E’ illegittimo il provvedimento che dispone la proroga della sospensione disciplinare del dirigente sanitario, ex art. 19 comma 1° CCNL della dirigenza medico sanitaria del Servizio Nazionale, in quanto sottoposto, in sede di procedimento penale, a misura restrittiva della libertà personale, laddove, cessata quest’ultima, non sia intervenuto “il rinvio a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque per fatti anche estranei alla prestazione lavorativa, di tale gravità da comportare, se accertati, il recesso”, alla luce delle combinate disposizioni ex successivi commi 2° e 3°.
Con la sentenza n. 258/2011, in commento, la Corte d’Appello di Campobasso, in funzione di Giudice del lavoro, si è pronunciata in tema di legittimità della proroga del provvedimento di sospensione dal servizio, adottato dal direttore generale dell’Azienda Sanitaria Regionale, nei confronti di un dirigente – primario responsabile dell’U.O.C. ostetricia e ginecologia.
La pronuncia del Giudice d’Appello, unico precedente nel vasto panorama giurisprudenziale italiano, si segnala per aver espresso una posizione difforme dall’orientamento della Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi su questioni analoghe.1
Venendo ai fatti, la sospensione dal servizio veniva prorogata dall’Azienda nei confronti del dirigente che aveva subito un provvedimento cautelare, in quanto già destinatario di misura restrittiva della libertà personale per fatti costituenti reato e afferenti il rapporto di lavoro. L’applicazione di quest’ultima, ai sensi del comma 1° ex articolo 19 del CCNL della dirigenza medico sanitaria del Servizio Nazionale 3/11/2005, rende obbligatorio infatti il ricorso al provvedimento sospensivo.
Il direttore generale provvedeva alla proroga della sospensione facendo richiamo al comma 3° del citato articolo, che consente all’azienda o ente, laddove “sia cessato lo stato di restrizione della libertà personale” di cui al comma 1°, di prolungare il periodo di sospensione del dirigente nel caso in cui ricorrano le medesime condizioni previste al precedente comma 2.
E’ inevitabile che il giudizio di legittimità della proroga del provvedimento sospensivo verta anzitutto sulla corretta interpretazione applicativa delle condizioni contenute in quest’ultimo comma, per cui,“il dirigente può essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione anche nel caso in cui venga sottoposto a procedimento penale che non comporti la restrizione della libertà personale quando sia stato rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque per fatti anche estranei alla prestazione lavorativa, di tale gravità da comportare, se accertati, il recesso ai sensi dell’art 35 CCNL”.
Più nello specifico, si tratta di individuare esattamente quali siano le “medesime condizioni”, cui si rinvia nel successivo comma 3°, che laddove riscontrate consentono di prorogare la sospensione.
Dal tenore letterale del comma 3°, si evince che i presupposti in disamina siano il “rinvio a giudizio” e/o la valutazione sulla afferenza dei fatti al rapporto di lavoro, o sulla idoneità ad integrare un provvedimento disciplinare.
Nel caso in esame, il provvedimento di sospensione veniva prorogato sebbene la misura restrittiva della libertà personale fosse stata revocata dal Gip (in quanto cessate le esigenze cautelari) e nonostante il dirigente fosse, all’epoca dei fatti, semplicemente indagato e l’azione penale non ancora esercitata nei suoi confronti,.
In sede di ricorso il giudice di primo grado non accoglieva le istanze difensive del ricorrente e disconosceva natura di presupposto/condizione al rinvio a giudizio, ai fini del prolungamento della sospensione.
La Suprema Corte pronunciatasi su fatti analoghi, aderendo alla posizione del giudice di merito testé menzionata, ha circoscritto le “medesime condizioni” di cui al comma 3° alle sole caratteristiche dei fatti attribuiti, e a la capacità di legittimare il licenziamento disciplinare, destituendo il rinvio a giudizio dalla funzione di “condicio sine qua non” ai fini della proroga.
La S.C., come si legge nella sentenza in commento, deduceva in supporto alla propria tesi, diverse argomentazioni.
In primo luogo, rimarcava la differenza tra le due situazioni contemplate dall’art. 19 nei commi 2°, per il caso in cui il dirigente non sia stato colpito dalla misura cautelare, e il comma 3°, che si riferisce alla situazione in cui sia stata già applicata la misura restrittiva nei confronti del dirigente, poi cessata. Così argomentando, la Cassazione, a giudizio di chi scrive, tende piuttosto a tracciare una linea di continuità tra il 1° e il 3° comma, dovuta al comune denominatore della applicazione di una misura restrittiva nei confronti del dirigente, che nel primo dei commi testé citati rende obbligatorio, ipso iure, la sospensione cautelare, nell’altro, cessata, ne consente la proroga.
In definitiva, il rinvio a giudizio, come presupposto ai fini del provvedimento sospensivo, troverebbe giustificazione solo nel caso di cui al comma 2°, laddove ai fini della sospensione si prescinde da misure restrittive.
Sempre secondo la S.C., inoltre, nel configurare il rinvio a giudizio come condizione necessaria, nei casi ex comma 3°, è insito il rischio di un trattamento più favorevole per il dirigente, laddove l’accertamento dei fatti risultasse di complessità tale da dilatare i tempi del rinvio a giudizio e presumibilmente comportare il differimento del provvedimento sospensivo, risolvendosi in una replica dell’ipotesi di cui al comma 2.
La Corte proseguiva argomentando che dal tenore letterale del comma 3° si potesse escludere il rinvio a giudizio dai presupposi della proroga, per il fatto che in esso ci si riferisca ad una pluralità di condizioni, da ricercarsi nella natura dei fatti addebitati, piuttosto che nell’esercizio dell’azione penale.
