quanto avviene per la TARSU.
Con riguardo, poi, alla disciplina dell’accertamento e della liquidazione della TIA, la lacunosità delle statuizioni contenute nel comma 9 dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 (il quale si limita a prevedere che “la tariffa è applicata dai soggetti gestori nel rispetto della convenzione e del relativo disciplinare”) può essere colmata con l’esercizio del potere regolamentare comunale previsto per le entrate “anche tributarie” dal citato art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 o in via di interpretazione sistematica. Analogamente, nulla osta a che, per le sanzioni ed interessi relativi all’omesso o ritardato pagamento della TIA, possano applicarsi le norme generali in tema di sanzioni amministrative tributarie. Così come, con riguardo al contenzioso, è evidente che ad entrambi i prelievi si applica il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce, appunto, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative, in generale, alla debenza dei tributi e, specificamente del “canone (…) per lo smaltimento dei rifiuti urbani”.
Non contraddice tale conclusione il fatto che fonti secondarie prevedano, per il pagamento della TIA, l’emissione di semplici “bollette che tengono luogo delle fatture (…) sempreché contengano tutti gli elementi di cui all’art. 21″ del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 1, comma 1, del citato decreto ministeriale n. 370 del 2000), e cioè l’emissione di atti formalmente diversi da quelli espressamente indicati dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 come impugnabili davanti alle Commissioni tributarie. In tale caso, infatti, è possibile, in via interpretativa – come, del resto, ha già affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 17526 del 2007, con specifico riferimento alla TIA -, un’applicazione estensiva dell’elenco di cui al citato art. 19, al fine di considerare impugnabili anche atti che, pur con un diverso nomen iuris, abbiano la stessa funzione di accertamento e di liquidazione di tributi svolta dagli atti compresi in detto elenco; con l’ovvio corollario che le suddette “bollette”, avendo natura tributaria, debbono possedere i requisiti richiesti dalla legge per gli atti impositivi.
In terzo luogo, sono analoghi i criteri di commisurazione dei due prelievi. La TARSU – quantomeno per i Comuni con popolazione non inferiore a 35.000 abitanti – è commisurata “in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani (…) producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento” (art. 65, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993). La TIA, in forza dell’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 1997, è suddivisa in una parte fissa (concernente le componenti essenziali del costo del servizio – ivi compreso quello dello spazzamento delle strade -, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti) ed una parte variabile (rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione). I criteri di determinazione di tali due parti della TIA sono contenuti nel citato d.P.R. n. 158 del 1999, che prevede indici costruiti, tra l’altro, sulla quantità totale dei rifiuti prodotti nel Comune, sulla superficie delle utenze, sul numero dei componenti il nucleo familiare delle utenze domestiche, su coefficienti di potenziale produzione di rifiuti secondo le varie attività esercitate nell’ambito delle utenze non domestiche. Risulta evidente, pertanto, che il suddetto “metodo normalizzato” per la determinazione della TIA è pienamente coerente con i criteri fissati dalla legge per la commisurazione della TARSU, la quale, certamente, non può definirsi “corrispettivo”, neppure in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per le tariffe dei servizi pubblici resi dagli enti locali. Per entrambi i prelievi, infatti, rileva la potenziale produzione dei rifiuti, valutata per tipo di uso delle superfici tassabili. In particolare, per quanto riguarda la TIA, va sottolineato che, ai sensi dell’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, perfino l’autonomo avviamento a recupero dei rifiuti, da parte del produttore di essi, non comporta l’esclusione dal pagamento, ma determina una riduzione proporzionale della sola parte variabile di tale tariffa. Questa disposizione è, per alcuni aspetti, analoga al comma 2 dell’art. 67 del d.lgs. n. 507 del 1993, secondo cui il regolamento comunale “può” prevedere riduzioni della TARSU nel caso in cui gli “utenti dimostrino di avere sostenuto spese per interventi tecnico-organizzativi comportanti un’accertata minore produzione di rifiuti od un pretrattamento volumetrico, selettivo o qualitativo che agevoli lo smaltimento o il recupero da parte del gestore del servizio”. I due prelievi, pertanto, sono dovuti, sia pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di rifiuti dimostri di aver adeguatamente provveduto allo smaltimento. Il che esclude per entrambi la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra pagamento e servizio di smaltimento dei rifiuti.
