Emerson ha identificato la vita stessa come una ricerca continua di potere, questa visione pervasiva è da Weber suddivisa in un “potere legittimo” in cui vi è tra le parti un riconoscimento reciproco dei ruoli, circostanza che di per sé stessa impone dei limiti e offre delle garanzie al suo esercizio, e la “potenza” nella quale vi è il prevalere esclusivo di una delle parti fuori da qualsiasi limite relazionale, si va per tale via verso forme arbitrarie di carattere autocratico.
Il potere si manifesta in termini giuridici, quale espressione di leggi e diritti, in termini politici, quale possibilità di determinare le regole da imporre alla comunità, e in termini organizzativi, come capacità di influenzare i comportamenti altrui.
Per Weber vi sono tre tipi di legittimità, quello “tradizionale” derivante dalle credenze e consuetudini, quello “carismatico” originato dalla sacralità eroicizzata di una leadership e, infine, quello “legal-razionale” proprio del sistema fondato su una normativa elaborata da organo costituzionali rappresentanti le parti sociali.
Le relazioni tra persone e gruppi sono fondate sull’influenza, ossia sulla capacità di ottenere l’acquiescenza che assume varie forme di dipendenza; questa è originata o da calcolo, in base ai reciproci costi e benefici economici e sociali, come nei rapporti lavorativi nei quali vi è un misto di alienazione e impegno, o dalla forza ed è quindi imposta con senso di “alienazione” e volontà di “evasione”.
Del tutto differenti sono le relazioni di commitment, nelle quali vi è un forte impegno e coinvolgimento personale per motivi valoriali, in questi vi è un’influenza che difficilmente si trasforma in acquiescenza per il forte impegno motivato dall’adesione a valori profuso dal singolo.
Nel contratto psicologico si ha la legittimazione del potere entro precisi rapporti di scambio e riconoscimenti reciproci, il loro superamento fa sì che il potere si auto legittimi sull’uso della forza creando una sua verità da imporre ai terzi, si filtra e si crea l’informazione conforme al “sapere” accettato; esso da una sua connotazione negativa può acquisire, secondo Foucault, una funzione positiva di normalizzazione, istituzione e controllo.
Da un potere di ricompensa e coercizione si passa al potere derivante dall’esperienza e dal carisma, l’uno trasmissibile l’altro difficilmente trasmissibile essendo fondato su caratteristiche personali, entrambi comunque portano all’acquiescenza e gli eventuali conflitti psicologici tendono ad essere risolti mediante una progressiva assuefazione per deresponsabilizzazione ( Milgran), le eventuali resistenze si concentrano per lo più verso il potere derivante dall’uso della coercizione o delle ricompense.
Se nelle organizzazioni il potere è prevalentemente di ruolo e dipende da contingenze strategiche relative prevalentemente all’incertezza ambientale, alla centralità nel flusso delle comunicazioni e alla scarsa sostituibilità nelle attività stesse, quello che emerge quale caratteristica comune per coloro che cercano il potere è la fiducia in sé stessi, l’orientamento all’organizzazione e il bisogno di potere.
Nella necessità di mantenere il potere può nascere una conflittualità tra la necessità di attrarre persone di talento, in modo da rinforzare il gruppo, e la necessità di influenzarle, controllandone il comportamento al fine di evitare la modifica delle relazioni di forza, quello che è emerso in vari esperimenti è il condizionamento che comunque il ruolo ( tensioni di ruolo) può avere sull’individuo, anche a seguito della pressione psicologica del gruppo ( Milgran).
Il potere si esplica in forme diverse a seconda della dimensione del gruppo, istituzionalizzandosi vengono a crearsi ruoli burocratici intermedi che cercano di accentrare fette di potere innescando conflitti, si perde progressivamente la spontaneità e il rapporto di retto con i capi e le persone carismatiche che determinano i confini psicologici nonché i significati e i valori, ampliando gli attori e i metodi dei giochi manipolativi ( Alberoni).
I conflitti che si innescano diventano positivi solo se percepiti in termini di scambio di opinioni e non di prevaricazione di una delle posizioni, per questo fondamentale è il metodo di gestione.