Infine, puntualizzava come l’uso del temine prolungamento di cui al comma 3° lasciasse intendere la proroga come prossima ad una naturale prosecuzione della sospensione obbligatoria, e affrancata quindi dalla esigenza del rinvio a giudizio.
Diversamente, la Corte d’Appello di Campobasso con la sentenza in commento ha affermato la “necessità del rinvio a giudizio”, ai fini del prolungamento del provvedimento sospensivo, anche nei confronti del dirigente che, sottoposto a procedimento penale, sia stato colpito da misura restrittiva della libertà personale, poi cessata.
Il giudice di secondo grado, in sede argomentativa, ha provveduto anzitutto ad inquadrare correttamente le diverse situazioni oggetto dell’art. 19. abbracciando l’approccio ermeneutico, dedotto in sede difensiva dai legali del dirigente, coerentemente, ad avviso di chi scrive, con il tenore letterale dei commi in disamina.
Nella sentenza, infatti, viene preliminarmente posto in evidenza come nell’ipotesi di cui al 1° comma il provvedimento sospensivo intervenga obbligatoriamente a fronte della comminazione di una misura cautelare, mentre nell’ipotesi di cui al 2° comma, la condizione perché possa applicarsi facoltativamente la sospensione è il “rinvio a giudizio” a fronte di fatti afferenti il lavoro o di particolare gravità; ciò è dovuto alla circostanza che, avverso il dirigente, in quest’ultimo caso, non sono comminabili misure restrittive della libertà personale.
La funzione del 3° comma è quella, invece, di consentire l’applicabilità della sospensione, prolungandola, nell’ eventualità che il dirigente sia già stato sottoposto a misura cautelare, e che questa sia cessata, sempre che ricorrano le “medesime condizioni” di cui si è detto.
Il Giudice del gravame ha rilevato, nel chiarire il portato del comma 3°, come in assenza della previsione testé richiamata il dirigente – anche se rinviato a giudizio – non avrebbe potuto essere colpito da sospensione in quanto la sua posizione non avrebbe potuto essere sussumibile in alcuno dei due commi precedenti.
Inquadrati i 3 commi in discorso sotto il profilo sistematico-funzionale, il giudice ha sottolineato quanto il mancato riconoscimento del rinvio a giudizio, come condizione necessaria ai fini della proroga, conduca ad un trattamento iniquo verso il dirigente già destinatario di una misura restrittiva, ma cessata, rispetto al dirigente che, soggetto a procedimento penale, non sia stato sottoposto ad analoga misura.
Il rischio di una irragionevole disparità appare tanto più evidente se si considera che la cessazione della misura cautelare potrebbe imputarsi al venir meno degli indizi di colpevolezza, come evidenziato nella sentenza in commento.
Proseguendo poi nell’esame del dato letterale, evocato dalla Suprema Corte, il fatto che il comma 3° richiami più condizioni, piuttosto che la necessità del rinvio a giudizio, in realtà avvalora proprio la tesi opposta, tendente ad includere quest’ultimo tra il novero dei presupposti cui prestare attenzione in sede di proroga della sospensione.
Come giustamente osservato dal Collegio giudicante, nel disposto normativo sono rinvenibili almeno due condizioni/presupposti: il rinvio a giudizio “più” la valutazione circa l’afferenza al rapporto lavorativo e la gravità dei fatti addebitati.
Ad ulteriore conferma, nella pronuncia in oggetto viene constatato come il comma 3 non escluda espressamente il rinvio a giudizio dal novero dei presupposti che legittimano il ricorso al provvedimento sospensivo.
Non appare, infine, condivisibile, secondo la Corte d’Appello, il ritenere la proroga un normale prolungamento del provvedimento sospensivo obbligatorio ovvero come “prosecuzione della sospensione dal servizio senza soluzione di continuità” (come ritenuto dalla S.C.).
Ergo, sulla base di quanto sopra, veniva disposta la riammissione del dirigente in servizio sul presupposto che al tempo dell’adozione della proroga della sospensione lo stesso risultava solo indagato, ritenendo quindi illegittimo il provvedimento.
Indirizzo, quest’ultimo, a parere di chi scrive, da condividersi essenzialmente per la maggiore coerenza sistematica rinvenibile nella lettura data dal giudice di seconda istanza all’ art. 19 del CCNL in discorso.
Infatti, aderendo alle valutazioni espresse nella sentenza in commento, è evidente che i commi 2 e 3 riguardano entrambi situazioni in cui il provvedimento sospensivo è facoltativo, quindi non si vede perché, sistematicamente, debbano essere adottati criteri diversi in sede applicativa, soprattutto in ragione del rinvio di cui al 3° comma.
Ciò risulta tanto più coerente con il fatto che, anche nei casi di proroga, comunque si registra un momento valutativo di natura facoltativa, non essendo la proroga in questione, come opportunamente precisato dalla Corte, di naturale prosecuzione, senza vincolo di continuità, della sospensione.
Assolutamente condivisibile è l’inclusione del “rinvio a giudizio” tra le condizioni rilevanti ai fini della applicazione della proroga, anche sulla base del tenore letterale del 3° comma laddove declina al plurale i presupposti di applicabilità (“condizioni”).
Tra le argomentazioni più degne di seguito, offerte in sentenza, merita particolare attenzione il rilievo che laddove la proroga della sospensione venga concessa in difetto di rinvio a giudizio, comporterebbe una palese iniquità nei confronti del dirigente colpito da misura restrittiva della libertà personale, cessata per venir meno del “fumus commissi delicti”, situazione ermenuticamente prossima al comma 2.
1 Si veda in particolar modo la sent. 11738 del 14.05.2010, citata nella pronuncia in commento.
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