In quarto luogo, come sopra accennato, la TIA – analogamente alla TARSU nella disciplina risultante dal disposto del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993 (riportato al punto 6.1.2.) e dell’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma anche “esterni” (cioè “rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico”, come ricordato al punto 6.1.3., in relazione agli artt. 7, comma 2, lettere c, d, e 49, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997, per la componente fissa della TIA). Ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. L’unica sostanziale differenza sul punto tra i due prelievi si riduce al fatto che, mentre per la TARSU il gettito deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l’integrale copertura del costo dei servizi (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997). Tuttavia, tale differenza non è sufficiente a caratterizzare in senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica spesa (come il costo di un servizio utile alla collettività) possa essere integralmente finanziata da un tributo. Come si è già osservato al punto 6.1.2., anche la TARSU può coprire il cento per cento del costo del servizio di smaltimento dei rifiuti ed in tal caso essa non muta, per ciò solo, la sua natura da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza che la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la natura di prezzo privatistico.
In quinto luogo, con riferimento alla disciplina complessiva della TIA, va rilevato che l’art. 49, comma 17, del d.lgs. n. 22 del 1997 ha espressamente tenuto ferma l’applicabilità del tributo provinciale “per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell’ambiente” previsto dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (cosiddetto TEFU), anche dopo la soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA. Poiché il TEFU è stato configurato dal legislatore come un’addizionale della TARSU, ne consegue che, una volta soppressa quest’ultima, esso deve necessariamente determinarsi con riferimento ai criteri di quantificazione della TIA e deve, perciò, essere qualificato come un tributo addizionale della TIA stessa. Ciò evidenzia un ulteriore elemento di omogeneità e continuità tra la TARSU e la TIA.
In sesto luogo, infine, un altro significativo elemento di analogia tra la TIA e la TARSU è costituito dal fatto che ambedue i prelievi sono estranei all’ambito di applicazione dell’IVA. Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità del prelievo – quest’ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni – porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un “corrispettivo” per la prestazione di servizi. Non esiste, del resto, una norma legislativa che espressamente assoggetti ad IVA le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti, quale, ad esempio, è quella prevista dall’alinea e dalla lettera b) del quinto comma dell’art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui, ai fini dell’IVA, “sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici”, le attività di “erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore”. Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei “diritti, canoni, contributi” che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall’assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici “per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità” (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all’imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa). Non osta a tali conclusioni il secondo periodo del comma 13 dell’art. 6 della legge n. 133 del 1999, il quale stabilisce, con una formula meramente negativa, che “Non costituiscono, altresì, corrispettivi agli effetti dell’IVA le somme dovute ai comuni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani reso entro” la data del 31 dicembre 1998 “e riscosse successivamente alla stessa, anche qualora detti enti abbiano adottato in via sperimentale il pagamento del servizio con la tariffa, ai sensi dell’articolo 31, comma 7, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448“. Questa disposizione non può interpretarsi nel senso che, a partire dal 1999, sia la TARSU sia la tariffa sperimentale (cioè la TIA adottata prima della definitiva soppressione della TARSU) entrino nell’ambito di applicazione dell’IVA. Si deve escludere, infatti, che tali prelievi, pur restando invariata la loro disciplina sostanziale, mutino natura, divenendo entrambi corrispettivi, solo in forza di una norma dagli effetti meramente temporali. Tale norma, ragionevolmente interpretata, ha il solo effetto di ribadire la non assoggettabilità ad IVA dei due prelievi fino a tutto il 1998 e non quello di provvedere anche per il periodo successivo, per il quale non può che trovare applicazione la disciplina generale in tema di IVA. Non rileva, al riguardo, la diversa prassi amministrativa, perché la natura tributaria della TIA va desunta dalla sua complessiva disciplina legislativa.
Le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali della TIA disciplinata dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo menzionate al punto 7.2.1. e che, pertanto, non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni), conservando la qualifica di tributo propria di quest’ultima”.
L’aver affermato la natura tributaria della TIA1 ha comportato non poche conseguenze sul profilo processuale.
Infatti, vi sono numerose sentenze della Corte di Cassazione, che hanno stabilito e ribadito la giurisdizione del giudice tributario in materia di impugnazione di atti impositivi TIA.
