Nel 1968 la legge istitutiva della scuola materna statale, L. 18 marzo 1968 n. 444 “Ordinamento della scuola materna statale”, ha rappresentato, non senza polemiche, un importante traguardo legislativo e sociale.
Nel frattempo lo scenario legislativo e sociale è cambiato, come è cambiata la denominazione della scuola da scuola materna a scuola dell’infanzia (anche se nel modus operandi è e rimane materna), ma la legge del 1968, rimasta inattuata in alcuni aspetti, conserva ancora una grande valenza, perché offre degli spunti di riflessione non solo sulla scuola ma anche sulla tanto discussa genitorialità.
Fondamentale è l’art. 1 che recita: “La scuola materna statale, che accoglie i bambini […]. Detta scuola si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile, di assistenza e di preparazione alla frequenza della scuola dell’obbligo, integrando l’opera della famiglia”. Alla luce dell’art. 1 la scuola materna, pur essendo chiamata in questo modo, ha una dimensione valoriale a sfondo materno e una dimensione valoriale a sfondo paterno. L’accoglienza (dal latino “ad” e “colligere”, “raccogliere presso di sé) di cui al primo comma (mentre le Indicazioni per il curricolo del 2007 si esprimono in maniera formale: “La scuola dell’infanzia […] si rivolge a tutti i bambini”) e l’educazione di cui al secondo comma sono atteggiamenti materni; lo sviluppo della personalità infantile è compito sia materno sia paterno. Assistenza (dal latino “ad” e “sistere”, “stare presso qualcuno per aiutarlo”) e preparazione, ovvero vegliare sulla crescita fisica, emotiva e intellettuale dei figli e insegnare loro a vivere, coniugare “auctoritas” e “securitas”, quindi far da ponte verso l’esterno, sono funzioni più paterne. Leggendo l’art. 1 con un linguaggio moderno si può affermare che obiettivo educativo sin dalla prima infanzia deve essere promuovere relazione, resilienza, responsabilità e regolamentazione. Relazione è aprirsi agli altri; resilienza è adattarsi agli altri costruendo legami significativi, responsabilità è rispondere di sé agli altri; regolamentazione è darsi regole per e con gli altri.
Alla luce di quest’osservazione, alla scuola materna si addice l’immagine di “madre sufficientemente buona”, coniata dallo psicanalista inglese Donald W. Winnicott, nel senso che si deve avere cura dei bambini senza cadere né nell’incuria né nell’ipercura, estremi in cui spesso s’incorre. Se è vero che la scuola materna ha in sé tanto la dimensione materna quanto quella paterna questo vale a maggior ragione per chi è madre, che non solo deve svolgere il proprio ruolo ma avviare il bambino, se stessa e lo stesso padre alla paternità e non essere di ostacolo o contrasto ad essa come sempre più spesso accade. Non esiste la genitorialità in astratto, ma la maternità e la paternità che incontrandosi, completandosi e coadiuvandosi costituiscono la genitorialità. A proposito di “sviluppo della personalità infantile”, gli insegnanti della scuola materna (o altre figure che operano in tutta la scuola) fungono da “tutori dello sviluppo” (dallo psicanalista francese Boris Cyrulnik, studioso della resilienza) dei bambini soprattutto oggi che la famiglia è passata dall’essere normativa ad essere solo affettiva o talvolta addirittura patogena. “Tutori dello sviluppo” anche dei genitori, nel senso che gli insegnanti contribuiscono anche ad accompagnare e sostenere i genitori spesso smarriti, distratti o alla mercé dei capricci dei figli (“onnipotenza infantile”) o affannati ad anticipare i loro desideri. Emblematica la locuzione “integrando l’opera della famiglia”, in altre parole tra scuola e famiglia non vi deve essere né sostituzione né contrapposizione né sovrapposizione né tantomeno aversi la cosiddetta “affettivizzazione della scuola” emulando la famiglia. Scuola e famiglia devono assolvere la propria funzione così come fanno o dovrebbero fare madre e padre. Ancor più significativa è l’espressione “opera della famiglia” ove “opera” è “attività posta in essere con un preciso intento, volta a un fine determinato o atta a produrre certi effetti” e ciò dovrebbe essere di monito alla famiglia ricordando che è il principale ed insostituibile soggetto educativo nella vita di ogni bambino. Quest’analisi trova conferma anche nel Preambolo della Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia del 1989 dove si legge: “[…] la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”.
Rilevante per le indicazioni che si ricavano per gli insegnanti e per tutti gli educatori è anche l’art. 14 comma 1: “Le insegnanti hanno la responsabilità educativa della sezione che ad esse è affidata”. “Responsabilità educativa”: la legge n. 444 è stata una delle prime leggi ad associare l’educazione alla responsabilità che ogni educatore ha non solo nei confronti del bambino ma verso la comunità. La responsabilità educativa richiama anche la responsabilità civile in educando ex art. 2048 cod. civ.. La responsabilità richiama pure due aspetti fondamentali in una relazione educativa: la ricettività e la responsività, “posture relazionali” tipicamente materne. La ricettività è la capacità di accogliere gli “appelli”, soprattutto emotivi, provenienti dall’educando e la responsività è la capacità di dare un’adeguata risposta a questi “appelli” e di adattarvisi. La relazione educativa non solo deve essere basata sulla ricettività e responsività ma educare anche a queste capacità. “Affidamento” (istituto tipico del diritto di famiglia): i bambini non appartengono a nessuno per cui bisogna rapportarsi con loro non in maniera possessiva o esclusiva ma col giusto distacco. I bambini ci sono affidati per consegnarli (dal significato letterale di affidare), poi, alla vita trasmettendo loro fiducia (dal significato etimologico di affidare dal latino “fides”, fede, fiducia). Questo significa dare loro il futuro che è un loro diritto.
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