Nei conflitti vi sono tre dimensioni ( Galtung):
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Comportamentale, relativa alle azioni osservate dalle parti;
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Atteggiamenti e percezioni, relativa al modo di “vedere” l’insieme e le singole azioni, quindi di carattere “cognitivo”;
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Motivi del conflitto, relativa agli interessi che vi sono alla base;
queste dimensioni conflittuali sono interdipendenti e comunque possibili di modificare i termini del conflitto a seguito del verificarsi di nuove tipologie di azioni.
Se nel caso sopra descritto si ha un conflitto interpersonale non è da meno la possibilità che, una volta nel gruppo, sorgano conflitti all’interno della persona stessa secondo le modalità individuate da Lewin, dobbiamo considerare che a seconda del tipo di conflitto si possono creare disturbi nella personalità o al contrario uno stimolo, basti pensare alle ipotesi di conflitti di doppio evitamento o al contrario avvicinamento, oppure ai conflitti di doppio avvicinamento-allontanamento.
I conflitti possono essere prevenuti ma difficilmente sono integralmente inevitabili, rimanendo fisiologici se gestiti in modo tale da evitare che si trasformino da confronto creativo in una guerra distruttiva per il gruppo, dobbiamo infatti considerare che si conosce nell’essenza e quindi si apprezza veramente una cosa o una situazione solo se si sperimenta il suo opposto ( Eraclito), per tale via si supera la concezione unitario-tradizionale della necessità di evitare qualsiasi conflitto, in quanto esclusivamente dispersivo e distruttivo; quello che necessita realmente è domandarci se la soluzione del conflitto porti alla cooperazione o ad un ulteriore allontanamento ( Tosi – Pilati).
I fattori scatenanti il conflitto sono vari e possono derivare da fattori “individuali”, quali valori, atteggiamenti, convinzioni, bisogni, personalità, percezione e giudizi, o da fattori “situazionali”, quali bisogno di consenso, incapacità di status, necessità di una forte interdipendenza nell’azione, ambiguità di responsabilità, o infine da fattori “organizzativi”, quali scarsità di risorse, interferenze fra autorità, regole e procedure non in grado di ridurre il potenziale di negoziazione ( Tosi- Pilati).
La creazione di un sentimento di “cittadinanza organizzativa” può favorire la soluzione della conflittualità, nonché il rapporto con la leadership sia nella comunicazione e quindi nella mediazione, che nel fare emergere una “intelligenza sociale” atta a meglio compenetrare i ruoli per il raggiungimento degli scopi del gruppo.
La gestione dei conflitti risultano essere anche il risultato dei processi di socializzazione, che vengono ad influenzare la personalità così da formare e selezionare gli stili di reazione che possono andare da uno strettamente competitivo, al collaborativo e all’accomodante, fino a colui che per motivi personali o culturali viene ad evitare il più possibile il conflitto stesso.
Il venire meno nella conflittualità di una legittimità legal-razionale che affonda in parte le proprie radici nella tradizione, favorisce l’affermarsi di un potere carismatico da istituzionalizzarsi successivamente, d’altronde la distruzione in un conflitto non gestito degli ideali di un soggetto può condurre questi alla disillusione e alla sua evoluzione in cinismo ideologico dell’utile, estremamente aggressivo e distruttivo, come all’opposto nella ricerca dell’affermazione di una propria giustizia superiore, anche a scapito della funzionalità della comunità “niente aldilà, niente aldiquà, soltanto un futuro che si decide qui e adesso” ( Glucksmann).
Bibliografia
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H. L. Tosi- M. Pilati, Comportamento organizzativo, Egea, 2008;
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M. Weber, Economia e società, Zanichelli 1968;
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M. Foucault, Potere e strategie, Mimesis, 1994;
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S. Milgran, Obbedienza all’autorità, Bompiani, 1975;
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F. Alberoni, Genesi, Garzanti, 1989;
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J. Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, 1996;
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K. Lewin, Principi di psicologia topologica, O.S.,1961;
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N. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. I, Utet, 1974;
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A. Glucksmann, Ideologia e rivolta, in Storia delle Ideologie, a cura di F. Chatelet, Vol. II, Rizzoli, 1978;
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