Giurisdizione tributaria
Con l’ordinanza n. 14903 del 21/06/2010, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, chiamata a decidere di un regolamento preventivo di giurisdizione, ha stabilito la giurisdizione del giudice tributario anche in materia di TIA essendo stata questa già qualificata come si è visto, dalla Corte Costituzionale come tributo. Ed infatti, è chiara la Corte nell’ordinanza laddove sancisce che “in forza della pronuncia del giudice delle leggi, nel caso di specie deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice tributario, rimettendo le parti innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, territorialmente competente”.
Come si è già chiarito, la sentenza della Corte Costituzionale, n. 238/2009 ha avuto notevoli conseguenze anche e soprattutto sul piano sostanziale. Infatti, la qualifica di tributo della TIA1 ha comportato la illegittimità dell’applicazione dell’IVA sui versamenti della tariffa (come anche chiarito e motivato nella sentenza dalla Corte Costituzionale).
È chiaro pertanto che la prima conseguenza diretta sono state le istanze di rimborso per l’iva già versata, presentate dai contribuenti.
A tale proposito, è assai rilevante la recentissima sentenza della Corte di Cassazione del 31/01/2011, n. 2064, nella quale è sancito che: “la controversia debba essere giudicata dal giudice ordinario. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è motivo di discostarsi, «In tema di IVA, spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alla domanda proposta dal consumatore finale nei confronti del professionista o dell’imprenditore che abbia effettuato la cessione del bene o la prestazione del servizio per ottenere la restituzione delle maggiori somme addebitategli in via di rivalsa per effetto dell’applicazione di un’aliquota asseritamente superiore a quella prevista dalla legge: poiché, infatti, soggetto passivo dell’imposta è esclusivamente colui che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi, la controversia in questione non ha ad oggetto un rapporto tributario tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, ma un rapporto di natura privatistica tra soggetti privati, che comporta un mero accertamento incidentale in ordine all’ammontare dell’imposta applicata in misura contestata» (Cass. SS.UU. 2775/2007; conf. 6632/2003, 1147/2000). Il principio resta valido anche quando, come nella specie, il debito iva venga totalmente contestato. Si. tratta, in ogni caso, di una controversia tra privati, alla quale «resta estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario» (Cass. SS.UU. 15031/2009). Né rileva la circostanza che il giudizio sulla richiesta di rimborso dell’iva implichi la necessità di accertare se l’imposta fosse dovuta e quale sia la natura dell’obbligo di pagare la TIA. Infatti, nelle controversie tra privati, che abbiano ad oggetto la richiesta di rimborso di una imposta che si assume essere stata indebitamente pretesa dalla controparte (non identificabile in uno dei soggetti di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10), il giudice ordinario competente ha sempre il potere «di sindacare in via incidentale la legittimità dell’atto impositivo ove sia presupposto e di disapplicarlo, ovvero di disporre la sospensione del giudizio, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in caso di contemporanea pendenza del giudizio tributario» (Cass. SS.UU. 15032/2009).
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che le controversie relative all’indebito pagamento dei tributi seguono la regola della devoluzione alla giurisdizione speciale del giudice tributario soltanto quando si debba impugnare uno degli atti previsti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e, di conseguenza, il convenuto in senso formale sia uno dei soggetti indicati nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10. Quando la controversia si svolga tra due soggetti privati in assenza di un provvedimento che sia impugnabile soltanto dinanzi al giudice tributario, il giudice ordinario si riappropria della giurisdizione e non rileva che la composizione della lite debba passare attraverso la interpretazione di una norma tributaria.
Ed inoltre, “il fatto che il diritto alla rivalsa sia previsto da una norma tributaria non trasforma il rapporto tra soggetti privati in un rapporto tributario, di tipo pubblicistico, che implica invece l’esercizio del potere impositivo nell’ambito di un rapporto sussumibile allo schema potestà – soggezione” (Cass. 15031/2009). In definitiva, «Se manca un soggetto investito di potestas impositiva intesa in senso lato manca anche il rapporto tributario, cosi come se manca un provvedimento che sia espressione di tale potere non si configura la speciale lite tributaria che, per definizione, nasce dal contrasto rispetto ad una concreta ed autoritativa pretesa impositiva» (idem)”.
Il soggetto attivo
Per quanto attiene alla struttura della TIA1, e le differenze con la TARSU, la norma di cui all’art. 49 stabilisce che la stessa debba essere stabilita dagli enti locali e gestita da un soggetto terzo, mediante delega ex lege, che comporta altresì la non configurabilità in giudizio di un litisconsorzio necessario del comune. La sentenza della Corte di Cassazione del 08/04/2010, n. 8313, sancisce che: “Correttamente la contribuente ha proposto ricorso nei confronti della società che ha emesso le fatture contestate, eccependo la illegittimità dell’atto presupposto adottato dalla stessa società chiamata in giudizio.
Il comune è rimasto estraneo alla procedura di formazione della pretesa impositiva e al rapporto tributario dedotto in giudizio, tanto più che la stessa società assume di avere agito esercitando i poteri “delegati” del comune.
Non ricorre, dunque, la fattispecie di litisconsorzio necessario, di cui all’art. 14, comma 1, d.lgs. 546/1992, in quanto la controversia (poteva e) può essere utilmente decisa nei confronti della sola società convenuta, eretta ad ente impositore, di riscossione e di gestione del tributo, con esclusione del comune, che comunque avrebbe potuto essere chiamato in giudizio dalla società “delegata”, se avesse avuto interesse in tal senso. Il mancato gettito tributario, causato dalla illegittimità della procedura di determinazione della tariffa, è questione che attiene ai rapporti tra ente impositore e società delegata e non riguarda la causa con la quale la contribuente contesta al soggetto che gliene fa richiesta il diritto a riscuotere”.
Ed inoltre, la stessa sentenza n. 8313 del 2010, in particolare, ribadisce che l’ente locale ha il potere impositivo. Ed infatti “il potere impositivo è espressione della sovranità dello Stato, in generale, e della posizione di supremazia degli enti pubblici locali rispetto ai cittadini amministrati, nell’ambito di un rapporto giuridico di tipo pubblicistico, rispetto al quale il cittadino è garantito dalle procedure legali e democratiche in base alle quali il potere impositivo deve essere esercitato. Rispetto a questo quadro ordinamentale, l’ipotesi della delega del potere impositivo ad un soggetto privato, nella specie una s.p.a. che delibera attraverso un consiglio di amministrazione che risponde soltanto ai soci della società, invece che con delibera consiliare adottata dai rappresentanti eletti dai cittadini (ai quali devono rispondere) destinatari dell’imposizione, appare del tutto illegittima. Può essere delegato il servizio della riscossione dei tributi, ma non il potere impositivo (sia in relazione all’an che in relazione al quantum), che è connaturato allo statuto necessariamente pubblicistico dell’ente impositore. L’imposizione è per definizione un atto di imperio, sia con riferimento ai momenti della individuazione del presupposto d’imposta e del soggetto passivo, sia con riferimento al momento della determinazione del quantum debeatur. Il soggetto attivo del rapporto tributario non può che essere un ente pubblico dotato dello specifico imperium (potestà impositiva); potere che deve essere responsabilmente esercitato dagli organi elettivi, secondo le procedure democratiche e non mediante delega a soggetti privati, politicamente irresponsabili. L’esercizio del potere impositivo costituisce una funzione fondamentale ed irrinunciabile dello Stato, che deve essere esercitata nel rigoroso rispetto della riserva di legge (art. 23 Cost.), per assicurare allo Stato stesso i mezzi per il suo funzionamento, “in danno” dei cittadini ai quali (quando non si verifichino violazioni di diritti tutelabili in sede giudiziaria) non resta che il controllo politico sul corretto esercizio della potestas impositionis, in un delicato equilibrio che è il fulcro della democrazia. Ne deriva che l’esercizio del potere impositivo, espressione diretta della sovranitas, non può essere delegata ad enti che non siano investiti, direttamente ex lege, della potestas impositionis e, quindi, soggetti al controllo diretto dei cittadini (soggetti passivi d’imposta). Sul piano del diritto positivo, l’art. 49 del d.lgs. n. 22/1997 (vigente ratione temporis), in attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, dispone che la relativa tariffa è determinata dagli enti locali (comma 8), mentre l’applicazione della stessa è lasciata ai soggetti gestori (comma 9). Il dubbio sulla natura tributaria o di corrispettivo della obbligazione in questione, risolto poi dalla Corte costituzionale, è alla base, evidentemente, dell’errore commesso nel delegare la determinazione della tariffa alla s.p.a. (per la stessa ragione la t.i.a. è stata erroneamente assoggettata ad i.v.a.)”.
Corte dei Conti
Segue lo stesso orientamento anche la Corte dei Conti del Piemonte, nel parere n. 65, espresso in data 11 novembre 2010.
La Corte dei Conti, ha, infatti, ribadito il principio secondo il quale è l’ente ad avere il potere impositivo, che si esplicita principalmente nello stabilire le tariffe applicabili al tributo, anche alla luce dell’art. 49 D.Lgs. 22/1997. Infatti, la determinazione della tariffa tiene conto degli investimenti effettuati dai comuni che risultino utili ai fini dell’organizzazione del servizio, e pertanto, tiene conto di dati conoscibili unicamente dall’ente e non da terzi.
Inoltre, chiarisce che “quanto all’accertamento e alla liquidazione del tributo, si è visto come la legge (art. 49 commi 9 e 13 D.Lgs. 22/1997) identifichi nel gestore del servizio il soggetto che lo applica e riscuote. Ciò tuttavia, come sottolineato dalla Consulta nella più volte citata sentenza n. 238, non fa venire meno in capo al Comune la posizione di soggetto attivo del prelievo.
L’affidamento a terzi del servizio comporta le delega, ex lege nel caso della TIA, del potere di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo dell’ente, senza che, giusta i principi generali, ne muti la titolarità”.
La tariffa integrata ambientale (TIA2)
Il Codice dell’Ambiente (D.Lgs. 152 del 03/04/2006), entrato in vigore il 29/04/2006 ha disposto l’abrogazione della TIA, così come prevista dal D.Lgs 22/1997.
Infatti l’art. 264 del D.Lgs. 152 del 3/04/2006, al primo comma, lettera i), stabilisce che è abrogato “il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22. Al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto, i provvedimenti attuativi del citato decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (e quindi, le disposizioni contenute nel D.P.R. 158/1999), continuano ad applicarsi sino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti provvedimenti attuativi previsti dalla parte quarta del presente decreto”.
L’art. 238 del Codice dell’ambiente istituisce una tariffa (TIA2) con nuovi criteri della che dovranno essere attuati “con apposito regolamento, da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto e nel rispetto delle disposizioni di cui al presente articolo, (regolamento che dovrà disciplinare) i criteri generali sulla base dei quali vengono definite le componenti dei costi e viene determinata la tariffa, anche con riferimento alle agevolazioni di cui al comma 7, garantendo comunque l’assenza di oneri per le autorità interessate”.
L’art. 195 del D.Lgs n. 152 del 03/04/2006, elenca gli aspetti che dovranno essere oggetto del regolamento di attuazione, in quanto materie di competenza statale.
A tutt’oggi, però, tale regolamento attuativo non è stato ancora emanato. Conseguenza di tale mancanza da parte dello Stato, sarebbe stata l’attuale inapplicabilità del Codice dell’ambiente, e non solo. Al fine di risolvere tale incertezza normativa, il Legislatore è intervenuto con l’art. 5, comma 2-quater, del D.L. 208/2008, convertito dalla legge 27 febbraio 2009, n. 13, il quale ha sancito che “Ove il regolamento di cui al comma 6 dell’articolo 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, non sia adottato dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare entro il 30 giugno 2010, i comuni che intendano adottare la tariffa integrata ambientale (TIA) possono farlo ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti”.
Alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale, sopra menzionata, il legislatore è intervenuto con una norma interpretativa espressa, prevedendo all’art. 14, comma 33, del D.L. 78/2010 che: “Le disposizioni di cui all’articolo 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano nel senso che la natura della tariffa ivi prevista non e’ tributaria. Le controversie relative alla predetta tariffa, sorte successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”.
È di facile interpretazione la voluntas legis di riferire tale norma esclusivamente alla Tariffa Integrata Ambientale. Infatti, è chiarita la natura non tributaria della TIA2 e, quindi, l’assoggettabilità della stessa all’IVA, ma al contrario nessun cenno è fatto alla TIA1 (del Decreto Ronchi).
La norma, tuttavia, comporta non pochi problemi applicativi, anche tenendo conto dell’art. 5, comma 2-quater del D.L. 208/2008 succitato.
Infatti, alla luce di quanto sin qui detto sulla diversa natura della Tarsu e della TIA1 rispetto alla TIA2, è evidente la difficoltà applicativa di quest’ultima come previsto dal legislatore, e cioè mediante “disposizioni legislative e regolamentari vigenti”.
È palese la inedita situazione che si creerebbe nell’applicare un corrispettivo di diritto privato (qualifica data alla TIA2) mediante disposizioni, non importa se legislative o regolamentari, emanate per l’applicazione di tributi.
Infatti, i tributi sottostanno a dei principi anche e soprattutto costituzionali che invece non hanno rilevanza rispetto all’applicazione di istituti che abbiano origine in un rapporto sinallagmatico.
Quanto detto può comportare un ulteriore ostacolo alla certezza normativa che si esige anche e soprattutto nell’ambito tributario, ove vige già una disparità sia sostanziale che processuale tra amministrazione e contribuente.
Si ritiene che proprio per evitare tali incertezze, l’Agenzia delle Entrate ha emanato la circolare n. 3/DF/2010 con la quale ha inteso interpretare la norma di cui all’art. 14, comma 33, del D.L. 78/2010, in modo da escludere anche la TIA1 dall’ambito dei tributi.
In particolare, ad avviso dell’Amministrazione Finanziaria, la lettura sistematica dell’art. 14, comma 33, D.L. 78/2010 e dell’art. 5, comma 2-quater, del D.L. 208/2008 (il quale consente ai Comuni di adottare la TIA2 in base alle disposizioni regolamentari vigenti) non consente di ritenere razionale il fatto di attribuire alla TIA1 una natura giuridica differente rispetto alla TIA2. Pertanto: “i Comuni che applicano attualmente la TIA1 in concreto adottano già il regime TIA2, grazie all’anello di congiunzione operato dal Legislatore con il comma 2-quater, dell’art. 5 e, pertanto, non appare necessaria alcuna innovazione regolamentare, a meno che i Comuni non ritengano opportuno esplicitare in maniera formale, attraverso i riferimenti normativi, l’adozione della TIA2”.
La forzatura è evidente. Si è già fatto cenno all’espresso riferimento operato dal legislatore, nell’art. 14, comma 33, del D.L.78/2010, alla sola TIA disciplinata dal Codice dell’ambiente.
Più di recente, il Legislatore è tornato ad occuparsi nuovamente della questione relativa alla materia dei rifiuti e dei relativi regimi, stabilendo all’art 14, comma 7, del d.Lgs. 23/2011 (sul Federalismo Municipale) che: “Sino alla revisione della disciplina relativa ai prelievi relativi alla gestione dei rifiuti solidi urbani, continuano ad applicarsi i regolamenti comunali adottati in base alla normativa concernente la tassa sui rifiuti solidi urbani e la tariffa di igiene ambientale. Resta ferma la possibilità per i comuni di adottare la tariffa integrata ambientale”.
Applicabilità della TIA2
Il D.L. 78/2010, come si è già chiarito, ha posto una serie di problematiche, che non solo non sono state ancora risolte, ma alcune addirittura a tutt’oggi non sono ancora state rilevate.
Si potrebbero prospettare e rilevare alcuni profili di incostituzionalità dell’art. 5, comma 2-quater del D.L. 208/2008, e dell’art. 14, comma 7, del D.Lgs. 23/2011 laddove indirettamente prorogano l’applicazione dei regolamenti tarsu e tia nonostante l’abrogazione avvenuta di entrambe le fonti normative da cui i regolamenti stessi discendono.
Profili tributari
Vi è una parte della dottrina che, ultimamente, ha rilevato che, le norme contenute nel D.Lgs. 152/2006, disciplinano una tariffa che, tuttavia, ritrova molte caratteristiche comuni con la TARSU e con la TIA1 e, più in generale, con i requisiti ritenuti rilevanti ai fini della qualificazione di un’entrata come tributaria.
Già la Corte Costituzionale, come si è rilevato, ha fatto presente la irrilevanza del nomen iuris, in quanto «il termine “Tariffa”- nella tradizione propria della legislazione tributaria- ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali “tassa” e “tributo”».
L’unica differenza, nella fattispecie della TIA2, è la presenza di una norma che la qualifica come corrispettivo e ne affida la relativa giurisdizione al giudice ordinario.
Venerdì, 20 maggio 2011
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